di Jerzy MIZIOLEK
Jerzy MIZIOLEK (Lowicz, 1953) è stato fino allo scorso dicembre 2019 Direttore del Museo Nazionale di Varsavia; ha svolto approfonditi studi in Italia al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana a Roma (1981/1982) ed ha conseguito il dottorato alla Università Jagellonian nel 1987 con la tesi Sol verus. Studi sull’iconografia di Cristo nell’arte del primo millennio; nel 2008 è stato Ordinario all’Università di Varsavia. Numerose le pubblicazioni, i riconoscimenti e le borse di studio ottenuti dalle più prestiigose università internazionali, tra cui Il Getty Research Institute, Los Angeles; Harvard University Center for Italian Renaissance Studies; Kunsthistorisches Institut Florence; Center for Advanced Study in the Visual Arts, Washington. Ha partecipato a esposizioni e conferenze in Europa, negli Stati Uniti e nel nostro paese presso le università di Rochester, Pittsburgh, Cambridge, Londra, Roma, Napoli, Siena, Firenze, Venezia, Szeged, Olmu’c, Catania, Los Angelese; è membro della College Art Association of America, società rinascimentale d’America; nel 2018 ha ricevuto il titolo di Cavaliere all’Ordine della Repubblica Italiana. Con questo saggio inzia la sua collaborazione con About Art.
Seguendo “sì meraviglioso e singulare artefice”
Appunti sul programma iconografico di S. Maria dei Monti a Roma[1]
“O veramente felice età nostra, o beati artefici, che ben così vi dovete chiamare, da che nel tempo vostro avete potuto al fonte di tanta chiarezza rischiarare le tenebrose luci degli occhi e vedere fattovi piano tutto quel che era dificile da sì maraviglioso e singulare artefice”[2].
Così Giorgio Vasari scriveva di Michelangelo Buonarroti, uno dei pochi artisti capaci di smuovere l’orizzonte dell’arte e di condizionare il modo di percepirla. Per generazioni di artisti l’opera di Michelangelo, sterminata e multiforme, fu modello di perfezione e fonte cui attingere e ispirarsi[3]. Michelangelo fu imitato, copiato, assimilato, contaminato, in particolare dagli artisti italiani attivi nella seconda metà del Cinquecento[4].
Ottimi artefici: Beccafumi, Parmigianino, Moroni, Tintoretto, e anche l’eccelso Raffaello, ne ripresero figure, pose, gesti, composizioni, talvolta non senza aggiungervi qualcosa. A Firenze Michelangelo fu oggetto di culto: nelle opere di Pontormo, di Bronzino, nei dipinti di Alessandro Allori nella cappella Montauto (Montaguti) nella SS Annunziata[5]. Ma fece scuola anche a Roma, dove trascorse gli ultimi trent’anni di vita. Lo testimoniano, tra altri, anche i dipinti di S. Maria dei Monti.
Costruita dal 1580 da Giacomo della Porta per celebrare il ritrovamento dell’immagine miracolosa della Madonna con Bambino e Santi, la chiesa si erge in via Madonna dei Monti, nel cuore dell’omonimo rione, tra i Fori Imperiali e via Cavour. Fu modellata sulla chiesa del Gesù: tanto da sembrarne una versione in scala ridotta. Il suo programma iconografico, meritevole di prolungate indagini[6], consta di quadri su pala, quadri su tela, affreschi. L’influenza di Michelangelo non è subito evidente. Ma presto si disvela: nella versione pittorica della Pietà di Santa Maria del Fiore nell’altare di una cappella; nell’esplicito richiamo alla Cappella Sistina negli affreschi – anzitutto nelle figure dei profeti e dei dottori della Chiesa – dell’unica navata (anch’essa mutuata dalla chiesa del Gesù).
Ricco e raffinato, l’apparato iconografico di S. Maria dei Monti, armonioso tempio a una navata e a croce latina sormontato da un’unica cupola, si conforma ai dettami del Concilio di Trento[7]. L’abbiamo studiato, concentrandoci sul debito contratto dai suoi artefici con il grande Michelangelo, indebitandoci a nostra volta con Francesco Corrubolo, autore di un manoscritto del tardo Cinquecento: L’istoria dell’origine e miracoli della Madonna de’ Monti[8], pubblicato nel 2004, con i compilatori dei documenti, fortunatamente alquanto numerosi, relativi ai lavori edili e di ornamento, e ai fotografi che di recente hanno ripreso il programma iconografico di S. Maria dei Monti in una serie di ottime foto.
