Il ” ‘900 Classico “; non solo revival nella nuova esposizione della Galleria il Laocoonte (fino al 15 gennaio)

redazione

Il primato del disegno e  dunque l’amore per la classicità rivisitata in chiave moderna: con questa sorta di slogan ci pare possibile sintetizzare il lavoro di ricerca, sperimentazione, approfondimento e, com’è ovvio, esposizione su cui la Galleria il Laocoonte da quando è sorta  impronta le sue iniziative. Nell’intervista che non molto tempo fa la Direttrice, Monica Cardarelli concesse ad About Art, questo concetto era espresso assai bene ( cfr  https://www.aboutartonline.com/scoprire-riscoprire-disseppellire-ma-sotto-il-segno-del-disegno-monica-cardarelli-spiega-le-scelte-della-galleria-il-laocoonte/ )

Ed a questa impostazione  –che sottintende un preciso ordine di idee e valori incentrati alla proposizione di una concezione dell’arte che ci azzarderemmo – e non sembri un paradosso- a definire nicciana, se è vero che il richiamo alla tradizione si fonde con una sorta di vitalismo estetico- non sfugge la mostra intitolata ‘900 Classico che se non fosse per la sciagurata contingenza in cui ci troviamo tutti ad operare, avrebbe senz’altro attirato un pubblico di gran lunga più numeroso di quello che comunque nel rispetto rigoroso delle norme anti covid sta frequentando le tre sedi espositive, di via Monterone 13–sede tradizionale della Laocoonte- nonché le due di via Margutta, ai numeri 53B e 81.

Monica Cardarelli peraltro è una scrupolosa storica dell’arte, una studiosa che mira tra le altre cose a porre in luce i nessi tra rappresentazione artistica e società, nel tentativo di mettere a fuoco ciò che pare starle particolarmente a cuore, vale a dire cercare di staccare determinati artisti e correnti artistiche dagli steccati delle monografie o delle sale dei musei per proiettarli in quello che effettivamente è il loro spazio d’azione, laddove si sono mossi e quindi alle prese con le istituzioni, con gli addetti ai lavori e in generale con il pubblico, con la committenza, con il collezionismo, con i piaceri e con i doveri. E pazienza se questo può sembrare a volte in contrasto con certe tendenze prevalenti o apparire lontano dai caratteri che hanno preso determinate produzioni di eventi, contrassegnate – per non dire piegate- forse troppo  dalla sempre più incombente realtà della connoisseurship, per non dire dell’attribuzionismo: resta comunque il ruolo di seminatrice che la Galleria il Laocoonte si sta  ritagliando, nella logica di abbandonare un tal qual principio di gerarchia per spaziare su un orizzonte forse meno appariscente ma più idoneo a ricostruire la “vegetazione artistica” -come la chiamava Wackernagel, riferendosi al Rinascimento fiorentino-  sviluppatasi nel nostro paese e che ancora in qualche misura ha bisogno di spezzare l’isolamento, di essere protagonista.

In questo senso va a nostro parere letta l’esposizione ‘900 CLASSICO, apertasi lo scorso 23 ottobre, concepita e organizzata da Marco Fabio Apolloni e Monica Cardarelli, nelle tre sedi che dicevamo:  la Galleria del Laocoonte di Via Monterone 13-13A,  la Galleria W. Apolloni di Via Margutta 53B ed infine il nuovo spazio espositivo contemporaneo che le unisce di Via Margutta 81, ospitando nel contempo la mostra antologica dello scultore contemporaneo Patrick Alò: MITOLOGIA MECCANICA, nelle cui opere i rifiuti della modernità tecnologica, i rottami di metallo, rinascono a nuova vita come opere di scultura neoclassica, tratte o ispirate dall’antico.

Sono molteplici le novità e gli spunti di analisi e di riflessione che 900 CLASSICO propone. Ne possiamo citare solo alcuni rimandando al lettore la possibilità di approfondire visitando le sedi espositive.

