di Francesco PETRUCCI
Qualche settimana fa si è inaugurata presso il National Museum (Muzeum Narodowego) di Cracovia un’imponente mostra dedicata ad uno dei pittori più influenti del Settecento polacco, Szymon Czechowicz (Cracovia 1689-1775).[1]
L’evento si protrarrà fino al 21 febbraio 2021, Covid permettendo
dato che a causa della pandemia il museo che la ospita è stato costretto ad una chiusura forzata, come d’altronde i musei italiani ed altri musei europei (figg. 1 – 2).
Promossa da Andrzej Szczerski, direttore del National Museum, e dal suo predecessore Andrzej Betlej (ora direttore del Castello Reale di Cracovia, detto Wawel), curata con grande impegno ed entusiasmo da Tomasz Zaucha, l’ambiziosa esposizione rende giustizia ad un artista di formazione romana che ha lasciato vistose tracce della propria intensa attività nel vasto territorio della Confederazione Polacco-Lituana, con opere oggi presenti in Lituania, Ucraina e Bielorussia, oltre che naturalmente in Polonia.
La mostra, formata da oltre duecento pezzi tra dipinti, disegni e incisioni, espone anche opere del contesto romano ai tempi del soggiorno di Czechowicz, provenienti da Palazzo Chigi in Ariccia, dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini / Palazzo Corsini e dall’Accademia Nazionale di San Luca. Magniloquente l’allestimento, ben equilibrato negli spazi progettati tra pale d’altare e opere da quadreria (figg. 3, 4, 5, 6).
Il voluminoso catalogo, curato dallo stesso Zaucha assieme ad Andrzej Betlej, ospita una saggio di apertura del sottoscritto sulla pittura del primo ‘700 romano e due approfonditi saggi di Zbigniew Michalczyk, rispettivamente sull’ambiente artistico polacco del tempo e sulla figura di Czechowicz. Natalia Koziara ha pubblicato un dettagliato regesto biografico sul pittore, correlandolo agli eventi culturali contemporanei in Polonia e in Europa.[2]
L’attività di Czechowicz rappresenta la più vistosa espansione nell’ambito dell’est europeo della scuola romana del Settecento, poiché la sua produzione manifesta l’evidente assorbimento di un linguaggio tipico e riconoscibile che filtra l’eredità del Barocco volgendola verso il Rococò.
La conoscenza approfondita di tutto quelle con cui era entrato in contatto nei circa vent’anni di soggiorno a Roma, consolidata attraverso l’esercizio della copia e della rielaborazione, sia in pittura che nel disegno, approda ad una forma espressiva individuale, ma interamente calata nel quadro figurativo romano.
Roma in effetti era in campo artistico una sorta di Torre di Babele al contrario, popolata di forestieri che parlavano diversi dialetti, ma di uno stesso linguaggio. Una koinè di cui Czechowicz è parte integrante, paradossalmente ancor più di molti artisti italiani di varia provenienza attivi nella stessa capitale pontificia, ma rimasti più o meno legati all’imprimatur della formazione originaria, seppur plasmati da un concetto condiviso di romanità.
Czechowicz, che sembra aver azzerato totalmente quanto appreso precedentemente in patria, è quindi “pittore romano” per eccellenza e lo rimarrà per tutta la vita, anche quando, molti anni dopo la sua partenza dalla capitale delle arti, fermenti proto-neoclassici avrebbero innescato nell’ambiente capitolino mutazioni genetiche indirizzate ad una razionalizzazione degli impianti compositivi e ad un irrigidimento delle forme. Da questo la coerenza del titolo della mostra, che un po’ enfaticamente lo definisce “Genius of the Baroque”.
Eppure, nonostante la grande importanza del lunghissimo tirocinio romano, protrattosi dal 1710 al 1730 circa, quando il pittore aveva ormai oltre quarant’anni, nel pieno quindi della maturità per un artista del tempo, pochissime opere rimangono di quegli anni, lasciando un vuoto da colmare nella sua lunga e fortunata carriera.
Lo evidenziano Zaucha e soprattutto Michalczyk, il quale sottolinea che probabilmente senza serrate indagini archivistiche e collezionistiche sarà difficile chiarire tale problematica, sebbene il pittore potrebbe aver prodotto a Roma opere su commissione di clienti e viaggiatori polacchi, acquisite direttamente in loco o spedite in patria.[3]
In effetti le opere romane dell’artista sembrano ridursi a quattro pale, tre conservate a Roma ed una in Polonia: Santa Edvige ai piedi della croce nella chiesa di San Stanislao dei Polacchi eseguita nel 1724-25 (fig. 7),[4] la Visione di san Giacomo della Marca (fig. 8) e la dubbia Madonna del Rosario con san Domenico nella chiesa di San Bonaventura al Palatino, databili prima del 1731.[5]
Ad esse si aggiunge la monumentale Assunzione della Vergine, firmata e datata “ROMAE 1730”, conservata nella Basilica Cattedrale di Kielce (fig. 9).[6]
Tali dipinti mostrano il perseguimento di una maturità artistica e di uno stile individuale, che implicherebbe sicuramente l’opportunità di ricevere commissioni.
