di Vitaliano TIBERIA
Il nostro tempo è frequentemente caratterizzato da mostre e da eventi culturali planetari, frutto di realtà economiche collaterali o ideologicamente pervasive, che sottraggono sempre più spazio agli studi monografici sugli artisti secondo criteri storico-filologici; si preferisce invece un sistema editoriale fatto soprattutto di cataloghi di mostre di grandi figure della storia dell’arte, ripresentate, secondo la moda del momento, talora con bizzarre trovate ma con scarse novità documentarie.
Il fatto negativo è che tali eventi, di cui spesso si potrebbe fare a meno, spesso richiedono spostamenti dalle loro sedi di opere d’arte, oggetti costituzionalmente fragili, soprattutto i manufatti lignei, che riportano frequenti danni più o meno gravi o nei trasporti o per i cambiamenti climatici. Tutto questo avviene in contrasto con le norme sulla tutela delle opere d’arte, la Carta del restauro e altri documenti sulla conservazione artistica, nonché lo stesso Codice dei beni culturali e dell’ambiente.
Esemplari di questo mancato rispetto della tutela delle opere d’arte, sono due episodi degli ultimi anni.
Il primo riguarda la rottura di un dito, poi riattaccato, della mano destra della statua di Santa Bibiana del Bernini, spostata dalla sua sede nella chiesa omonima, dove si trova dal 1626, nella Galleria Borghese per una mostra di opere berniniane che si è tenuta nel 2017-18.
Il secondo episodio, di tutt’altra natura e finalità, ha riguardato i distacchi di colore, frettolosamente fatti riaderire al supporto ligneo, registrati dopo lo spostamento, nel marzo 2020, del Crocefisso ligneo del XV secolo, ritenuto miracoloso, dalla chiesa romana di San Marcello al Corso in una piazza San Pietro gelida e inondata di pioggia, per la preghiera pontificia per la cessazione della pandemia da covid 19.
L’autorevole portale Vatican News, del 5 aprile 2020, descrivendo l’avvenimento e minimizzando i danni causati all’antica e fragile opera lignea, ha ammesso quanto invece non sarebbe dovuto accadere secondo le norme sulla tutela delle opere d’arte:
« il Crocefisso, […] pur essendo stato collocato a ridosso della Basilica, è stato raggiunto dalla pioggia […] Come si è potuto ben vedere, […] l’opera non ha subito danni gravi o significativi, al contrario invece di quanto affermato da alcuni. Sono stati eseguiti soltanto piccoli ritocchi effettuati nell’arco di una mattinata dagli esperti restauratori dei Musei Vaticani in accordo con la Sovrintendenza italiana. I ritocchi hanno riguardato piccoli distacchi, legati anche a problemi di movimentazione, e in parte preesistenti. Questi minimi e rapidi interventi hanno messo in sicurezza l’opera, che dopo le celebrazioni di Pasqua potrà far ritorno nella chiesa di San Marcello al Corso».
In altre parole, il Portale vaticano, che non considera importante quanto i manufatti lignei siano sensibili nel tempo e non solo nell’immediato alle variazioni termiche e igrometriche indotte dai loro spostamenti, ha ricordato, a giustificazione dell’iniziativa, che, in fin dei conti, poco importa se un’opera d’arte lignea spostata dalla sua sede subisce alcuni danni per il suo trasporto o per le variazioni termo-igrometriche, purché questi non siano «gravi o significativi». Che dire ?
In questo sconfortante stato dei fatti, vede fortunatamente la luce un recentissimo volume monografico di Roberto Della Portella, Girolamo Troppa (1636-171), Terni 2020 (151 pagine con 150 illustrazioni in bianco e nero), edito coraggiosamente dallo stesso autore sotto la sigla OPUS I, con una brillante presentazione di Claudio Strinati e prefazioni di Don Claudio Bosi e Gianfranco Formichetti.
Divisa in quattro parti tematiche e dotata di una cospicua appendice fotografica, si tratta di un’opera, per così dire, all’antica: anticonformistica nell’approccio critico e nella scelta di eleganti tavole in bianco e nero, ma soprattutto esemplare sotto il profilo documentario, perché ricostruisce filologicamente la vita di un importante pittore originario della Sabina, per lungo tempo attivo in Roma nella seconda metà del XVII secolo, ma generalmente declassato al ruolo di comprimario e, come ricorda Strinati, «se non dimenticato di certo alquanto accantonato».