A. De Carolis, Studio per la Primavera, 1903, Tecnica mista su carta applicata su tavoletta, cm145x167

La fine della Belle Époque floreale italiana è rappresentata da Adolfo de Carolis (1874 – 1928), che prende in prestito un verso dell’Antologia Palatina per far nascere la sua Primavera, grande cartone preparatorio per un quadro che fu il suo manifesto estetico, anima greca in corpi michelangioleschi, uno stile tutto suo, ma perfetto per illustrare i centoni poetici di d’Annunzio. Un bozzetto con Minerva e l’Olivo, del 1914, è preparatorio per uno degli affreschi di De Carolis al Palazzo del Podestà di Bologna.

 

Libero Andreotti, Baccante con bacchino ubriaco (”La vigne”) 1910 marmo di Candoglia 68,5x36x30
Vittorio Grassi, Feste commemorative della prolamazione del regno d Italia, 1910 ca, olio su tela, cm200x69

Pittorico e decadente fu agli inizi della sua carriera di scultore fu anche Libero Andreotti (1875 – 1933)  qui rappresentato da ben quattro opere: una rara e inedita Baccante con bacchino ubriaco, scolpita in marmo di Candoglia, il bassorilievo in bronzo de L’Ulivo, in cui le fronde dell’albero sacro ad Atena generano corpi umani, poi ancora la più classicheggiante Veneretta, e infine la Venere Fortuna, che in equilibrio sulla sua minuscola conchiglia, con una vela gonfia di vento tra le mani, allunga le sue forme arcaiche imitate dai bronzi di scavo, quasi fosse un reperto ella stessa.

E’ del 1911 il grande dipinto di Vittorio Grassi (1878 – 1958), con I Dioscuri del Quirinale fluorescenti nella notte, illuminati solo dallo stellone d’Italia.  Servì di bozzetto al concorso per il manifesto della Esposizione universale di Roma, ma arrivò secondo:  fu scelto come manifesto ufficiale quello di Duilio Cambellotti (1876 – 1960).

Duilio Cambellotti, Sublicio, 1910 – 1911, Matita, carboncino e tempera bianca su carta bruna, cm 58×51

Quest’ultimo fu un artista poliedrico, scultore pittore, scenografo, ceramista, incisore e medaglista. Cambellotti aveva già, in questo scorcio di secolo, rivisitata tutta l’antichità, inoltrandosi a pensare anche a Micene e al Lazio delle origini per inventarla di nuovo, in linee moderne ed essenziali. Fu lui, socialista, pacifista e umanitario a mettere su carta per primo fasci, aquile e leoni che saranno poi il repertorio simbolico del fascismo. Il suo ciclo de Le Leggende Romane, prima dipinte a biacca e poi incise in xilografia, furono un lavoro che durò una vita, e furono pubblicate postume. Nei manifesti per il Teatro Classico di Siracusa vi è la stessa unione di antico e moderno, mentre in una delle rare tavole in cui nell’ultimo dopoguerra Cambellotti volle illustrare la Storia di Roma del Gregorovius svetta intatto il Caballus Constantini, cioè la statua equestre di Marco Aurelio, in mezzo alle rovine del Laterano medioevale. In ultimo, i disegni preparatori per i manifesti di Fabiola (1949), il primo peplum girato nella nuova Repubblica Italiana, che permise la rinascita di Cinecittà inaugurando la stagione d’oro degli anni ’50 e ’60.

Mario Sironi, Scipione l’Africano, 1936-1950, Tempera su carta, cm 37 x 24,5, firmato in basso a destra

Arcaismo, antichità barbarica, ma anche neoclassicismo fascista trasfigurato in sogno utopico sono tra le tante idee ispiratrici di un grandissimo artista come Mario Sironi (1885 – 1961), di cui qui si presentano undici opere su carta, privilegiando il Sironi illustratore e cartellonista, come nello studio del manifesto immaginato per l’autarchica pellicola Scipione l’Africano, una copertina per Il Natale di Roma del 1937 ed altri fogli dove Sironi è non solo pittore murale, ma anche inventore delle architetture e delle sculture di un intero edificio, come nel caso del Palazzo dei Giornali di Milano.

