Monet a Roma ? Le luci dei quadri illuminano molto poco il visitatore

di Giorgia TERRINONI

Il Complesso del Vittoriano ha appena sfornato l’ennesima mostra da ingurgitare velocemente. È assolutamente vietato assaporare! Quest’autunno è la volta di Claude Monet, rappresentato da circa sessanta opere provenienti dal Musée Marmottan di Parigi che, nel 1966, ha ereditato il primo fondo mondiale dell’artista.

La mostra – curata da Marianne Mathieu, storico dell’arte e vicedirettore del Musée Marmottan – vuole illustrare ed esaurire l’intero percorso artistico di Monet. Ma direi che è davvero lontana dall’esserci riuscita!

Il percorso espositivo muove da alcuni dei lavori giovanili di Monet, ovvero la serie di caricature realizzate a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta. Alcune di queste opere corrispondono a dei tipi umani piuttosto che a dei personaggi reali; è il caso di Donna normanna del 1857 o di Giovane donna al piano verticale del 1858, entrambe in mostra. Altre, invece, ritraggono noti personaggi dell’epoca, come lo scrittore Jules François Félix Husson, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Champfleury, autore, tra l’altro, di numerosi saggi sulla storia della caricatura. In breve tempo, le caricature fruttano a Monet qualche guadagno e una certa notorietà. Ogni domenica, nella vetrina del cartolaio Gravier, a Le Havre, compaiono immagini nuove che attraggono una piccola folla divertita di curiosi.

Di fronte alle caricature, indifferente alla cronologia, c’è una piccola sezione dedicata ai ritratti dei figli Jean e Michel, avuti dall’artista con la prima moglie Camille.

Proseguendo nella sala successiva, ci accorgiamo che mancano tutti gli anni sessanta, quelli importantissimi durante i quali si pongono le numerose premesse dell’Impressionismo (da Le Havre a Parigi, da Boudin al plein air, ecc.). Chissà, forse saranno oggetto di una mostra futura! Così, ritroviamo Monet direttamente nel pieno della caccia al motivo. E qui, il caos regna sovrano!

Infatti, gli oltre vent’anni che separano l’iconico dipinto intitolato Impression, soleil levant (1872) e le serie londinesi della fine del secolo (Ponte di Charing Cross, 1899-1901) sembrano ricadere tutti solo sotto il comun denominatore del motivo. Come se il realismo di Courbet, l’atteggiamento antiaccademico, la diffusione della fotografia, l’incontro con Sisley, Bazille, Renoir, Pissarro, la pittura en plein air, la pennellata spezzata e tanti altri eventi personali e storici non fossero mai avvenuti. Dalle caricature degli anni cinquanta all’impressionismo di Effetto di neve calar del sole (1875).

Senza neanche passare per ciò che ha significato l’indifferenza degli impressionisti nei confronti del soggetto (una lezione che hanno appreso da Manet), giungiamo trafelati alla splendida monotonia delle serie degli anni ottanta. Finalmente Monet ha trovato il motivo ma, anche in questo caso, dovete necessariamente fidarvi! È così e non si discute. Poco importa che di queste serie vediate per lo più dipinti isolati. A breve con le Ninfee vi sarà tutto chiaro!

Il percorso espositivo, infatti, sembra condurre esclusivamente verso le meraviglie del giardino di Giverny. In questo villaggio della Normandia Monet vive dall’inizio degli anni ottanta, ma è solo nel 1890 che sarà in grado di acquistare la celebre proprietà, il cui giardino è diventato protagonista di molti suoi dipinti. Nel giardino, col tempo, Monet riuscirà a mettere in scena un paesaggio per lui ideale, il cui acme è rappresentato dalla vasca delle ninfee, sovrastata dal ponticello giapponese.

Questa sezione è evidentemente più ricca delle altre, ma manca – come anche le altre – d’indicazioni e suggerimenti di lettura per il pubblico. È possibile che il racconto contenuto nell’audioguida sia estremamente esaustivo, ma in mostra mancano del tutto appigli per il pubblico. La produzione dell’ultimo periodo di Monet è complessa, contiene in nuce l’arte astratta e anche quella declinata su scala ambientale (pensiamo alle Ninfee dell’Orangerie). Presumere che il pubblico possa orientarsi alla cieca – è il proprio il caso di dirlo perché, come molti sanno, il Vittoriano non gode di una felicissima illuminazione – sulla scia di una moda passeggera legata alla fama dell’ultimo periodo di Monet è un insulto. Forse che le dozzinali proiezioni fuori scala che a terra riproducono la dimensione monumentale delle grandi ninfee possono riprodurre la passione accanita con la quale un pittore quasi cieco ancora guardava ai riflessi che la luce produce nell’acqua?

Ponte giapponese

Una mostra allestita – o prodotta? – in uno spazio espositivo può forse non dover avere la stessa vocazione didattica di un museo. Ma sforziamoci di capire che imparare non necessariamente è noioso. E per imparare non c’è alcun bisogno che un team di esperti ri-materializzi un’opera di Monet andata distrutta in un incendio. Ci sono così tante opere integre davanti ai nostri occhi e ancora da osservare e comprendere! I presunti mezzi digitali non servono alla pittura di Monet se il loro scopo è quello di distrarre da una mancanza, di occultare un lavoro scadente. Potrebbero invece servire a accorciare le distanze che separano i mille e più fili che s’intrecciano nella conoscenza. Ma, anche in questo caso, siamo lontani dallo scopo. Ci accontentiamo di prendere in giro un pubblico che, al solito, si sarà annoiato, sarà uscito senza aver minimamente aggiunto un di più di vera conoscenza al proprio bagaglio culturale. Ma che alla fine si racconterà, per non vanificare del tutto l’esperienza, di aver almeno consumato la dose di cultura annua assegnata. E così, da domani, potrà iniziare a concentrarsi esclusivamente sui regali di Natale!

di Giorgia Terrinoni  Roma novembre 2018