Erezione e decorazione della chiesa
Aprile 1580, decimo anno del pontificato di Gregorio XIII. In un fienile del rione Monti viene ritrovato un affresco. Fa miracoli[9]: a una donna, Anastasia, ha ridato la vista, a un invalido, Giovanni da Mantova, l’agilità fisica, a una bambina, Margherita, figlia di un tal Niccolò da Montepulciano[10], la salute degli occhi. Richiama moltitudini. Si pensa di traslocarlo in qualche chiesa, ma gli abitanti di Monti si oppongono. Il Papa gli dà ascolto: nel fienile si edificherà un tempio degno dell’immagine piena di miracoli risalente al primo Quattrocento. È una Vergine con Bambino e santi: san Lorenzo, santo Stefano, sant’Agostino, san Francesco (fig.1) [11], i primi due in piedi, accanto alla Vergine, gli altri due inginocchiati.
Un dipinto tipico del primo Rinascimento, non scevro di ieraticità medioevali e di leggiadrie senesi, posto sull’altare maggiore, commissionato da monsignor Lodovico Bianchetti, maggiordomo della Casa Pontificia. In seguito, probabilmente nel 1632, le teste della Vergine e del Bambino si cingeranno di corone ingioiellate, l’immagine essendo in fama di prodigi.
Papa Gregorio XIII e il cardinal Guglielmo Sirleto[12] imposero tempi brevi. Bastarono otto anni: per l’epoca né pochi né tanti. I lavori di rifinitura e ornamento si protrassero fino al 1610[13]: la cupola all’incrocio della navata e del transetto era già pronta, e dal 1588 adornata da una splendida lanterna. Nel 1602 moriva il Della Porta, cui subentrarono Carlo Lombardi e Flaminio Ponzio[14].
Fino al 1588 furono decorate con dipinti su tela e affreschi tutt’e tre le cappelle (che in tutto sono sei) più belle: dell’Annunziata, fondatore Ugo Boncompagni, della Natività, fondatore Marco Antonio Sabatini, e della Pietà, fondatore Giulio Falemio Portughese, il cui nome in atti scritti in latino “è solitamente riportato come Falconius”[15].
Nel 1599 Paolo Guidotti, Baldassare Croce, Ferdinando Sermei e Francesco Corrazino ultimavano le decorazioni della cupola, dipingendo sulla cupoletta della lanterna un Dio Padre Benedicente, attorniato da angeli musicanti, e, più sotto, alcune immagini cristologiche e mariane: Gesù al Tempio, Visitazione della Vergine, Morte della Madonna. Gli affreschi della volta della navata, tra cui una poderosa Ascensione del primo Seicento, sono opera di Cristoforo Casolani. Uno dei più cospicui e interessanti apparati iconografici di età postridentina, per vari versi paragonabile ai dipinti delle cappelle Sistina e Paolina della vicina Basilica di Santa Maria Maggiore[16], si articolò dunque in meno di trent’anni. Di qualche decennio più tarda è la decorazione dell’abside con i dipinti di Giacinto Gimignani[17]: Crocifissione, S. Pietro battezza i SS. Processo e Martiniano, Apparizione di Cristo alla Madonna, Battesimo di Cristo.
La chiesa di S. Maria dei Monti è in ottimo stato, al pari dei suoi dipinti, salvo quelli della cupola, bisognosi di un accurato restauro (fig. 2).
Prima di soffermarci nella cappella Falconi, di passare in rassegna le decorazioni della navata e di cercare di individuarvi segni dell’influenza di Michelangelo, diamo almeno un’occhiata alle cappelle dell’Annunciazione e della Natività[18]. Su una parete della prima si legge: “AD HONOREM DEI ET ANUNTIATIONIS BEATAE MARIAE VIRGINIS ANO MDLXXXVIII UGO BONCOMPAGNUS CIVIS ROMANUS FECIT FIERI”.