E dire che le opere del Troppa, molte delle quali purtroppo perdute a seguito dei vasti sventramenti subiti da Roma soprattutto fra XIX e XX secolo, sono ricordate da numerosi autori delle Guide antiche di Roma, fonti ineludibili per gli studi romanistici, dal Titi al Panciroli, al Posterla, al Roisecco, al Martinelli, al Venuti, al Vasi, al Nibby, al Melchiorri, al Rossini. Come pure la storiografia ottocentesca, e non solo quella italiana, non ha mancato di prestare attenzione e apprezzamento per questo pittore, segnalandone non soltanto le più note opere romane.
Sappiamo così da Flavio Della Marra, archivista del monastero di Monte Cassino, che, nel 1751, un dipinto del Troppa raffigurante un San Gerolamo penitente si trovava «nella prima camera di S. Benedetto», mentre Luigi Lanzi, nel 1809, dava notizia di una «tavola da chiesa», vale a dire l’Adorazione dei pastori per la chiesa di San Francesco in San Severino Marche; e ancora, alla fine del secolo (1898), Giovanni Eroli, in una sua descrizione delle chiese di Narni, parlava di una Nascita di San Giovanni sull’altare maggiore della chiesa di San Giovanni Decollato, a Narni. Oltralpe, il Regnault-Delalande ricordava in modo lusinghiero il Troppa, che era inserito in un’ école de Rome, accanto a pittori del rango di Filippo Lauri, Giacinto Brandi e Giuseppe Bartolomeo Chiari. Un apprezzamento che puntualmente ricorre anche nel belga Adolphe Siret, nel tedesco Georg Kaspar Nagler, nel francese Charles Le Blanc.
Ancora nell’Ottocento, sul fronte degli studi archivistici, spetta ad Antonino Bertolotti e ad Enrico Narducci il merito di aver cominciato a definire con dati certi, perché provenienti da fonti archivistiche, la tormentata vicenda umana del Troppa; dati ripresi quindi nei repertori degli eruditi Gaetano Moroni e Diego Angeli, mentre, nel Novecento, la filologia storico-artistica tedesca, con Ulrich Thieme e Felix Becker, gli ha riservato un posto in opere prestigiose, come l’Allgemeines Lexikon der Bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, e quella francese, con il Bénézit, lo ha inserito nel Dictionnaire des peintres, sculpteurs, dessinateurs et graveurs.
In tempi a noi più vicini, la critica d’arte, grazie ai contributi, in particolare di Cesare Verani, Giorgio Falcidia, Andrea Busiri Vici, Almamaria Mignosi Tantillo, Angela Negro, Erich Schleier, Zsuzsanna Dobos, Rosalba Cantone, Francesco Petrucci, Francesco Luisi, Sandra Vasco Rocca, Alessandra Cimino, Eva De La Fuente Pedersen, ha prodotto un notevole sforzo per definire con dovizia di riferimenti stilistici, talora fra loro discordanti, la personalità artistica del Troppa. Questi sono stati individuati sostanzialmente nelle opere dei protagonisti dell’arte del XVII secolo a Roma, nelle due tradizionali versioni classicistica e barocca: Cortona, Baldi, Sacchi, Baciccia, Giordano, Maratta, Brandi, Mola, Ghezzi, Benaschi, Seyter, Ludovico Gemignani. Si tratta di riferimenti di grande interesse critico, mentre la ricerca di Della Portella ha il merito di aver sostanzialmente chiarito la storia esistenziale del Troppa proprio grazie ai numerosi dati d’archivio ora pubblicati; tutte notizie che non si limitano a ricostruire la figura del protagonista ma ci informano partitamente sui componenti della sua famiglia e sulla rete di amicizie e frequentazioni a vario titolo, gettando contemporaneamente nuova luce su alcuni aspetti della società secentesca, in particolare quelli delle procedure giudiziarie, tanto pittorescamente variegati quanto moralmente inquietanti.
