di Nica FIORI
Il “restauro della speranza” nella basilica di Santa Francesca Romana
La basilica di Santa Francesca Romana è sempre stata meta di turisti affascinati dalla sua invidiabile posizione tra il Tempio di Venere e Roma e il Foro romano, nel cuore della città antica.
Già dall’esterno la sua bianca facciata seicentesca coronata di statue e il campanile romanico in laterizio, accanto al monastero dei benedettini di Monte Oliveto che l’hanno in custodia, sembrano preannunciare la visione di uno straordinario patrimonio di arte sacra (foto 1 e 2). Sorta come piccolo oratorio dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, intorno al VII secolo, sul luogo dove secondo la tradizione Simon Mago avrebbe sfidato il Principe degli Apostoli, venne ampliata nel IX-X secolo e chiamata Santa Maria Nova per distinguerla da Santa Maria Antiqua, la chiesa distrutta nel terremoto dell’847; all’XI secolo risale il suo mosaico absidale di paradisiaca bellezza con al centro la Madonna col Bambino su un trono gemmato, circondata dagli apostoli Giacomo, Giovanni, Pietro e Andrea, ma l’aspetto complessivo è barocco ed è dovuto alla trasformazione successiva alla dedica a Santa Francesca Romana, in occasione della sua canonizzazione nel 1608 (foto 3 e 4).
Dopo un restauro avviato nell’estate 2020, la chiesa è stata riaperta al pubblico il 9 marzo 2021, nel giorno della festa di Santa Francesca Romana. L’intervento si era reso necessario in seguito alla caduta di alcuni frammenti pittorici dal pregevole soffitto cassettonato. Le infiltrazioni d’acqua degli anni passati avevano impregnato le strutture lignee compromettendo gli apparati decorativi e il sistema di tenuta. L’intervento di messa in sicurezza e restauro del sottotetto e del controsoffitto a lacunari è stato curato dal Parco archeologico del Colosseo, diretto da Alfonsina Russo, con il contributo del Fondo Edifici per il Culto e della Comunità Benedettina Olivetana dell’attiguo monastero (foto 5).
Grazie a questo lavoro di condivisione e collaborazione tra Enti, possiamo nuovamente ammirare gli splendidi colori del soffitto ligneo, che risale al rifacimento seicentesco della chiesa. Realizzato nel 1612 su progetto dell’architetto Carlo Lambardi (detto anche Lombardo) secondo l’iconografia proposta dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati, il soffitto è caratterizzato da una ripartizione in lacunari con stemmi e figure terminanti in girali, che si intrecciano con grazia e maestosità. Nella fascia centrale spiccano tre gruppi scultorei lignei: quello verso l’altare maggiore rappresenta Santa Francesca Romana con il suo angelo, quello centrale la Vergine con le sante Agnese e Cecilia (le martiri i cui corpi furono riesumati nelle rispettive chiese dal card. Sfondrati), l’altro San Benedetto da Norcia (foto 6, 7 e 8).
Solo dopo aver assicurato la tenuta della struttura e ripristinato la coesione delle orditure, i restauratori hanno provveduto alla riadesione della pellicola pittorica e delle dorature in foglia d’oro dei decori e delle superfici scultoree, colmando le mancanze nel pieno rispetto dei principi del restauro modernamente inteso: riconoscibilità, reversibilità, minimo intervento, autenticità. La complessa operazione viene spiegata nel volume “Santa Francesca Romana. Il restauro della speranza“, curato da Alfonsina Russo, Cristina Collettini e Alessandro Lugari ed edito da Gangemi editore, il cui titolo sembra alludere al fatto che il restauro è stato compiuto, nel segno della speranza, in un periodo di chiusura forzata a causa della pandemia da covid 19.
Molta speranza è riposta da parte dei fedeli in Santa Francesca Romana, che, oltre a essere patrona delle vedove e degli automobilisti, è invocata pure contro le epidemie, perché è stata di grande aiuto al popolo romano nel corso della peste del 1413. Ricordiamo che la santa, nata nel 1384 dalla nobile famiglia de Bussis de’ Leoni, sposò giovanissima il patrizio Lorenzo de’ Ponziani, cui era stata promessa dal padre, ed ebbe tre figli. Per tutta la vita dedicò le sue energie e i suoi beni materiali a opere di carità, giungendo anche a trasformare la sua casa in ospedale. Anche se la sua esistenza fu segnata da dure prove (vide il marito catturato ed esiliato da re Ladislao di Angiò e due figli morti prematuramente), ella mantenne sempre salda la fede e l’amore verso gli altri, pensando sia alla salute materiale e fisica dei bisognosi, sia alla loro assistenza spirituale.
Dotata di grande carisma, riuscì a coinvolgere altre donne nella sua opera caritatevole, formando così un gruppo di oblate (dal latino oblatus, ovvero offerto, in ricordo di Gesù che offrì se stesso per la salvezza degli uomini), che si offrirono dal 1425 come oblate secolari per il monastero benedettino di Santa Maria Nova, finché nel 1433 Francesca istituì la Casa delle Oblate Benedettine di Monte Oliveto, nel rione Campitelli, presso Tor de’ Specchi, dove si ritirò a vita comune quando rimase vedova nel 1436. Morì il 9 marzo 1440, acclamata e invocata da tutti per i suoi miracoli come “la Santa di Roma”, tanto che Paolo V nel 1608 la canonizzò dichiarandola compatrona della città.
La santa è sepolta nella cripta della chiesa a lei dedicata, dove un ovale in marmo di scuola berniniana ce la mostra con il libro della regola e l’angelo, che, come racconta il suo biografo Giovanni Mattiotti, non l’abbandonava mai.