Boncompagni era un neofita di origine ebrea il cui battesimo nel 1581 era stato favorito da san Filippo Neri. Tutti i dipinti sono di Durante Alberti che però ha datato e firmato soltanto l’Annunciazione dell’altare: “DURANTE ALBERTI D[i]. B[orgo] S[an] SEPOLCRO PIN[XIT]. A[NNO] 1588”. (fig. 3).
La tela, purtroppo imbrunita, è assai originale: la Vergine, inginocchiata, sembra ignorare l’arcangelo Gabriele, guarda Dio Padre che si staglia nel cielo, e lo Spirito Santo che ne discende, fattosi colomba, circondato da cori di angeli. La Vergine è tutta preghiera; l’arcangelo – braccia conserte, capo chino – è tutto umiltà; il cielo splende. Il quadro s’informa a una religiosità molto intensa. Similmente ai ritratti a figura intera dell’apostolo Pietro con l’apostolo Paolo e dell’apostolo Andrea con l’apostolo Bartolomeo, ai dipinti di altri santi, al Cenacolo della volta e al Miracolo di Cana della parete sovrastante.
Non meno intonata al tema mariano è la cappella della Natività, fondata da Sabatini, un ricco bolognese approdato a Roma all’inizio del pontificato di Gregorio XIII. Oltre a un’Adorazione dei Magi, posta sull’altare, un Sogno di Giuseppe e una Coronazione della Madonna a colori vivaci (tra cui un celeste mariano di soave leggerezza), dipinta sulla parete sovrastante (figg. 4 , 5).
I lavori svolti in questa cappella sono documentati da contratti e fatture. Il quadro dell’altare, anch’esso imbrunito, è opera di Girolamo Muziano;
gli affreschi sono di Cesare Nebbia e Paris Nogari[19]. Stupendo quello del Nebbia: Incoronazione della Vergine. La Natività del Muziano è sincera, commovente, ma non abbastanza luminosa, peccato non veniale in un tela di questo argomento.
La Cappella Falconi. Una scultura diventata quadro
Il formarsi della decorazione di questa cappella è ben documentato (fig. 6)[20].
Il 26 gennaio 1585 Antonio Viviani si impegnava con il Falconi a dipingere un quadro d’altare che constasse di una Pietà e di immagini di santi, nonché ad addobbare di affreschi le pareti e la volta della cappella, e anche la parete sovrastante. I lavori avrebbero dovuto terminarsi entro la fine di maggio. Per ragioni che ignoriamo non lo furono. Due anni più tardi il contratto fu corredato di questa postilla:
“La terza cappella è a mano dritta medesim.te et ultima a quella mano, fu data al S. Giulio Falemio Portughese n.ro Gentilhuomo il quale l’ha cominciato a fabricare, et accomodare e si spera che la farà bella e molto adornata”[21].
Nel maggio e nel settembre 1587 il committente saldò il Viviani che aveva fatto il suo lavoro. La cappella è dedicata alla Passione di Cristo: il quadro in mezzo all’altare si richiama alla Lamentazione di Michelangelo, una delle sue quattro Pietà, rimasta incompiuta, nota come la Pietà della Cattedrale (fig. 7).
Michelangelo l’aveva pensata per il suo monumento funebre in Santa Maria Maggiore. A Firenze la statua ispirò schiere di pittori: in alcuni dipinti è ripresa in forma compiuta, in altri aumenta il numero di personaggi che accompagnano Cristo e Maria (fig. 8)[22].
Karolina Lanckorońska la descrisse in un articolo ingiustamente dimenticato:
“Un gruppo di quattro persone; il personaggio centrale è Cristo, sorretto da Nicodemo che lo adagia, ormai morto, sulle ginocchia della madre. Seduta su una pietra, Maria abbraccia il corpo del figlio, con indicibile tristezza vi si accosta con il viso per trattenerlo. Cristo è nudo. La testa pende a destra; il magnifico torso, di classica bellezza, si contorce a sinistra; le gambe si piegano in senso contrario. […] Nicodemo è in alto, al vertice del triangolo, con la mano destra sorregge il braccio di Cristo, e con tutta la sua possente persona sembra volersi unire di slancio a Madre e Figlio. Le vesti di Nicodemo e Maria sono rozze e pesanti da celarne le fattezze, il corpo di Cristo è stupendo. I tre formano un gruppo tanto compatto da far quasi rivedere l’unico blocco di marmo in cui sono stati scolpiti”[23].