Diverso il caso di Gino Severini (1883 – 1966), già futurista, poi sognante inventore di pulcinelli e arlecchini pierfrancescani, che riapprodò a Roma da Parigi per reinventare i mosaici bianchi e neri scoperti a Ostia dagli archeologi e che il fascismo volle simili per il Foro Italico e l’Eur. Qui si espongono disegni preparatori per la Palestra del Duce, per il Viale del Monolite e in due composizioni per una fontana dell’Eur dove Flora e Silvano, antiche divinità latine, rivivono come maschere vagamente picassiane.

Tra i pittori muralisti, che negli anni trenta vollero far rivivere l’arte italiana dell’affresco monumentale, oltre a Sironi che fu promotore del manifesto del 1933, furono Cagli, Campigli, Carrà, e Achille Funi (1890 – 1972).

Achille Funi – Venere latina, 1930, olio su tela, cm 160 x 125, firmato e datato in basso a destra –

Quest’ultimo fu frescante prodigioso per qualità e quantità, a Roma, Milano, Bergamo, Ferrara e Tripoli di Libia. Di Funi sono in mostra un cartone per la sala virgiliana della Triennale di Monza del 1930, con Didone e Anna, e due cartoni di Legionari Romani eseguiti per il Martirio di S. Giorgio per la chiesa di questo nome in via Torino a Milano. Oltre a questi vi sono il dipinto Venere Latina, ovvero Il nudo e le Sculture, del 1930, statua che si fa carne, sogno di Pigmalione realizzato ad olio. Di Funi vi è infine un pannello monumentale dipinto a tempera su fondo oro, lungo quasi cinque metri, che egli fino alla morte tenne nell’aula di Brera dove insegnava tecnica dell’affresco: si tratta de Il Parnaso, con Apollo e le nove Muse, che ha l’aria d’una miniatura rinascimentale ingigantita o d’una pittura parietale pompeiana dipinta su stagnola dorata, come il coperchio di una ciclopica scatola di cioccolatini.

Achille Funi,  Il Parnaso, 1948-1953, tempera e foglia d’oro su tavola, cm 212 x 476
Alberto Ziveri – La Dea Roma, 1940 ca., pastello su carta, cm 377 x 200

Smisurato è anche il cartone preparatorio che Alberto Ziveri (1908 – 1990) colorò nel 1943 per il mosaico dell’atrio nell’Accademia dei Vigili del Fuoco di Roma, dando vita colossale ad una Dea Minerva  ed anche un po’ Dea Roma – che pare fare il verso alla potente grossolanità dei mosaici tardo antichi, ma con la carnalità statuaria e plebea che il pittore tanto efficacemente sapeva rendere prendendo le sue modelle dalla strada.

Corrado Cagli (1910 – 1972) è rappresentato da un perfetto encausto – emulazione dell’antico – simbolico de La notte di S. Giovanni che a Roma fino a poco tempo fa era evento carnevalesco legato al solstizio d’Estate, e, al tempo di Roma antica, “grande cardine dell’anno e grande evento nel mondo”, come ha scritto Plinio il Vecchio.  Più complesso è il nodo emotivo e culturale che ha generato in Corrado Cagli lo studio del Laocoonte, tratto dall’antico e da El Greco, in cui l’ossessione di giovani corpi stritolati dalle spire dei serpenti è simbolo di un tormento esistenziale, dove si mescolano tanto la condizione della propria omosessualità, che il nuovo clima creato dalle leggi razziali che costrinsero l’artista, divenuto doppiamente “diverso”, all’esilio dall’Italia. Lo stesso tema, in Mirko Basaldella (1910 – 1969), giovane “creato” di Cagli, allievo a lui succube tanto nello stile e nella vita affettiva, diventa una riflessione sul tema del biblico Serpente di Bronzo: anche qui corpi adolescenti e serpenti si torcono, in una visione che è fantasia erotica e tortura infernale ad un tempo, eseguita in bronzo, in bassissimo rilievo, ispirato allo “stiacciato” rinascimentale di Donatello.

