di Emilio NEGRO
Un ritratto di Giovanni Santi
Giordano Bruno, nel De la Causa, Principio et uno che è considerato il fulcro del suo pensiero filosofico, scrisse:
“chi vede il ritratto di Elena, non vede Apelle, ma vede l’effetto de l’operazione che proviene da la bontà de l’ingegno d’Apelle”.
Una “bontà d’ingegno” che nel caso della produzione ritrattistica di Giovanni Santi, ricordata dalle fonti antiche, ma finora non rintracciata, si poteva dedurre ricavandola dai volti dei committenti e dei personaggi sacri raffigurati nelle sue pale d’altare1.
Fu Giorgio Vasari a darci – “con intenzione critica”2– le prime notizie riguardanti il Santi che fu pittore di corte di Federico da Montefeltro, umanista e soprattutto padre e primo maestro di Raffaello3; ciò nonostante si è dovuto attendere fino al XIX secolo affinché Pungileoni, Passavant e Schmarsow ne tracciassero un primo profilo biografico4, mentre gli studi più recenti al pari delle ricerche precedenti non avevano portato al ritrovamento di alcuno di quei ritratti5. Questi furono un numero indefinito di dipinti, raffiguranti notabili del tempo, che sappiamo costituirono una componente essenziale del catalogo santiano, tanto essenziale da essere apprezzati da Isabella d’Este marchesa di Mantova, la raffinata consorte di Francesco II Gonzaga che aveva voluto nel suo entourage i più bei nomi delle arti e delle lettere. Fra i personaggi di spicco chiamati a far parte di quella cerchia di eletti c’era anche Giovanni Santi, invitato presso la corte mantovana nel 1493, proprio per eseguire alcuni pregevoli ritratti.
Dunque, fino ad un decennio or sono per testimoniare le singolari capacità di ritrattista del padre di Raffaello non restavano che le “sacre conversazioni”, poco meno di dieci pale d’altare nelle quali egli dipinse numerosi personaggi molto caratterizzati e rassomiglianti tra loro, poiché realizzati con l’ausilio dei cosiddetti “patroni” o sagome di carta, utilizzati come moduli-base per rendere più agevole l’esecuzione di beati, devoti, paesaggi e architetture, al fine di ottenere un effetto finale più armonico. E’ osservando opere quali le due Madonne col Bambino, l’una già a Berlino (Kaiser Friedrich Museum), l’altra a Poznan (Muzeum Narodowe), o i due Cristi morti custoditi rispettivamente a Urbino (Galleria Nazionale delle Marche) e a Pesaro (Pinacoteca Civica), che ci si rende conto di come il Santi usasse sistematicamente questo espediente, un accorgimento collaudato che se da una parte accorciava i tempi d’esecuzione delle pitture, dall’altra causava una certa ripetitività delle loro strutture compositive popolate da personaggi assai simili tra loro.
Tali figure dai volti agevolmente riconoscibili hanno consentito di farsi un’idea prossima al vero di come dovevano essere quei quadri perduti: effigi di nobildonne e gentiluomini, con le mani grevi, tozze e un po’ legnose, con i volti generalmente posti in tralice, contraddistinti da larghe arcate sopraccigliari che convergono nelle linee diritte dei nasi. Sembianti del tutto simili a quelli degli eletti raccolti in crocchio nella distrutta Madonna in trono col Bambino, quattro santi, due cherubini e un donatore o Pala Mattarozzi (già Berlino, Kaiser Friedrich Museum), nella Madonna in trono col Bambino, quattro santi, cherubini, angeli musicanti e un donatore, firmata e datata 1489 (Frontino, Montefiorentino, chiesa dei Frati Minori), nell’Incoronazione della Madonna in trono col Bambino, Dio Padre, quattro santi, angeli e tre donatori (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche), ecc.
La mancanza di ritratti dal corpus pittorico di Giovanni Santi ci aveva privati di un’importante testimonianza storica, ma a questa situazione di stallo ha posto fine la pubblicazione di un Ritratto di giovane uomo con berretto nero e scure in pugno (collezione privata, fig. 1), che fu eseguito a tempera su un’unica tavola di pino (cm 51 x 39 x 1,2); il dipinto è stato oggetto in passato di pesanti restauri, sicché le sue condizioni conservative non sono ottimali: già da un primo esame si notano diverse cadute e assottigliamenti della materia pittorica, come ad esempio sul berretto, sull’occhio sinistro, sulla veste, ecc.6. Nel 2008 è stato sottoposto ad un delicato lavoro di ripristino realizzato dal Laboratorio degli Angeli di Bologna che ha permesso di rimuovere le pesanti ridipinture e renderne più chiara la lettura.