Questa scultura, tormentata e tenera, è anche un autoritratto: Michelangelo è Nicodemo. Ma ne fu tanto deluso da abbandonarla e ammaccarla. Scrive il Vasari:
“Lavorava Michelagnolo quasi ogni giorno per suo passatempo intorno a quella pietra che s’è già ragionato con le quattro figure, la quale egli spezzò in questo tempo per queste cagioni: perché quel sasso aveva molti smerigli et era duro e faceva spesso fuoco nello scarpello: o fusse pure che il giudizio di quello uomo fussi tanto grande che non si contentava mai di cosa che e’ facessi”[24].
In età postridentina la scultura fu spesso copiata. Le versioni pittoriche sono almeno quindici[25]: nella maggior parte Madre e Figlio non sono soli, ma accompagnati da tre personaggi. Così è anche nella cappella Falconi. Due donne a destra: una è probabilmente Maria Maddalena, con i capelli sciolti e la mano destra sul cuore; l’altra, più in alto, con le braccia conserte e gli occhi alzati, è in fervente preghiera. L’uomo in mantello rosso è san Giovanni. Si dispera: ha chiuso gli occhi, ha coperto il viso con le mani.
I dipinti sono più articolati della scultura, e più emotivi. Nicodemo (o Giuseppe di Arimatea), sempre in cima, ma non più simile a Michelangelo. La Croce è seminascosta. Uno stupendo paesaggio boschivo si staglia ai suoi piedi. Sotto la figura del Cristo si scorgono gli strumenti della passione; a sinistra, nell’angolo basso, un cesto con un martello e una cappa. Nelle mani degli angeli sull’arco che apre la cappella alla navata, tra altro, una corona di spine. Il Vasari scriveva a proposito del Mosè: “(…) pare impossibile che il ferro sia diventato pennello”[26]. La Pietà della Cattedrale di Firenze ispirò vari pittori (di disuguale talento); molti altri si limitarono a copiarla.
Lorenzo Sabatini, autore di una tela conservata nei Musei Vaticani, non fu forse il primo a dipingere pensando alla Pietà della Cattedrale. Probabilmente era stato preceduto dall’ignoto autore di un quadro di ragguardevoli dimensioni (300×170 cm), arrivato sul finire del Cinquecento nella chiesa parrocchiale di Biecz: collocato in un primo momento in una cappella, oggi è sull’altare maggiore (f.g 9)[27].
I quadri direttamente ispirati dalla Pietà della Cattedrale sono quindici: il più bello è quello di Biecz, che non influenzò minimamente Antonio Viviani. La tela che egli dipinse per la chiesa di S. Maria dei Monti[28] non è un capolavoro, ma i fedeli la cercano e – ne siamo stati testimoni – l’ammirano commossi. Il corpo del Cristo di Viviani è nudo ed esanime, irradia una luce in cui anch’Egli si avvolge. E muove il pensiero verso gli ineffabili misteri dell’Incarnazione, della Redenzione e dell’Eucaristia.
Succede oggi, succedeva senz’altro più spesso nel 1587: il sentimento religioso si manifestava allora più forte e spontaneo, anno in cui i lavori nella cappella furono conclusi. Il quadro commuove anche perché può vedersi da presso, quasi toccarsi con gli occhi.
Lacappella, opera di Antonio Viviani, si incentra sulla Lamentazione. La Flagellazione è in basso a sinistra, la Caduta di Cristo sotto la Croce, in basso a destra. Completano il programma i ritratti a figura intera dei profeti Isaia e Davide, dipinti sui pilastri (figg. 10-11), nonché gli affreschi: Bacio di Giuda e Gesù davanti a Pilato (l’Orazione nell’orto è andata perduta); nel sottarco angeli con gli strumenti della passione di Cristo, e, verso il centro, un bellissimo Velo della Veronica, un soggetto molto caro agli artisti dell’epoca (fig. 12).