La scultura in mostra è variamente rappresentata. Di Publio Morbiducci (1889 – 1963), modernamente antico, vi sono due modellini dei cavalli che dovevano comporre La Quadriga sulla facciata del Palazzo dei Congressi all’Eur, e i due bozzetti in bronzo dei di Romolo e Remo con cavalli, che sarebbero dovuti sorgere accanto al Palazzo della Civiltà Italiana e che furono pio cambiati in Dioscuri.

Publio Morbiducci – Cavallo, 1941 ca., gesso, cm 49x46x15

Sempre di Morbiducci è un gruppo di disegni raffiguranti Panoplie che al repertorio antico de I Trofei di Mario aggiungono mitragliatrici e obici e altre diavolerie della moderna guerra.

Tra le opere più straordinarie e singolari presenti in mostra sono invece due vasi di bronzo dalla patina volutamente archeologica dello scultore Mario Ceconi di Montececon (1893 – 1980). Ispirati certamente ai modi arcaizzanti e caricaturalmente divertiti di Arturo Martini (1889 – 1980), celebrano allegoricamente la Conquista dell’Etiopia del 1936, animando in uno una Lupa Romana che mette in fuga un Leone di Giuda della Dinastia Salomonica, e nell’altro un’Italia Armata trionfante sullo stesso disgraziato leone etiope sdraiato a gambe all’aria. Singolare che alle forme derivate dai bronzi archeologici l’artista scelga di sposare quelle naturali delle piante grasse del deserto, fornendo degli ibridi in cui la retorica trionfalistica imperiale fascista pare colorarsi di effetti comici.

Antonietta Raphael, leda e il cigno, 1948, terracotta colorata, cm 39x19x17

Del 1948 è la terracotta colorata di Antonietta Raphael (1895-1975), proveniente dalla Collezione Scheiwiller, che raffigura  Leda e il Cigno, in cui il mito greco è svolto nelle forme primitiveggianti di un Gaguin, mutando uno degli amori di Zeus in una leggenda tahitiana.

L’influenza dei bronzi antichi di origine etrusca, della ritrattistica repubblicana antica, esercitarono una forte influenza sugli scultori italiani del Novecento, ed ottenne l’effetto di eroizzare le fisionomie contemporanee, toccando anche il ridicolo nel caso di Mussolini o di vittorio Emanuele III. Qui compaiono un Giuseppe Bottai di bronzo di Quirino Ruggeri (1883 – 1955), un ritratto di Enrico Corradini, vecchio rottame del nazionalismo italiano, reso degno del Sepolcro degli Scipioni. Un anonimo bronzo, maggiore del vero, restituisce il carisma di Dino Grandi, mentre un sorprendente bronzo di Francesco Messina (1900 – 1995) ci mostra uno ieratico ed ascetico Indro Montanelli quarantenne. Del giovane Emilio Greco (1913 – 1995) infine, non ancora prigioniero del suo stile, una Testa d’Uomo, del 1947, restituisce in cemento levigato lo spirito antiadulatorio dei severi romani della Repubblica.

