di Carla MARIANI
Giuseppe Arcimboldo o Arcimboldi
nasce a Milano nel 1526 ed è testimone di quella cultura lombarda raffinata e colta che nasce dal genio di Leonardo da Vinci.
La mostra che ne ripercorre la carriera è ospitata in Palazzo Barberini, dal 20 Ottobre 2017 all’11 Febbraio 2018, ed è organizzata dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica e da Mondo MostreSkira. E’ curata da Sylvia Ferino-Pagden, una delle maggiori studiose di Arcimboldo e già direttrice della Pinacoteca del Kunsthistorisches Museum di Vienna, con Flaminia Gennari Santori direttrice delle Gallerie.
Il catalogo è edito da Skira, con scritti della curatrice e Giacomo Berra, nonchè con testi di Andreas Beyer, Giuseppe Olmi, Lucia Tongiorgi Tomasi, Shinsuke Watanabe, che trattano i vari temi dell’esposizione.
La mostra ci accompagna lungo il percorso formativo dell’artista che inizia in maniera tradizionale intorno alla metà del ‘500. In questo periodo Arcimboldo opera a Milano e dintorni fino a Como. E’ legato ad un gruppo di umanisti, all’interno del quale si forma dal punto di vista intellettuale e ai figli di Bernardino Luini come pittore. Non è ben chiaro come la sua opera giovanile, legata a schemi già percorsi, si trasformi in quella originalissima forma d’arte che coniuga l’invenzione icastica a quella fantastica.
Nella mostra il contatto con le opere è immediato, sorprendente, aperto a tutte le menti, cattura la nostra attenzione spingendoci ad un’osservazione ravvicinata che si approfondisce tanto più, quanto più il nostro sguardo si addentra nel mondo magico creato da una fantasia e da una creatività veramente uniche. Questa osservazione che sembra essere risucchiata sempre più profondamente dall’immagine fantastica, come attraverso una potente lente di ingrandimento, ci porta a scoprire gli oggetti di cui è composta ed analizzarli uno ad uno dimenticando l’immagine principale che, come per miracolo, si ricompone poi appena ci allontaniamo.
Una vera magia. Ma come nasce questa magia?
L’origine, va ribadito, nasce negli studi di Leonardo sulla Natura, nei suoi disegni di botanica e di zoologia, a loro volta strettamente connessi con tutta una serie di acquerelli di carattere “scientifico” a lui pressochè coevi, di area nord europea, quali il Rinnoceronte della Biblioteca Alessandrina a Roma, o la Lepre di Hans Hoffmann della galleria Corsini, sempre eseguito ad acquarello, parallelo al più famoso dipinto di Durer.
Leonardo ha indagato la natura con spirito scientifico e mano delicatamente analitica che mossa dalla curiosità e dalla passione, ci rimanda delle immagini sommamente poetiche nel loro rigore.
Del resto Leonardo ha anche studiato i “Moti dell’animo” con lo stesso spirito, dando vita ai ritratti “caricati” in cui le fisionomie grottesche esprimono i “Moti” appunto, accesi ed estremi.
La precisione e la compostezza di questi studi scientifici, si sono sommati allo spirito libero e dissacratorio della cultura lombarda.
Il risultato di questa unione, nella mostra si vede rappresentato al massimo livello da una figura determinante in questo percorso: Giovanni Paolo Lomazzo. Lo vediamo in due autoritratti, uno giovanile del 1557 ( Vienna, Kunsthistorisches Museum), con il profilo nitido su campo scuro, e un altro, databile con buona approssimazione al 1568, che lo raffigura come Abate Priore dell’Accademia dei Facchini della Val di Blenio ( Milano Brera) con una iscrizione in dialetto lombardo che lo identifica come “Zavargna” il suo soprannome di accademico.
Vale la pena di descrivere il personaggio e l’Accademia.
La nascita dell’Accademia, che aveva come nume tutelare Bacco, probabilmente scaturisce come reazione al successo di artisti stranieri, cioè non lombardi, come Tiziano, Moroni, Campi, sopravvenuti in area meneghina dopo la morte dei diretti allievi di Leonardo, quali Cesare da Sesto e Bernardino Luini.
Gli artisti locali vollero far rivivere la loro cultura originaria che risaliva a Leonardo e ai suoi valori fondamentali.
Il gruppo era nutrito ed eterogeneo comprendeva architetti, ricamatori, umanisti, poeti e medici e fu guidato a partire dal 1568 da Giovanni Paolo Lomazzo.
Questo geniale personaggio nasce a Milano nel 1538, segue studi di pittura e poesia, esegue dipinti composti e raffinati come i due autoritratti già citati, ed entra in questa Accademia in cui la ricerca si addentra nei misteri dell’alchimia e dell’esoterismo.
Segue dottrine proibite dalla severa censura della controriforma, quali la teologia orfica, la cabala, la magia naturale, tra cui il De occulta Philosophia di Cornelio Agrippa di Nettesheim.