Il programma iconografico della cappella si sostanzia nella Resurrezione (fig. 13)[29] della parete sovrastante, un po’ lontana per chi l’osservi da sotto, ma non più per gli studiosi, sorretti da ottime foto.
È un dipinto eclettico, assai originale, di forti luminescenze atte a risaltare la potenza della luce divina. Aurei sfondi permeano il corpo del Cristo. La luce del Risorto squarcia le tenebre della notte, rivelando anche il terrore dei soldati a guardia del sepolcro. Gli occhi di Cristo sono fiamme di luce. Il suo volto precorre i tempi, simile alla gente di El Greco e dei simbolisti. Ma anche a quella di Michelangelo. I soldati del Viviani, gli uni ripresi di petto, gli altri di spalle, richiamano i personaggi delle ultime pitture di Buonarroti: La conversione di Saulo e La Crocifissione di Cristo della Cappella Paolina [30]; il suo Cristo è in debito con La Resurrezione di Hendrick van den Broeck, nella Cappella Sistina [31]. Secondo la maniera del tardo Cinquecento l’affresco trabocca di imitazioni, contaminazioni, eclettismi: non meno della monumentale decorazione della volta della navata.
La volta della navata e i suoi affreschi
Gli affreschi della navata sono di Cristoforo Casolani, allievo di Cristoforo Roncalli, all’epoca famoso, detto il Pomarancio (fig. 14).
Una navata (come la Cappella Sistina) a botte con lunette. Sulle vele i quattro dottori della Chiesa; sulle lunette, idea felice, gli angeli in volo con le banderuole in mano. L’esecuzione di queste ultime è incerta: alcuni indicano Orazio Gentileschi. Oltre agli angeli e ai dottori, testimoni dell’Ascensione di Cristo, due profeti al centro della volta: uno è Isaia (il cui nome è scritto sull’affresco), robusto e barbuto; l’altro è forse Daniele.
Dipinta a tinte chiare, serene, l’Ascensione è quasi un capolavoro. Un taglio, una soluzione di continuità tra cielo e terra: ecco gli apostoli far folla attorno alla Madonna e guardare in alto, a mani alzate o congiunte in preghiera; le mani della Madre di Dio, anch’essa intenta a fissare il cielo, si incrociano umilmente sul petto. Il giovane apostolo accanto è probabilmente san Giovanni, l’altro: barba bianca, libro e chiavi nella mano sinistra, è san Pietro. Le mani di Pietro sembrano annunciare un’altra crocifissione, e sicuramente ripetono il gesto delle mani del Cristo nel momento dell’Ascensione (fig. 15).
Il viso del Salvatore, circondato da innumeri schiere di angeli, è estatico. Il Suo corpo si staglia nell’immensa luce del cielo. Il volto, gli indumenti, specie il mantello, splendono: come nelle immagini della Trasfigurazione. L’atteggiamento del corpo, e in particolare il gesto delle mani che generosamente si allargano, richiama La Trasfigurazione di Raffaello e i suoi mirabili affreschi della Stanza della Segnatura, ma più nettamente La Trasfigurazione di Cristo della chiesa di San Salvatore a Venezia, dipinta nel 1562 da un Tiziano ormai ottantacinquenne. Basta un rapido sguardo: il pittore di S. Maria dei Monti era in debito con il maestro di Venezia[32], si ispirò al suo quadro, di cui forse aveva una stampa, senza tuttavia abbassarsi a copiarlo. Le luminescenze, già forti in Tiziano, nel Casolani sono singolarmente intense, complice la luce della finestra che investe la parte superiore del quadro. Nei giorni di sole il Cristo, il suo volto, le sue vesti, gli angeli, l’oro del cielo si ammantano di un chiarore quasi soprannaturale.
Se ne L’Ascensione il richiamo dei colori e delle forme di Michelangelo è indiretto e per taluni opinabile, nelle figure dei dottori e dei profeti è esplicito.
L’argomento non è stato mai studiato. Isaia e san Gerolamo (il cui leone è ben visibile a destra: Gerolamo è l’unico dei dottori della Chiesa dipinti dal Casolani ad esibire l’attributo) derivano dal Giona della Cappella Sistina: consimili le pose, i gesti, la flessione all’indietro, gli occhi che fissano il cielo (figg. 16-17-18).
