Pittura e Musica: Cornelis De Heem e Francesco Manfredini: due testi barocchi in un’associazione dissonante

di Lev M. LOEWENTHAL

Soffio e vacuità

Devo lo spunto, involontario, per queste brevi riflessioni all’amico Maurizio Rebaudengo, il quale, giorni fa, ha invitato i suoi lettori all’ascolto dei 12 Concerti grossi Op.3 di Francesco Manfredini (Pistoia, 22 giugno 1684 – Pistoia, 6 ottobre 1762), violinista e compositore barocco, indicando il link ad un noto canale di contenuti video. Seguendolo, non ho potuto fare a meno di notare un’infelice associazione, dal punto di vista filologico, tra musica e immagini.

Nel filmato di accompagnamento all’esecuzione musicale del 1998, per Radio Bremen, ad opera degli Amis de Philippe Ludger Rémy, compariva una natura morta del pittore olandese naturalizzato fiammingo Cornelis de Heem, 1654, oggi conservata in Giappone, presso il National Museum of Western Art di Tokyo.

Cosa mi è parso dissonare in quell’associazione?

Nel Barocco, nel cosiddetto concerto grosso, si contrappongono una massa orchestrale di molti strumentisti e alcuni solisti (costituenti il cosiddetto concertino); il materiale musicale è dunque trattato in un dialogo fra due sezioni di diversa dimensione. Nel caso particolare di Manfredini, uno dei 12 concerti grossi, il penultimo, No.12 in C maggiore, è il noto Pastorale per il santissimo Natale, ma tutti i 12 concerti sono un gioioso fermento di dialoghi che annunciano la Natività.

Ecco, l’immagine della canestra di frutta di Cornelis de Heem è difficilmente associabile al Natale. Riporta, piuttosto, alla mente il tumultuoso soffio verbale dell’ebraico קהלת, Qohelet, l’oratore (dallo pseudonimo dell’autore), tradotto in greco Ἐκκλησιαστής, Ekklesiastès, che risuona nel dipinto in tutta la sua imperiosa, dolorosa violenza: havèl havalìm!

In ebraico biblico le ripetizioni hanno un valore superlativo, per cui la traduzione letterale della frase havèl havalìm, reso in latino con  “Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, “Vanità delle vanità, tutto è vanità” (Eccl 1, 2), è  la vanità  più grande.

Con questa frase si apre e si chiude il lungo discorso di Qohelet, che occupa i dodici capitoli del libro omonimo. Qohelet è un saggio che, dopo aver esplorato ogni aspetto della vita materiale, giunge alla conclusione (già preannunciata all’inizio del testo) che tutto è vanità.

Havèl, in ebraico, significa soffio e, guardando il dipinto di Cornelis de Heem, pare quasi di avvertirlo quell’alito di vento, freddo, che sembra essere passato sulla canestra dell’Ambrosiana del Caravaggio e averla sconvolta, per invitarci a riflettere su quanto ogni cosa, su questa Terra, sia effimera.

Qohelet ricorda quanto la stessa vita dell’uomo sia un soffio e, in fondo, lo stesso nostro mondo sia una continua ripetizione di eventi e non c’è nulla di cui si possa dire che è una reale novità.

4 Una generazione va, una generazione viene/ ma la terra resta sempre la stessa.
5 Il sole sorge e il sole tramonta,/ si affretta verso il luogo da dove risorgerà.
6 Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana;/ gira e rigira/ e sopra i suoi giri il vento ritorna.
7 Tutti i fiumi vanno al mare,/ eppure il mare non è mai pieno:/ raggiunta la loro mèta,/ i fiumi riprendono la loro marcia.
8 Tutte le cose sono in travaglio/ e nessuno potrebbe spiegarne il motivo./ Non si sazia l’occhio di guardare /né mai l’orecchio è sazio di udire.
9 Ciò che è stato sarà/ e ciò che si è fatto si rifarà;/ non c’è niente di nuovo sotto il sole.
10 C’è forse qualcosa di cui si possa dire:/ «Guarda, questa è una novità»?/ Proprio questa è già stata nei secoli/ che ci hanno preceduto.

(Ecclesiaste, prologo)

Il mondo di Cornelis de Heem, che ritrae tavole riccamente imbandite, su cui i commensali sono passati come cavallette, come quello di Qohelet, è un mondo di vanità e vacuità.

Lucida e policroma frutta succosa, già morsa, fatta a spicchi, sbucciata e lasciata sulla tavola, rosse aragoste, che nessuno mangerà, ceste riverse, caraffe di vino che ha già dato ebbrezza: tutto pare richiamare il concetto ebraico di havèl, che compare anche in Sal. 144, 4: א ָדם ַל ֶה ֶבל ָד ָמה ָי ָמיו ְכ ֵצל ע ֹו ֵֽבר: “un Adamo è simile a un soffio, i suoi giorni sono come un’ombra che passa”, o come commenta Rashì, come l’ombra di un volatile che batte le ali.

Tutto è stato creato con un havèl (concetto che richiama da vicino lo pneuma, o il lògos), compreso quindi anche l’Uomo, l’Adam, che è un niente, come tutte le altre creature, se paragonato all’immensità del Creatore. Tanto che lo stesso nome di Abele viene fatto derivare dall’ebraico הֶבֶל (Hevel) o הָבֶל (Havel), che significa “respiro”, “soffio vitale”, ma, come abbiamo visto, anche vanità, interpretabile come “effimero”, a significare la brevità della vita.

Se dunque nella composta canestra Ambrosiana ogni frutto è legato alla simbologia cristologica, e presagisce la passione di Cristo, in Cornelis de Heem sembrano risuonare parole veterotestamentarie, הָבֶל , come per ben 38 volte risuonano nelle pagine di Qohelet, incrinando ogni piacere, devastando la pace, inquietando lo spirito.

Lev M. LOEWENTHAL  14 febbraio 2021