Come è il caso del difficile amico del Troppa, Filippo Montani, personaggio noto alla giustizia criminale del tempo per reati contro la persona, ma protetto dal marchese Guido Vaini. D’altra parte, lo stesso Troppa, dotato, come la maggior parte degli artisti, di una personalità prorompente, era conosciuto dalla polizia. Aveva infatti subìto aggressioni, ma si era anche distinto, per un ferimento di spada inflitto al cognato Antonio De Stefani addirittura in occasione della cresima della propria figlia primogenita Giovanna Giacinta, e ancora per una violenta lite con un suo ex lavorante, Felice Tafagna, ritenuto responsabile dell’incrinatura dei suoi rapporti con Giambattista Gaulli; infine, per un drammatico scambio di accuse con un altro suo seguace, Marco Antonio Bellavia, pervicace accusatore di sua moglie, Maddalena De Stefani, fatta rinchiudere dal Troppa, dopo una tormentata vicenda giudiziaria, nel Monastero delle Malmaritate, in via della Lungara, essendo stato «[…] provato con molti testimonij che lei era una pubblica meretrice».
Girolamo Troppa era nato il 2 ottobre del 1636 a Rocchette, un borgo in Sabina. Orfano di padre, fu portato a Roma nel 1648 ospite di membri della conterranea famiglia Montani che gli garantirono il graduale inserimento nella società romana del tempo e lo assistettero nella frequentazione del quadrante urbico costituito dalle parrocchie di San Lorenzo in Lucina, Santa Maria del Popolo e Sant’Andrea delle Fratte; una zona ricca di botteghe di artisti e artigiani spesso al servizio di prìncipi e cardinali residenti nel quartiere, soprattutto i Borghese e i Montalto.
Proprio qui Troppa fu a contatto, fra gli altri, con artisti spagnoli, in particolare Bonifacio Herrera, che probabilmente dovette mostrargli qualche pittura del Ribera lasciata durante il suo soggiorno romano, e quindi Mario Nuzi, attraverso i quali perfezionò le tecniche decorative. Nel 1659, sono documentati i suoi rapporti con il palermitano Pietro Del Po, noto pittore e rinomato incisore, che era Accademico di San Luca e Congregato dei Virtuosi al Pantheon.
Dopo la conclusione nel 1668, della dolorosa vicenda giudiziaria della moglie, morta a Reggio Emilia nel 1679, Troppa dipinse, nel 1668, tele per il re Federico III di Danimarca e per la chiesa ferrarese dei Santi Giuseppe, Tecla e Rita, collaborando quindi con lo scultore Cosimo Fancelli, nell’esecuzione di affreschi nella galleria del palazzo del cardinale Flavio Chigi ai Santi Apostoli, e quindi, nel 1670, nella Casa di san Carlo dell’Arciconfraternita dei Lombardi. Nel 1672, alle dipendenze del Gaulli, che gli era amico, fece due tondi nella volta della chiesa di Santa Marta al Collegio Romano. Nel 1678, lavorò ad affresco nella chiesa dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso (fig. 1), dove Giacinto Brandi, aveva appena dipinto la volta centrale con la Caduta degli angeli ribelli.
Trasferitosi a Terni, dal 1682 lavorò per le famiglie aristocratiche di quella città (figg. 2-3)
quattro anni dopo ancora a Terni, eseguì per la volta della sagrestia della cattedrale un affresco raffigurante l’Assunzione della Madonna (fig. 4), decidendo quindi, nel 1686, di stabilire a Rocchette, sua città natìa, il centro dei propri interessi professionali, in cui, come ricorda Della Portella, furono eseguite opere per il Ternano, il Reatino (figg. 5-8)), la Sabina e le Marche. L’anno prima, aveva sposato nella chiesa romana di San Lorenzo in Lucina, Anna Maffei, con la quale avrebbe vissuto in serenità fino alla fine dei suoi giorni, nel 1711.
La Roma che, negli anni Sessanta-Settanta del XVII secolo, si apriva seducente agli occhi del giovane Troppa era quella dei grandi del barocco.
Grazie a Urbano VIII e ad Alessandro VII, Roma “sacra” riponeva in soffitta i castigati “panni di lana” fatti con linee semplici e sobri colori dagli artisti della Riforma cattolica e si vestiva di fruscianti abiti confezionati con stoffe preziose, sete rutilanti, ori e gioielli e con ogni splendore si presentava come la nuova regina artium.
La ricapitolazione solidamente materica di questo stato di grazia dell’arte e della società romana del Seicento si poteva immaginare nel colonnato beniniano, fatto ultimare nel 1667 da papa Chigi; un’opera che, composta di una selva di 284 colonne e 88 pilastri, non era un’architettura ma un’astrazione simbolica dello spazio architettonico a sostegno di uno stuolo di sculture di santi, che, urbi et orbi, proiettava, materializzata, la presenza del vicario di Cristo in terra al vertice della trionfante Chiesa di Roma.