Ed è sempre con il suo angelo che è stata raffigurata entro un’edicola a tempietto con quattro colonne in diaspro siciliano nell’altare della Confessione, progettato nel 1644-1648 da Gian Lorenzo Bernini. (foto 9). Il tempietto originale è stato trafugato dai francesi durante l’invasione napoleonica e la scultura attuale, realizzata da Giosuè Meli nel 1866, sostituisce quella berniniana.
La Santa è ricordata anche in una cappella laterale a lei dedicata, nella pala con la Visione di S. Francesca Romana, di ambito romano, risalente alla prima metà del XVIII secolo (foto 10).
Oltre alla santa e ad altri personaggi, nella chiesa è sepolto Gregorio XI, il pontefice che riportò la sede del papato da Avignone a Roma. Morto nel 1378, venne prima deposto in un’urna di verde antico e più tardi nel monumento fatto erigere dal Senato e dal Popolo romano nel 1584. Realizzato da Pietro Paolo Olivieri, rappresenta al centro l’ingresso del pontefice a Roma, dove è atteso presso la porta della città dalla personificazione di Roma (riconoscibile dall’aspetto guerriero simile a quello di Minerva), mentre ai lati sono collocate le statue della Fede e della Speranza (foto 11).
Un altro segno di speranza e di rinascita nella basilica è dato dalla presenza di un’icona straordinaria, amorosamente conservata dai monaci nella sacrestia. Si tratta di un’immagine della Madonna col Bambino del VI secolo, sopravvissuta all’iconoclastia, e considerata la più antica di Roma nel suo genere (ricordiamo, però, che nelle catacombe di Priscilla esiste un affresco con la Madonna ben più antico, databile all’età severiana).
È stata realizzata a encausto su tela, e in un secondo momento applicata su tavola. In realtà solo i volti della Vergine e del Bambino sono autentici, recuperati dal grande restauratore Pico Cellini nel 1950 al di sotto di uno strato pittorico di una tavola con la stessa iconografia (chiamata Madonna del Conforto), datata alla fine del terzo decennio del Duecento e conservata nell’abside della stessa chiesa di Santa Francesca Romana, sotto lo splendido mosaico absidale.
Lo sguardo ipnotico dell’Imago Antiqua, che originariamente era l’icona di Santa Maria Antiqua, ci colpisce profondamente, così come doveva suggestionare i fedeli quando veniva trasportata in processione, probabilmente anche nel caso dell’epidemia di peste del 590 al tempo di San Gregorio Magno, quando sarebbe apparso l’Arcangelo Michele sopra il Mausoleo di Adriano ad annunciare la fine dell’epidemia (foto 12).
Davanti a quest’immagine le altre pur notevoli opere d’arte conservate nella sacrestia, tra cui un ritratto di Paolo III (1534-1545) attribuito a Perin del Vaga, La Trinità e il Beato Tolomei di Giacinto Brandi (XVII secolo) e San Benedetto risuscita un bambino, di Pierre Subleyras (1744), sembrano quasi scomparire, e i numerosissimi cuori d’argento sistemati in due teche ai lati dell’immagine testimoniano l’aspettativa che i devoti ripongono verso questa tavola “miracolosa”, della quale si era perso il ricordo e che è rinata da un felice restauro.
Andando ancora più a ritroso nel tempo scopriamo un’ulteriore curiosa testimonianza, che si riallaccia alla fondazione di questo edificio sacro, che ci parla di preghiera e di speranza, nel senso che queste forme di devozione possono aiutare a far sì che il male non prevalga sul Bene.
Al tempo dell’imperatore Nerone sarebbe giunto a Roma, proveniente dall’Oriente, Simon Mago, nello stesso periodo in cui Simon Pietro, il santo apostolo, cercava di diffondere nell’Urbe il cristianesimo. Tra i due omonimi, che già si erano scontrati a Gerusalemme, si sarebbe instaurata una sorta di rivalità, ed entrambi fecero cose “magiche”, ma uno a fin di male e l’altro a fin di bene. Di questa contrapposizione tra i due si parla negli Atti degli Apostoli, in diversi passi dei primi Padri della Chiesa e in numerose leggende apocrife fiorite nel tempo.
Simon Mago era un illusionista di professione e probabilmente voleva arricchirsi dando ampia dimostrazione delle sue capacità, che dovevano essere straordinarie, tanto che molti pensavano che egli avesse dei poteri divini. La lotta fra i due Simoni si concluse il giorno in cui una gran folla di romani si riunì, nel luogo dove pochi anni dopo sarebbe sorto il Colosseo, per assistere allo spettacolo della levitazione di Simon Mago. Questi, dopo aver fatto i suoi preparativi, si librò in cielo. Si racconta che volando salì molto in alto, tra la meraviglia del pubblico e dell’imperatore. Ma San Pietro e San Paolo, che pure erano presenti alla scena, cominciarono a pregare Dio affinché facesse cadere il mago nel vuoto. Ed egli cadde sfracellandosi, secondo una tradizione riportata dal regesto di Innocenzo IV e da altri documenti medievali, su un lastrone della via Sacra.
A riprova della diffusione di questa leggenda, la chiesa di Santa Francesca Romana conserva una reliquia apocrifa consistente in due pietre con incavi. Nell’iscrizione posta sopra di esse si legge: “In queste pietre pose le ginocchia S. Pietro quando i demonii port(arono) Simon Mago per aria” (foto 13).
Ovviamente la presenza di queste pietre, collocate nella parete laterale del transetto destro, non dimostra affatto la veridicità del racconto, ma accresce indubbiamente il fascino di un luogo che con le sue diverse stratificazioni ci fa rivivere tanti secoli della storia cristiana e artistica della basilica sorta in mezzo ai ruderi della città pagana.
Nica FIORI Roma 14 Marzo 2021