I seguaci di queste idee diremmo “diverse”, sotto la mascheratura del dialetto e dell’immagine modesta e rude dei facchini o spalloni, cioè dei trasportatori a spalla di merci dalla Svizzera all’Italia, potevano esprimere il loro pensiero in grande libertà con eloquio salace e coraggioso.
Lomazzo perse la vista nell’età giovanile di 33 anni, costretto ad abbandonare la pittura si dedicò con sempre maggiore approfondimento alla dimensione teoretica arrivando a scrivere Trattati di grande originalità e precisione come il Trattato dell’arte della pittura, 1584 o L’idea del Tempio della pittura, 1590.
Influenzò certamente l’opera di Arcimboldo. Insieme studiarono il pensiero e l’opera di Leonardo e quando l’Arcimboldo si recò a lavorare presso l’Imperatore asburgico, fu proprio lui a vendergli disegni importantissimi del genio di Vinci.
Massimiliano II d’Asburgo reggeva in quegli anni un Impero sconfinato. Era uomo di vastissima cultura, di quella cultura curiosa e appassionata che lo portò a collezionare oggetti rari, molti dei quali sconosciuti nei nostri Paesi, provenienti dal mondo nuovo e ricchissimo appena scoperto al di là dell’oceano.
A Vienna fece costruire vari giardini zoologici e botanici nei quali allevava e coltivava nuove specie che arrivavano dal Nuovo Mondo e dall’Asia orientale. Costruì la sua Wunderkammer che fu poi ampliata e resa fantastica dal suo erede Rodolfo II, appassionato di astronomia, quando questi spostò la capitale dell’impero da Vienna a Praga, città magica e misteriosa, vero anello di congiunzione tra Occidente ed Oriente.
E’ importante ricordare come proprio in questa particolare attenzione al collezionismo e alla ricerca di oggetti rari e situazioni umane estreme, risieda probabilmente la qualità che ha fatto della cultura asburgica e poi della città di Vienna la culla di importantissimi musei tra cui quello di storia naturale tra i più ricchi al mondo, soprattutto di reperti rarissimi inerenti alle patologie della fisiologia umana.
Possiamo immaginare quanto sia stato apprezzato un personaggio come Giuseppe Arcimboldo che metteva nella sua arte quello straordinario spirito di ricerca ai più diversi livelli, tra cui non va dimenticata la dimensione alchemica, che permeava i più eletti gli spiriti indagatori dell’epoca.
Paolo Morigia diceva di lui come la bizzarria fosse la caratteristica dominante del suo carattere, aderente all’ispirazione delle raccolte di poesie del suo amico Lomazzo, una in italiano I Grotteschi e l’altra in dialetto I Rabìsch da Arabeschi in cui veniva espressa una cultura apparentemente popolare ma in realtà libera e originale, intenzionata a esprimere i sentimenti e le pulsioni più profonde dell’uomo sciolto dai rigori punitivi della Chiesa, molto forti in quella Milano su cui cui imperava Carlo Borromeo con la sua severità ascetica.
Questa libertà di espressione è molto ben rappresentata nella mostra, dalle grandi Nature Morte con figure, e dai Mangiatori di ricotta di Vincenzo Campi ( Musèe des Beaux-Arts Lione), in cui il piacere del sesso, del cibo, e della compagnia disinibita, emerge prorompente.
Altro esempio singolare è il piatto di Pesaro in cui una composizione di membri maschili forma un ritratto virile (Ashmolean Museum Oxford)
Nel 1562 Arcimboldo si trasferisce a Vienna presso l’imperatore Massimiliano II d’Asburgo, per lui progetta e organizza le macchine effimere, che servivano ad arricchire e celebrare grandi avvenimenti come matrimoni, visite di regnanti, nascite regali, presso la corte e nei palazzi imperiali.
Dipinge poi per l’Imperatore numerose opere, le più importanti delle quali, sono sicuramente le Quattro Stagioni e i Quattro Elementi, secondo i principi la cosmologia aristotelica, tutti della stessa misura essendo destinati a fronteggiarsi nel medesimo ambiente.
La Primavera con l’Aria, l’Estate con il Fuoco, l’Autunno con la Terra, l’Inverno con l’Acqua
Ogni Stagione era rivolta ad un Elemento, secondo quel principio di corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo caro sia alla filosofia platonica che aristotelica, sulla base del sovrano principio per cui il particolare diventa parte fondante dell’insieme. Fin dall’antichità si pensava che tutta la materia fosse costituita da questo quattro elementi a cui più tardi si unirono i fluidi corporei a formare i quattro temperamenti dell’uomo. Siamo, insomma, nel pieno della cultura alchemico-saturnina.
Le Stagioni, sono composte da elementi vegetali tipici del periodo che vogliono rappresentare, e sembra che i giardini botanici di Massimiliano, fornissero un fonte ricchissima di esempi da copiare. Sono eseguite soprattutto su supporti lignei con una tecnica pittorica perfetta che ha contribuito a farle arrivare fino a noi in ottimo stato di conservazione.
Le composizioni sono il frutto di una ricerca fedele, scientifica e insieme fantasiosa, con una particolare attenzione a curiosità inattese come la pannocchia di mais nella raffigurazione dell’Estate, che veniva dalle Americhe, o la melanzana da poco arrivata in Europa.