Affinità e similitudini che non riguardano ogni dettaglio: ma la lezione di Michelangelo è fatta propria, il Casolani ne tiene conto anche nell’atto di far sedere i propri personaggi, appena incantati dalla voce di Dio. Probabilmente la sente, forse ritrasmessa da un angelo sospeso nel cielo, anche un giovane che sembra il profeta Daniele (fig. 19), splendidamente ripreso di lato, la gamba sinistra accavallata, il corpo un po’ chino, la testa all’indietro, come se cercasse con lo sguardo l’angelo, o la luce della finestra: un esempio di ottima fattura di uso dei colori cangianti, onnipresenti nella Sistina[33]. La gamba accavallata: un atteggiamento raro, ma non unico: anche l’Eritrea della Sistina accavalla le gambe. Ma Daniele richiama anzitutto gli Ignudi e, quindi, il Torso del Belvedere, noto a Roma fin dal 1432 (figg. 20-21).
La storia del Torso e del suo impatto sull’arte europea sono ben documentate, tra altro grazie al catalogo di una mostra allestita nel 1998 da Raimund Wünsche[34]. A differenza di tanti altri frammenti di sculture antiche, il Torso non fu mai ricostruito, probabilmente a causa delle troppe lacune, ma anche della venerazione di Michelangelo[35], manifesta in varie sue opere, in particolare negli Ignudi – gli angeli senza ali della volta della Cappella Sistina.
Non solo gli artisti della Madonna dei Monti, ma anche il grande Michelangelo attingevano da altri, antichi e contemporanei: a Roma gli antichi sono di casa. Pare del tutto possibile che sia Michelangelo sia Casolani si saranno soffermati davanti ai bassorilievi dell’arco di Settimio Severo, il cui dio fluviale pare prefigurare i personaggi seduti della Cappella Sistina e della Madonna dei Monti (fig. 22)
A mo’ di conclusione
Un contributo di appunti sull’arte tridentina in una chiesa del centro di Roma che i turisti e i pellegrini in marcia verso San Pietro in Vincoli e il sepolcro di Giulio II sfiorano senza fermarsi.
I quadri su tela, le sculture, i generosi affreschi della Madonna dei Monti non appartengono ai grandi capolavori dell’arte italiana della seconda metà del Cinquecento. Tuttavia la chiesa merita attenzione sia per il suo programma iconografico: ricco, coerente, originale, sia per la sua storia di tempio votivo eretto attorno a un’immagine in fama di prodigi. Un’unica navata, ma ricca di riferimenti pittorici all’Antico e al Nuovo Testamento, numerosi anche nel transetto, nelle cappelle, negli affreschi della cupola della volta. Incarnazione, Redenzione, Resurrezione: S. Maria dei Monti invita in ogni suo luogo a riflettere sul mistero.
Lo storico dell’arte vi individua chiari segni dell’insegnamento dei grandi maestri, primo fra tutti Michelangelo, attivi nella Roma di Gregorio XIII, Sisto V e Paolo V. Ammirando il sontuoso programma iconografico di S. Maria dei Monti, ideato verosimilmente dal dotto cardinal Sirleto, ripensiamo ai canoni e decreti del Concilio di Trento (sessione XXV, 3-4 dicembre 1563): “Proprio questo insegnino con cura i vescovi, a istruire e ad abituare il popolo a ricordare e ripensare continuamente agli articoli della fede attraverso le storie della nostra Redenzione espresse in dipinti o in altre rappresentazioni, o che da tutte le sacre immagini si ritrae grande vantaggio non solo perché al popolo vengono ricordati i benefici e i doni che gli sono stati elargiti da Cristo, ma perché, attraverso i Santi, sono offerti agli occhi dei fedeli i miracoli e i salutari esempi di Dio affinché lo ringrazino per questi, atteggino vita e costumi a imitazione dei Santi, siano infiammati ad adorare e amare Dio e ad esercitare la pietà”[36].
Jerzy MIZIOLEK Cracovia 8 novembre 2020
Traduzione di Leszek Kazana
NOTE