Lo sconosciuto personaggio raffigurato è di aspetto giovane, ha rossicci la barba e i lunghi capelli lisci, ed è effigiato a mezzo busto sullo sfondo di un elegante drappo blu delimitato da due strisce sottili di tessuto bianco che risaltano sul fondale più scuro; si tratta sicuramente dell’immagine di un notabile che indossa con signorilità pochi capi essenziali di un abbigliamento raffinato, composto da un abito nero con larghe maniche e ampia scollatura (presumibilmente una giornea), dalla quale esce una camicia candida con il collo squisitamente ricamato a rombi. L’ignoto gentiluomo ha sul capo una berretta nera e stringe nella mano destra una scure, verosimile indizio di appartenenza a un ordine cavalleresco; l’arma, a causa delle ridipinture, era stata allungata e trasformata inopinatamente in una mezza picca o freccia da vessillo7.
I caratteri stilistici dell’opera sono quelli tipici della scuola centro-italiana della seconda metà del XV secolo che si avvale di un linguaggio figurativo d’ascendenza veneto-padovana, sul quale si innestano cadenze fiamminghe e una novella visione fisionomico-ritrattistica derivata dalla frequentazione delle opere di Giovanni Bellini e Piero della Francesca; siamo dinanzi ad un lessico pittorico decisamente evoluto che si muove ormai in parallelo con i più accattivanti modelli ritrattistici di Pietro Perugino. Questi elementi di stile molto particolari concordano con quelli che compaiono nei volti dipinti dal Santi: si confronti ad esempio il nostro ritratto con l’affresco frammentario raffigurante S.Sebastiano (Cagli, Museo Civico), con il viso accigliato del santo guerriero nella citata pala di Montefiorentino, ovvero con i placidi lineamenti del S.Rocco (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche). In queste effigi di beati, al pari del Ritratto di giovane uomo con berretto nero e scure in pugno, si evidenzia la medesima precisione nella rappresentazione delle capigliature e delle barbe assai curate, mentre il merletto romboidale meticolosamente delineato sul collo della camicia trova una simile accuratezza descrittiva nella raffigurazione dei tessuti e degli oggetti preziosi dipinti nelle pale dal maestro marchigiano, come accade nel ricamo della dalmatica di S.Stefano (all’interno della pala con la Madonna col Bambino, angeli e santi di Gradara, Museo della Rocca), nella guarnizione del drappo alle spalle della Madonna col Bambino (Londra, National Gallery), nel fregio che decora le pagine del libro pregiato di S.Girolamo (nella ricordata Sacra conversazione di Montefiorentino): preziosismi pittorici che vengono meno quando il Santi raffigura quei visi atipici per i quali adotta, un po’ meccanicamente, fisionomie ispirate a modelli di Melozzo da Forlì e di Luca Signorelli, arricchiti dai lucidi effetti luministici di Giusto di Gand e temperati dal classicismo languido di Perugino.
Questi importanti caratteri morelliani sono concordi con quanto si legge nelle vecchie iscrizioni poste sul rovescio della nostra tavola, sopra l’ammanitura color avorio (ossia l’antico trattamento fatto per proteggere il legno dagli insetti xilofagi), derivate probabilmente da una tradizione orale o da un riferimento inventariale perduto. Tra queste risalta la scritta più arcaica che, tracciata con inchiostro nero in ampi caratteri corsivi sei-settecenteschi, riporta la dicitura: “Del Pintor Giovanni Sanzio” (fig. 2)8.
Considerando che si è dovuto attendere fino all’Ottocento per riscoprire l’individualità artistica di Giovanni Santi, l’iscrizione risulta essere piuttosto credibile, essendo improbabile che sia stata tracciata con l’intento di rendere più agevole il commercio della tavola: in quegli anni lontani, al fine di una vendita sarebbe stato più opportuno cancellare il nominativo “Giovanni” e lasciare il solo cognome “Sanzio” che riconduceva l’attribuzione a Raffaello.
Le altre scritte provano gli approdi successivi dell’opera nel Regno Unito e in Italia (3 marzo 1955)9, mentre il nome che ricorre maggiormente nelle antiche diciture è quello del Santi; ma anche supponendo che il ritratto fosse privo di vecchie attribuzioni, chi tentasse di individuarne la scuola pittorica per arrivare poi al probabile autore, non potrebbe esimersi dal metterlo in relazione con uno specifico humus culturale da cui deriverebbe la proposta di un nome preciso: l’ambiente è quello urbinate di fine Quattrocento, mentre il nominativo che si ricava dai segni di stile è quello che collima con la vecchia dicitura “GIOVANNI SANT. O SANZIO” incisa sulla targhetta d’ottone inchiodata sul bordo della bella cornice in stile rinascimentale, realizzata nel secolo da poco trascorso dalla nota ditta di corniciai bolognesi Federici.
Emilio NEGRO Bologna 30 agosto 2020