Peraltro Czechowicz fu anche un ottimo disegnatore, come dimostra la sua pregevole produzione grafica esposta a Cracovia, che denuncia anche la capacità di manipolare con disinvoltura schemi compositivi e attitudini di pose, riferiti sempre alle esperienze del Barocco romano (figg. 10, 11).
Naturalmente la vasta produzione visibile in mostra e illustrata in catalogo, rimasta sostanzialmente invariata dal punto di vista stilistico fino agli ultimi anni della sua lunga vita, è caratterizzata anche da discontinuità ed eterogeneità qualitative, che postulano il ricorso ad un’attrezzata bottega pronta a divulgare i modi del maestro sulla traccia di suoi disegni e progetti.
Czechowicz è artista eclettico e onnivoro, nella cui opera si avvertono la ricezione della lezione di Maratta e di tutti i maratteschi di seconda generazione, la pratica assimilatoria rivolta a Luti, Trevisani, Conca e Benefial,[7] ma anche la conoscenza di maestri del ‘600 come Pietro da Cortona e Baciccio, talora citati esplicitamente o rielaborati, approdando ad un delicato sentimentalismo e ad una leggerezza di tocco tipicamente Rococò.
D’altronde quanto prodotto a Roma nella prima metà del Settecento, pur nelle diverse declinazioni espressive che derivano dalla funzione catalizzatrice della città in ambito europeo di differenti esperienze, è un’evoluzione delle sperimentazioni del secolo precedente. Quello che qui nasce in architettura, pittura, scultura e arti decorative, perlomeno fino al pontificato di Benedetto XIV, non può essere considerato una “Sfida al Barocco”, come è stato scritto, ma un suo naturale e lento sviluppo, senza strappi e contrapposizioni nette.
Altrimenti – come sembra sia la tendenza tutta teorica che da qualche tempo emerge, a partire dalla sopravvalutazione del peso critico di Bellori nell’arte tardo-barocca -, si rischia di cadere in un pan-classicismo che omogeneizza tutto il secolo sotto il canone della devozione all’antico, sottraendo gli artisti a quella creatività e autonomia che invece le loro opere manifestano.[8]
Solo con il Neoclassicismo, ma siamo all’ultimo quarto del secolo, assistiamo a quei cambiamenti sostanziali – precorsi certo dal Parnaso di Mengs (1761) e suscitati soprattutto dal crescente interesse antiquario indotto dalle campagne di scavo in siti archeologici -, che approdano ad una vera e propria rottura con l’arrivo a Roma di Canova (1779) e la pubblicazione sempre qui del Giuramento degli Orazi di David (1784).
Per questo motivo, con Maurizio Fagiolo dell’Arco, Fabrizio Lemme, Italo Faldi, Vittorio Casale ed altri studiosi, decidemmo di chiamare “Museo del Barocco romano” la sezione di donazioni dedicata alla pittura romana del ‘600 e ‘700 del Palazzo Chigi di Ariccia, pur comprensiva di alcune opere che manifestano sentori di modificazione in senso archeologizzante e neo-raffaellesco.
Ma torniamo al nostro polacco romanizzato. Possibile che nei lunghi anni trascorsi a Roma abbia lasciato qui soltanto tre pale e alcuni disegni?
Alessandro Agresti con felice intuizione ha giustamente riconosciuto la sua mano in un bel bozzetto per una pala a soggetto carmelitano raffigurante La Vergine accompagnata da santi porge lo scapolare a san Simone Stock, transitato presso la Galerie Tarantino di Parigi e ora in collezione privata a Los Angeles, ove è stato rintracciato ed esposto in mostra (fig. 12).[9]
Come ha rilevato Zbigniew Michalczyk, un quadro di Czechowicz rappresentante san Vincenzo de’ Paoli era conservato nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo al Celio, ricordato nell’edizione delle Chiese di Roma di Filippo Titi del 1763 con errata trascrizione del cognome: “Entrando nella navata sinistra il quadro con s. Vincenzo de’ Paoli è di Simone Lekowitz Polacco”.[10]
L’opera era tuttavia citata con un più esplicito riferimento nella guida Roma antica e moderna del 1750: “Si entra nell’altra navata laterale, e qui Simone Cekovitz Polacco espresse nel Quadro del primo Altare il S. Vincenzo de’ Paoli”.[11]
Il dipinto fu rimosso nel 1774, quando la chiesa, amministrata fino ad allora dai Padri Vincenziani (Congregazione della Missione), fu assegnata ai Padri Passionisti.