Gli Elementi sorprendono ancora di più per la cura e la capacità inventiva dimostrata dall’Arcimboldo, nel trovare oggetti pertinenti al soggetto, e comporli insieme fino a trovare una fisionomia improbabile ma convincente. Il volto del Fuoco, ad esempio, è composto da una pietra focaia, mentre un lume ad olio acceso costruisce la mascella, i baffi sono i cerini di allora, bastoncini intrisi di cera, fiamme sono i capelli. In onore, poi, del committente e della sua potenza militare, il pittore forma il corpo con armi da scoppio e il Toson d’Oro e lo stemma Asburgico poggiano su di esse.
L’Acqua è sicuramente l’Elemento più complesso. E’ costituita da pesci ma non quelli che venivano consumati nei banchetti a Corte, che erano d’acqua dolce. Sono invece pesci di mare, e alcuni anche di mari lontani, come la Tartaruga e un pesce che somiglia ad un serpente per formare parte del collo.
Si può immaginare quanto fosse difficile accedere a queste immagini. Sicuramente Arcimboldo avrà utilizzato degli studi fatti dal vero, da specialisti per esempio i disegni di Giorgio Liberale che annotava con precisione e delicatezza l’anatomia di animali rari. L’acquarello è la tecnica previlegiata per studi di questa natura perchè consente una resa nitida e colorata senza diventare pittura. Sicuramente il pittore si sarà divertito non poco ad inventare ritratti singolari, per esempio la caricatura del Cancelliere di Massimiliano II, fatta con parti di pollo, arrivando ad un risultato ambivalente in cui la curiosità dell’osservatore è attratta e nello stesso tempo respinta da una sorta di mostruosità intrinseca alle immagini.
Questo è un aspetto singolare e anche vagamente inquietante di questo pittore. Arcimboldo, infatti, da un lato rappresenta chiaramente la tendenza più avanzata e audace della cultura dell’epoca volta allo studio scientifico della Natura, ai tentativi di manipolarla attraverso l’alchimia, ma anche alla volontà di appropriarsene più largamente attraverso le esplorazioni geografiche. D’altro canto però, la sua analisi minuziosa sovraffollata e sovrapposta di elementi simili ma mai uguali, forse per effetto di quel sortilegio magico che troviamo spesso nella pittura surrealista, suggerisce in noi moderni, una profonda inquietudine.
Come osserva acutamente Roland Barthes, grande studioso di semiotica, noi vediamo il “brulichio” ovvero una” mescolanza di cose viventi che evoca una vita larvale”, immagine trasmessa dal gusto del “mostruoso” che ritroviamo nelle Wunderkammer o nei disegni cari a Ulisse Aldrovrandi, insigne contemporaneo dell’Arcimboldo, generanti esseri in cui le forme animali si confondono, segno della misteriosa inclinazione alla deformazione che talvolta la Natura manifesta.
Abbiamo testimonianza di questo interesse venato di morbosità, attraverso la cura con cui sono ritratti i membri della famiglia Gonzales, originaria delle isole Canarie, portatrice di un’anomalia chiamata irsutismo.
Il ritratto di Arrigo peloso, Pietro matto e Amon nano di Agostino Carracci ( Museo Nazionale di Capodimonte Napoli) ci testimonia come in tutta Europa fosse osservata questa famiglia.
Il pittore lascia Rodolfo II nel 1587 e torna a Milano ma rimane legato all’imperatore che ritrae nel 1590 nelle sembianze di Vertumno, dio romano di origine etrusca, delle mutazioni stagionali, cui si attribuiva il dono di trasformarsi in ogni forma volesse. Qui è rappresentato con elementi vegetali che appartengono a tutte le Stagioni e simboleggianti il ruolo dell’imperatore come fautore della continuità del buon governo, sintesi del creato ed emblema dell’Uomo come microcosmo.
Che cosa ci vuole trasmettere Arcimboldo con questo messaggio graffiante, satirico, beffardo, provocatorio? Indubbiamente lo spirito degli anni trenta del ‘500, che è pieno di misteri stravaganti, reconditi e notturni e vive un momento di trasformazione in cui il manierismo inizia a rompere gli schemi perfetti del Rinascimento. Come ha ribadito Sylvia Ferino-Pagden “questa pittura ‘ridicola’ nasce a Milano, a seguito di una lunga tradizione di letterati coltissimi, che avevano un gusto speciale per la burla e le beffe”
La parte privata e nascosta di questo passaggio, gioca tutti gli scherzi più bizzarri espressi dall’arte di Arcimboldo, nata da quella cultura lombarda multiforme e vivida, legata alla terra ma virtuosa e dottissima nelle sue teorizzazioni. Una cultura che, originatasi da Leonardo, continuerà a dare frutti straordinari come quel Michelangelo Merisi che declina in maniera geniale il mondo in cui nasce, olimpico come gli Dei reale come l’Uomo.
di Carla MARIANI Roma, novembre 2017