di Massimo PULINI
Appartiene quasi alla sfera mitologica e agli aneddoti legati al più grande storico e conoscitore d’arte, la notizia che Federico Zeri richiedesse solo foto in Bianco e Nero, ai collezionisti e agli antiquari che lo assediavano per avere un parere su dipinti antichi di loro proprietà.
La narrazione deve corrispondere al vero se la quasi totalità del suo archivio, conservato presso la Biblioteca Universitaria di Bologna, è composta da immagini di buona leggibilità, ma rigorosamente monocromatiche. D’altro canto ogni studioso trova conferma di questo tutte le volte che digita sul web il nome di un qualsiasi artista, vissuto tra il Trecento e il Settecento, e si può quasi stare certi che le foto in Bianco e Nero presenti nella prima schermata, rimanderanno al sito della Fototeca Zeri.
Qualcuno potrebbe chiedersi come mai il genio di Mentana preferisse non avere informazioni cromatiche sulle opere che doveva studiare, ma questa ferrea e singolare predilezione trovava motivo nella scarsa durata che veniva garantita dai primi processi di stampa fotografica a colori. Si può dire che fino alla metà degli anni Ottanta del Novecento i colori stampati nelle foto tendevano a sbiadire e in molti casi, se esposti alla luce, giungevano a una progressiva perdita di contrasto che talvolta si tramutava in una totale sparizione dell’immagine.
Tutti noi conserviamo, nei cassetti di casa, alcune foto di famiglia che hanno inesorabilmente preso quel languore cromatico che le rende simili a un pastello. Quegli inconvenienti nel fissaggio della stampa a colori ora possono considerarsi risolti, magari oggi hanno fatto capolino altre difficoltà nei dispositivi elettronici che usiamo[1], ma questo ci porterebbe verso altri argomenti.
La premessa mi serve per tornare a riflettere su un tema che già avevo trattato più di quindici anni fa, quando scrissi due saggi[2] intorno a un possibile soggiorno spagnolo del pittore Luigi Amidani, nato a Parma nel 1591 e dato per morto nel 1629, anno della peste manzoniana e quello in cui si perdeva ogni traccia, in patria. Mi era capitato di trovare alcune serie di opere, attribuibili all’artista, che avevano collocazione e origine iberica e che di certo risultano frutto della fase più estrema di Amidani.
Nel primo dei miei scritti pubblicai, purtroppo attraverso spente fotografie in Bianco e Nero, un nutrito gruppo di piccole opere (ciascuna di cm. 40 x 35) dedicate al Martirio degli Apostoli.
Quegli stessi dipinti, conservati a Madrid presso l’Academia Real de San Fernando[3] (Foto 1-11), ora, grazie a un rinnovato archivio on line della collezione, posso mostrarli a colori.
La differenza non è di poco conto, se è vero che l’autore era stato il migliore allievo di Bartolomeo Schedoni (Modena 1578 – Parma 1615).
La formazione di Amidani avvenne infatti nel periodo più squillante e intenso del genio di Schedoni, maestro di un colore intarsiato e puro, di una geometria sposata al naturalismo, ma un maestro che lasciò prematuramente orfano l’allievo.
Nel 2004, sulla rivista Parma per l’Arte, rendevo conto anche di una deduzione piuttosto clamorosa, legata al viaggio italiano di Diego Velázquez che coincise proprio con quel fatidico 1629. Documenti già noti da secoli, legavano il soggiorno del grande artista spagnolo a ragioni di spionaggio internazionale, connesse alla cosiddetta Guerra dei Trent’anni. Velázquez, dopo aver viaggiato col vertice delle armate spagnole, con la flotta militare capitanata dal generale Ambrogio Spinola, si spinse a Parma presso i Farnese, preceduto da una lettera dell’ambasciatore Flavio Atti che metteva in guardia la duchessa, raccomandandole letteralmente di “dire all’Amidani di tenere la bocca chiusa”, dato che a questi era affidato il compito di anfitrione, di accompagnare il Velázquez nei suoi spostamenti italiani.
Senza ripercorrere tutta la sequenza di testi e considerazioni di allora, va ricordata la scomparsa dalle carte e dai pagamenti farnesi del nome di Luigi Amidani nel 1629. Per contro ebbi modo di ritrovare altre sue opere di grande formato al Museo di Valencia[4] (Foto 12-13)
e altre ancora, appartenenti allo stesso gruppo, le aggiunse Alberto Crispo (Foto 14-15)[5].