Ritengo che il quadro, considerato perduto dalla bibliografia, possa coincidere con il San Vincenzo de’ Paoli al cospetto della Sacra Famiglia ricomparso in asta Dorotheum a Vienna nel 2010 con erronea attribuzione a Salvatore Monosilio, peraltro suggerita dal sottoscritto al precedente proprietario e da me confermata nel catalogo d’asta. Successivamente il dipinto è stato acquisito dal Collegio Leoniano di Roma e pubblicato sempre come Monosilio (fig. 13).[12]
L’attribuzione a Czechowicz è convalidata dal confronto con sue opere certe, come le citate Visione di san Giacomo della Marca e La Vergine accompagnata da santi porge lo scapolare a san Simone Stock, che presentano simili tipologie delle figure.
Il dipinto proviene dalla Cappella del soppresso Collegio del Noviziato della Chiesa della Missione a Montecitorio, ove era stato probabilmente collocato dopo l’abbandono della basilica al Celio. Infatti la composizione dovette avere una certa importanza nell’iconografia vincenziana, per essere stata divulgata attraverso un’incisione a bulino di Giovanni Battista Iacoboni e una litografia ottocentesca che riporta nella didascalia “p. VINCENZO DE’ PAOLI PATRONO DI TUTTE LE ASSOCIAZIONI DI CARIT· Immagine venerata nel Noviziato della Missione a Monte Citorio in Roma”.
Potrebbe trattarsi quindi di una delle ultime opere romane del pittore polacco, databile all’epoca della beatificazione di Vincent de Paul celebrata da Benedetto XIII il 21 agosto 1729. Infatti il santo non porta l’aureola della canonizzazione, come invece il vicino san Giuseppe, ma l’alone intorno alla testa dei beati.
Mi sembra abbastanza riconoscibile la sua paternità per una pala esposta in alto e in pieno anonimato sulla controfacciata della Basilica di San Saba, sempre a Roma, raffigurante Madonna in gloria con Gesù Bambino e sant’Ignazio da Loyola (fig. 14).
I putti e la Vergine presentano gli stessi tipi fisiognomici delle opere citate, mentre la posa del santo è quella ricorrente nelle estasi barocche, più volte riproposta da Czechowicz nella sua produzione, come nella Visione di san Casimiro nella Chiesa universitaria di Sant’Anna a Cracovia (fig. 15).[13]
Potrebbe riferirsi invece alla sua primissima attività romana un dipinto raffigurante San Clemente papa, donato nel 1716 al Santuario di Galloro ad Ariccia da papa Clemente XI Albani assieme a reliquie del santo, già presso il chiostro di accesso al monastero, oggi esposto nel transetto destro sopra la sagrestia (fig. 16).
Si tratta di un’opera di evidente scuola romana, ma sulla quale non ero riuscito a trovare un’attribuzione convincente prima della mostra di Cracovia.[14]
Un confronto può essere fatto con una raffigurazione dello stesso santo nella chiesa dell’Assunzione della Vergine a Opole Lubelskie, che, pur presentando una datazione al 1745 circa, mostra notevoli affinità nella posa e nel disegno con il quadro in esame; anche le teste di cherubini in alto a destra, appena accennate e sfumate, sono simili (fig. 17).[15]
Analogie compositive ancor più stringenti ricorrono con un affresco raffigurante lo stesso santo (1747-49 ca.), dipinto nella chiesa di San Giovanni Nepomuceno a Zwierzyniec dal giovane Łukasz Smuglewicz, allievo di Czechowicz, forse desunto da un disegno del maestro (fig. 18).[16] Il giovane pittore polacco potrebbe essere stato promosso presso la corte di papa Albani da Maria Casimira Sobieska, presente a Roma con la sua corte di artisti, musicisti e letterati dal 1699 al 1714.
In conclusione di questa breve digressione, doveroso tributo all’impegno dei curatori della mostra di Cracovia e al notevole sforzo organizzativo del museo per allestirla, voglio aggiungere una considerazione sul ruolo avanguardistico svolto dall’artista quale mediatore culturale tra Italia e Polonia.
L’opera di Czechowicz e il suo magistero sicuramente diedero impulso al proficuo scambio culturale romano-polacco e furono di stimolo alla venuta nella capitale pontificia di connazionali come Taddeo Kuntze e Franciszek Smuglewicz – che qui lasciarono importanti tracce del loro operato –, ma anche una premessa al mecenatismo di impronta capitolina dei Poniatowski e del conte Potocki. Ma è argomento da approfondire in altra sede, soprattutto da parte di storici dell’arte polacchi, che conoscono sicuramente assai meglio del sottoscritto l’interscambio tra le due realtà.