Circa trent’anni prima, Pietro da Cortona, nella volta del salone d’onore di palazzo Barberini, aveva invece annullato lo spazio terreno e il tempo degli uomini, affrescandovi il Trionfo della divina Provvidenza, proiezione illusionistica verso l’infinito del pensiero dell’uomo che ha fede in Dio e nell’immortalità dell’anima. Un pensiero metafisico che Cortona, ancora negli anni Quaranta- Sessanta, avrebbe svolto negli affreschi di Santa Maria in Vallicella, ripreso con intensificazione concettuale da Giambattista Gaulli, che nel 1671 dipingeva i pennacchi di Sant’Agnese in Agone, e, fra il 1674 e il 1679, gli affreschi con l’Adorazione del nome di Gesù nell’omonima chiesa.
Un panorama di rassicuranti sinoliche visioni celesti, che, fiorito a Roma soprattutto negli anni Settanta, si sviluppava sotto gli occhi del giovane Troppa in versioni formali diverse ma sempre monumentali e ricche di nuove suggestioni: l’Apoteosi della Casa Pamphilj (1667-73) dipinta da Francesco Cozza nel palazzo di quella famiglia in piazza Navona; l’affresco di Carlo Maratta con il Trionfo della Clemenza (1673) in palazzo Altieri; l’Apoteosi di san Domenico (1674-75), di Domenico Maria Canuti ed Enrico Haffner, ai Santi Domenico e Sisto; infine, a chiusura del secolo (1691-94), l’Allegoria della missione gesuitica, affrescata da Andrea Pozzo nella volta di Sant’Ignazio.
Tutti testi pittorici che Troppa dovette ripetutamente studiare, anche se il suo riferimento più diretto, dal 1665, fu, come abbiamo già detto, Giambattista Gaulli, che lo presentò a Pellegrino Peri, un mercante molto introdotto nel mondo dell’arte, che aveva bottega in piazza Pasquino, vero carrefour di artisti di varia estrazione e nazionlità; Peri lo trattò amichevolmente, tanto che, nel novembre del 1665, gli prestò perfino cinquantuno scudi, per non parlare delle committenze che gli fece avere nel corso della sua vita.
Nella polverizzazione formale del tardo barocco ed in presenza di una eccezionale gamma di autorevoli modelli pittorici, l’arte di Girolamo Troppa non è riconducibile ad una o due fonti stilistiche, ma è frutto di eclettismo elegante e misurato: classicistica e spiccatamente barocca, declinata sempre con sapienza tecnica e altezza formale, orientata verso vari esiti per soddisfare i gusti di una committenza variegata, talora periferica, ma non per questo meno elegante.
Lo dimostrano soprattutto i dipinti su tela, che trattano temi sacri con intensa partecipazione psicologica e solennità d’impaginato; i riferimenti sono i grandi pittori del tempo, in particolare Cortona, Lanfranco, Baldi, Baciccia, Brandi, Mola e fors’anche, nei ritratti di Omero e Virgilio e di San Pietro penitente, nello Statens Museum for Kunst, di Copenhagen (figg. 9-10), qualche eco dei tanti ritratti di vegliardi dipinti da Ribera, durante il suo soggiorno romano nel secondo decennio del XVII secolo.
Molto gradite dalla committenza, le opere del Troppa si diffusero in tutto lo Stato Pontificio, dalla provincia di Campagna al Reatino (fig. 11-12), all’Umbria, alle Marche, fino alle Romagne.
Un gradimento più che comprensibile, crescente, soprattutto dagli anni Ottanta in poi, a seguito della presentazione di tele di grande efficacia devozionale, ora dai sontuosi impaginati maratteschi o tardo barocchi, costruite su una struttura con figure classicamente diradate nello spazio pittorico, come avviene nell’Annunciazione nell’Episcopio di Amelia (oggi nella Pinacoteca diocesana di Terni), ora dinamicamente intensificate dalla presenza di numerose figure, come sono le due drammatiche storie del Martirio di Santa Tecla, per la chiesa di San Giuseppe a Ferrara.