L’antico però non è solo severità repubblicana o rigidità marziale da parata, lo spirito greco e i paradossi di Luciano di Samosata, hanno ispirato anche un’antichità surreale, che va dal giocoso all’allucinatorio, lungo una vena ispirata dall’arte metafisica di Giorgio De Chirico, greco di nascita, italiano per sangue e böckliniano per formazione. Innanzitutto va ricordato suo fratello Alberto Savinio (1891 – 1952) qui presente in un disegno, Le départ de l’enfant prodigue, dove teste d’animale s’innestano su corpi statuari. Alcune delle sue più felici creazioni dipinte, Centaurina, Torna la Dea al Tempio, Orfeo Vedovo, sono qui presenti nelle fedeli riproduzioni prodigiosamente eseguite a ricamo su tela da sua moglie Maria Savinio (1899 – 1981)

Maria Savinio – Orfeo vedovo, lana ricamo, 1952 – 1954 cm 48×39, firmato in basso a destra
Eugen Berman, Ulisse e le sirene, 1962, Tecnica mista su cartone, cm27x19,2, firmato e datato in basso al centro

Metafisico, giocoso e devoto all’antico a tal punto da diventare un gran collezionista di reperti etruschi ed egizi, fu Eugene Berman (1899 – 1972), russo espatriato a Parigi, negli Stati Uniti e infine a Roma: di lui tre visioni classiche per ispirazione e soggetto, Il Cavallo di Troia, Edipo e la Sfinge, Ulisse e le Sirene, che servirono nel 1962 per spiegare sul rotocalco Life i miti greci agli americani.

Capace di trasformare in gioco il suo straordinario talento di scultore e plasticatore, fu Andrea Spadini (1913-1983), a cui la Galleria del Laocoonte, per cura di Monica Cardarelli ha già dedicato una vasta mostra antologica che sarà prossimamente presentata in Inghilterra. Spadini era capace di fare il verso all’antichità come al barocco del Bernini, con esiti quasi disneyani quando trasformava i suoi animali di ceramica, fatti per i trionfi da tavola per divi di Holywood e aristocratici jet-setters,  in giocolieri e musicisti. Qui si espongono due versioni de Il Tevere, raffigurato come un indolente imperatore sdraiato su una barca di Nemi come su un’amaca, in argento massiccio, con una testa degna d’un Caligola di periferia, oppure con una testa d’aquila romana, rapace e gallinaceo ad un tempo, nella versione in ceramica, nera come il neoclassico basalto di Wedgwood.

Andrea Spadini, Il Tevere, 1959 – 1960, argento massiccio, cm 26x40x11, Firmato Andrea Spadini, sul retro

Allucinato dall’archeologia come materiale di sogno di civiltà perdute, è stato anche Fabrizio Clerici (1913 – 1993), di cui la Galleria del Laocoonte già ha presentato nel 2017, a Bologna e a Roma, i disegni originali per “Alle cinque da Savinio”, omaggio dell’anziano Clerici all’antico maestro e mentore della sua gioventù. Su Clerici la galleria sta organizzando una mostra retrospettiva e antologica per ricordarne l’ineffabile figura di elegante Don Chisciotte del Surrealismo più raffinato, viaggiatore in Egitto e Medio Oriente delle cui antichità è stato, con gli occhi e con l’eleganza del suo disegno, un instancabile razziatore.  Due versioni de La Luce di Lessing, mostrano il gruppo del Laocoonte ridotto ad un contorno di assi di legno rozzamente tagliate come nelle opere di Ceroli.

Fabriozio Clerici_La Luce di Lessing, 1979, Olio su tavola, cm70x100, firmato in basso al centro

Con questo doppio omaggio all’opera statuaria antica che alla Galleria ha dato il nome ed un programma estetico la mostra può dirsi conclusa. Il gruppo monumentale del Laocoonte di Vincenzo de’ Rossi (1525-1587) tornerà al centro della Galleria di Via Monterone a novembre, reduce dalla mostra di Forlì dedicata all’Odissea dov’è stato tra le maggiori attrattive. Per ora il suo posto è occupato da Il Laocoonte di Patrick Alò, straordinario ammasso di ferraglia, composta ad arte a ripetere la torsione dolorosa e il grido dell’antico sacerdote troiano simbolo universale della sofferenza umana.

Roma 1 novembre 2020