Francesco PETRUCCI Ariccia 31 gennaio 2021
*Si ringraziano per la gentile assistenza fornita durante la fase organizzativa della mostra, sia al prestito che ai miei scritti in catalogo, per la collaborazione e il proficuo scambio di opinioni anche in funzione di questa recensione: Natalia Koziara, Katarzyna Pawłowska, Jerzy Miziołek, Andrzej Szczerski e soprattutto Tomasz Zaucha.
NOTE
[1] Geniusz Baroku Szymon Czechowicz 1689 – 1775 / Genius of the Baroque Szymon Czechowicz 1689 – 1775, catalogo della mostra, a cura di A. Betlej, T. Zaucha, Cracovia, National Museum, 16 ottobre 2020 – 21 febbraio 2021, Kraków 2020.
[2] F. Petrucci, Malarstwo osiemnastowiecznego Rzymu pomiędzy barokiem a rokokiem, pp. 32-59; id., Pittura del ‘700 a Roma tra Barocco e Rococò, pp. 60-72; Z. Michalczyk, Malarstwo w Rzeczypospolitej czasów Szymona Czechowicza – problemy…, pp. 74-119; id., Painting in the Polish-Lithuanian Commonwealt in the Time of Szymon Czechowicz…, pp. 120-143; id., Szymon Czechowicz. Życie i twórczość, pp. 144-200; id., Szymon Czechowicz. His Life and Work, pp. 202-231; N. Koziara, Kalendarium. Timeline, pp. 676-697.
[3] Z. Michalczyk, Painting in the Polish-Lithuanian Commonwealt…, 2020, p. 204.
[4] J. Skrabski, in Geniusz Baroku Szymon Czechowicz, 2020, pp. 238-239, n. 2.
[5] N. Koziara, in Geniusz Baroku Szymon Czechowicz, 2020, pp. 242-245, nn. 4, 5. La Madonna del Rosario con san Domenico è opera fiacca e impacciata, a mio avviso non all’altezza della produzione certa dell’artista.
[6] Z. Michalczyk, in Geniusz Baroku Szymon Czechowicz, 2020, pp. 146-147, fig. II.2, p. 203, fig. 2.
[7] F. Petrucci, in Geniusz Baroku Szymon Czechowicz, 2020, p. 64.
[8] Questo sembra l’orientamento della mostra Sfida al Barocco. 1680 1750 Roma Torino Parigi, catalogo della mostra, a cura di M. di Macco, G. Dardanello, C. Gauna, Reggia di Venaria Reale, 13 marzo – 14 giugno 2020, Genova 2020.
[9] A. Agresti, Szymon Czechowicz, La Santite Vierge remet le scapulaire à Saint Simon Stock, en présence de Saint Pierre Tomas, Saint André Corsini et d’un autre saint, in Peindre à Rome. Tableaux et dessins des XVIIème et XVIIIème siècles, Galerie Tarantino, Paris 2011, pp. 116-118, n. 289; N. Koziara, in Geniusz Baroku Szymon Czechowicz, 2020, pp. 260-261, n. 13.
[10] F. Titi, Studio di pittura, scoltura, et architettura nelle Chiese di Roma, Edizione comparata a cura di B. Contardi, S. Romano, Firenze 1987, I, p. 46, rif. 378; Z. Michalczyk, Painting in the Polish-Lithuanian Commonwealt…, 2020, p. 204, nota 25.
[11] Roma antica e moderna, Roma 1750, tomo I, p. 439; A. Loda, L’iconografia di san Vincenzo de’ Paoli in Italia: sviluppi e mutazioni dal Settecento al Novecento, in I colori della carità. Iconografia di san Vincenzo de’ Paoli nell’arte italiana tra Settecento e Novecento, catalogo della mostra, a cura di E. Antonello, A. Loda, Piacenza, Collegio Alberoni, Roma 2018, pp. 35, 76 nota 67.
[12] Catalogo Dorotheum, 21 aprile 2010, lotto 208, olio su tela, cm. 126 x 82; L. Paonessa, I dipinti di Salvatore Monosilio conservati nel Collegio Leoniano in Prati, III, in “Lazio Ieri e Oggi”, anno 50, 2014, n. 600, pp. 343-344; A. Loda, 2018, p. 67; I colori della carità…, 2018, pp. 179-181, figg., p. 211, n. 32.
[13] Geniusz Baroku Szymon Czechowicz…, 2020, pp. 646-647, n. 201.
[14] Sul dipinto, inedito, cfr. F. Petrucci, III. Cronologia degli eventi, in M. B. Guerrieri Borsoi, F. Petrucci, Il Santuario della Madonna di Galloro in Ariccia, Roma 2011, p. 107.
[15] Geniusz Baroku Szymon Czechowicz…, 2020, p. 171, fig. II.22.
[16] Geniusz Baroku Szymon Czechowicz…, 2020, p. 92, fig. II.14.