Questa consistente quantità di dipinti gettò una nuova luce sulla stagione successiva a quella data, aprendo scenari immaginabili sul comportamento morale che il pittore parmense tenne in quel frangente storico.
Che Velázquez in quel viaggio fosse andato a far visita a Guercino è cosa certa, che ci sia andato con Amidani e tramite questi avesse cercato di convincere anche l’artista centese a perorare la causa spagnola presso gli Este, ammetto che è una mia personale fantasia[6], ma se qualcosa del genere fosse accaduto ritengo che il carattere etico del Barbieri avrebbe respinto ogni compromissione.
Non disponiamo di un documento che attesti con certezza nemmeno l’atto di delazione da parte di Amidani, è tuttavia plausibile dedurlo dalla conseguente protezione professionale che gli venne di fatto assicurata in Spagna.
Molte altre opere tarde del pittore parmense ho potuto ritrovare nella penisola iberica anche se possiamo vederle ancora da vecchie foto in bianco e nero (Foto 16-19).
Va pure considerato che la stessa sequenza iconografica del Martirio degli Apostoli trova solo nella penisola iberica un sistema narrativo compiuto.
Mostro a colori un altro dipinto, raffigurante una energica Susanna e i vecchioni (Foto 20-21) che proviene dalla spagnola collezione Carvallo, trasferitasi in Francia, presso il castello di Villandry[7].
Fino a qualche tempo fa veniva considerata opera di Jusepe de Ribera e anche se oggi appare ingenua tale attribuzione, resta indicativa di un avvenuto innesto dell’autore con la cultura spagnola.
Credo appartenga al periodo iberico di Amidani anche la Samaritana al pozzo transitata di recente presso la Galleria Cantore di Modena[8] (Foto 22).
Va sottolineato, oltre allo stile ardito e radicale del dipinto, l’eccezionale efficacia pittorica che impressiona al momento della sua visione diretta, inaspettata nelle dimensioni per chiunque l’abbia dapprima conosciuto attraverso una riproduzione fotografica. Dipinti come questo attestano una indipendenza e un valore che permisero di certo all’autore di guadagnarsi un ruolo anche in terra straniera.
Non va escluso peraltro che gli stessi due dipinti serviti ad Alberto Crispo per immaginare una fase lombarda del pittore, il San Bartolomeo della Sabauda di Torino (Foto 23)
e lo Scorticamento di Marsia del Castello Sforzesco di Milano[9] (Foto 24) possano in realtà essere frutto spagnolo dell’artista emiliano.
Non stupisce che potesse trovare credito la miscela tra l’ultimo manierismo padano e le asprezze che ammiccavano al Ribera. La ricchezza di sbalzi cromatici e l’azzardata costruzione grafica trovano infatti analogie con le opere di Juan Luis Zambrano (Foto 25)
se non con certi dipinti attribuiti a Francisco Zurbaran[10] (Foto 26) davvero somiglianti ai modi di Luigi Amidani.
Aggiungo infine una pala d’altare appartenente però al periodo giovanile dell’artista parmense, che per motivi a me ignoti si trova presso una chiesa della diocesi di Campobasso-Boiano[11]. Raffigura una Visione di Sant’Ignazio di Loyola (Foto 27), e conserva ancora quelle ascendenze neo correggesche che caratterizzarono la prima vita di Luigi.
Credo vada divisa in due distinte vite la parabola stilistica di questo intelligente pittore. La prima segnata dalla tenerezza e da una idea di grazia intima e soffusa al punto che anche le tematiche frequentavano spesso gli affetti domestici, mentre la seconda parte della sua esistenza sembra contorcersi nel dramma e quasi manifesta un acquisito cinismo narrativo, anche nei soggetti trattati.
Con buona pace di Federico Zeri credo proprio sia di grande importanza la visione a colori di queste opere spagnole, che trovano nel contrasto cromatico una forza espressiva indimenticabile, che tornerà utile anche alle prossime scoperte.
Nel carnet delle cose che restano da fare, nell’infinito paniere dei propositi, va messo anche una ricerca documentaria che permetta di dare riscontro a quel che già i quadri iberici mirabilmente anticipano.
Massimo PULINI Rimini 1 novembre 2020
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