Frutto di grande perizia è la complessa elaborazione troppiana degli spazi pittorici, che si traduce in suggestive opere ecclesiastiche spesso declinate secondo lo schema della “macchina celeste” di ispirazione lanfranchiano-cortonesca; sono queste le tele con l’Incoronazione della Vergine, per la chiesa di San Sebastiano, a Forano, l’ Assunzione di Maria, per l’Assunta di Lanuvio, la Vergine con Bambino e i Santi Francesco e Chiara, per il monastero di Santa Chiara, a Montecastrilli, firmata e datata 1678, in cui traspaiono influssi di Lazzaro Baldi (fig. 13).
Il vertice di questo apprezzato filone mariologico il Troppa lo raggiunse con tre dipinti: due a Rieti, la Madonna con i Santi Benedetto e Scolastica, per la chiesa del monastero di santa Caterina (fig. 6), e l’Adorazione dei magi, capolavoro di suggestione tardocortonesca, per la chiesa di san Francesco (fig. 7); un altro, la Madonna del Rosario con i Santi Benedetto e Scolastica, per la chiesa di Santa Maria del Popolo, a Cittaducale (fig. 8) .
In conclusione, Troppa fu un pittore dotato di un’eccezionale varietas stilistica, dovuta proprio al suo non essere stato legato, salvo un breve alunnato presso il Gaulli, ad alcuna bottega né condizionato dalla frequentazione dei circoli accademici, non figurando nelle file dell’Accademia di San Luca, non ostante avesse tentato, in giovinezza, di vincervi un concorso, e neppure fra i sodali della pia Congregazione dei Virtuosi al Pantheon; il mancato ingresso in quest’ultimo Sodalizio fu dovuto forse ai suoi incolpevoli legami con la prima moglie dichiarata in giudizio «publica meretrice».
Ma, nonostante le disavventure personali, Troppa si mantenne uomo della migliore provincia, profondamente legato alle sue origini, il quale, in modo davvero anticonformistico, a soli cinquant’anni, rinunziò a vivere in una Roma affollata di artisti di varie tendenze e ricca di ambite committenze, per ritornare nella cittadina di Rocchette, suo luogo natìo.
Troppa, dopo una lunga e tormentata esperienza romana, a causa della dolorosa vicenda coniugale, riuscì così a ritrovarsi esistenzialmente lontano da Roma e a contrarre anche un secondo felice matrimonio. Nella quiete della provincia di Sabina e dell’Umbria, riscoprì l’entusiasmo per tradurre i vari lieviti della grande pittura del Seicento in uno stile personalissimo, vivace e riflessivo, eseguendo opere destinate ad una committenza culturalmente qualificata, come rileva Della Portella, «in una sorta di mercato parallelo delle opere d’arte», caratterizzato da prodotti di alta qualità formale con suggestioni tematiche equivalenti a quelle degli autori più blasonati.
E tutto questo fu realizzato senza l’ausilio di una bottega, non attestata infatti dalla documentazione attualmente in nostro possesso, con l’eccezione del pittore narnense Giacinto Giovannelli, cui si devono particolari secondari presenti nelle sue opere tarde. Ma, nonostante questi limitati interventi del Giovannelli su alcune opere, che, per altro, non ne diminuiscono il livello qualitativo, la produzione del Troppa è caratterizzata pressoché costantemente da rilevante spessore formale, e straordinariamente ampia nelle ideazioni tematiche.
Ma, oltre al livello formale, fu soprattutto questa varietas dei soggetti e della struttura spaziale delle pitture, destinate alla committenza territoriale non romana, che fece apprezzare l’opera del Troppa, pittore di consolidata esperienza sui grandi testi pittorici romani, che gli offrirono una gamma di possibilità inventive ed esecutive vasta e stilisticamente discontinua se non talora discordante. Una misura estetica, come abbiamo detto, ampiamente rilevata dalla critica contemporanea, che tuttavia, per la complessità cronologica e formale dei suoi riferimenti, necessita di ulteriori elementi chiarificatori, che solo gli archivi possono oggettivamente dare.
Questi, fino ad oggi, soprattutto con lo studio di Roberto Della Portella, hanno fatto luce sulla vita privata del Troppa, il quale, sotto il profilo della documentazione storicoartistica, resta però ancora un brillante interrogativo, per il suo essere stato trait-d’union fra gli esordi e gli esiti della pittura del XVII secolo fra Roma e le provincie dello Stato Pontificio.
Vitaliano TIBERIA Roma 14 febbraio 2021