di Nica FIORI
“Messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà e, soprattutto, araldo della religione di Cristo e fondatore della vita monastica in Occidente”.
Con queste parole ha inizio la lettera apostolica Pacis Nuntius con la quale Paolo VI ha proclamato San Benedetto Abate patrono principale d’Europa. Era il 24 ottobre 1964 e il Pontefice si trovava a Montecassino per benedire l’antica abbazia, ricostruita fedelmente dopo il bombardamento aereo del 1944 (foto 1 e 2)
Fu allora che prese il via la “Fiaccola Benedettina”: un singolare itinerario, guidato da tedofori, che si snoda lungo le città legate al santo e che ogni anno parte da una capitale europea diversa e termina il 21 marzo a Norcia, la cittadina umbra che gli ha dato i natali.
Lo spirito che anima questa iniziativa si ricollega idealmente a quello che spinse i monaci benedettini e i pellegrini missionari, tra cui i santi Cirillo e Metodio, Colombano, Bernardo e molti altri, a percorrere le strade d’Europa per annunciare la parola di Dio. È una fiaccola simbolica, che vuole riunire i diversi popoli in un progetto unitario di pace e illuminare il difficile cammino per la costruzione di un’Europa unita non solo da motivi economici, ma anche dalle comuni radici cristiane.
Quest’anno il cammino della fiaccola “Pro Pace et Europa una” è stato del tutto diverso dagli anni precedenti, a causa della pandemia in corso, che impone il rispetto di norme ben precise. Per la prima volta, dopo il sisma del 30 ottobre 2016, è stata data in via eccezionale la possibilità di accedere all’interno della cripta della basilica di San Benedetto, ancora in ricostruzione, e proprio qui si è svolta la solenne accensione della Fiaccola Benedettina.
Una ristretta rappresentanza dei tre Comuni di Norcia, Subiaco e Cassino, gemellati nel nome di San Benedetto, e delle rispettive delegazioni religiose, tra cui l’Abbazia di Montecassino con l’abate dom Luigi Maria Di Bussolo, ha partecipato alla cerimonia, durante la quale è stato letto il Messaggio di pace 2021, inviato da papa Francesco. Come ha auspicato il papa, la fiaccola è “un gesto simbolicamente evocativo di un rinnovato desiderio di rinascita” e, pertanto, è stata portata in due luoghi simbolo nella lotta contro il Covid-19, nell’Ospedale Spallanzani di Roma e nell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, dove è arrivata il 18 marzo 2021, in occasione della “Giornata in memoria delle vittime dell’epidemia da Coronavirus” (foto 3 e 4).
Se è vero che il destino è nel nome (nomen omen), Benedetto fu davvero “benedetto di nome e di grazia”, come scrive il suo biografo San Gregorio Magno (papa e dottore della Chiesa) nel II libro dei Dialogi (593 circa), chiamandolo l’Uomo di Dio. Un uomo che
“Fin dai primi anni della sua fanciullezza era già maturo e quasi precorrendo l’età con la gravità dei costumi, non volle mai abbassare l’animo verso i piaceri. Se l’avesse voluto avrebbe potuto largamente godere gli svaghi del mondo, ma egli li disprezzò come fiori seccati e svaniti”.
Benedetto nacque, probabilmente nel 480, alla fine dell’impero romano d’Occidente, a Norcia, città precocemente cristianizzata e all’epoca già sede vescovile. Nella cripta della chiesa di Norcia, che ha subito nel tempo l’azione distruttiva di vari terremoti, fino all’ultimo catastrofico del 2016, vi sono resti romani, relativi forse alla casa natale di Benedetto.
La sua famiglia di origine era quella degli Anicii, la stessa di San Gregorio Magno, che si fece benedettino e descrisse la vita di Benedetto con uno stile edificante fatto di exempla e miracula. Benedetto ricevette, insieme alla sorella gemella Scolastica, un’ottima educazione. In giovane età ebbe modo di conoscere le esperienze di alcuni eremiti che vivevano nei pressi di Norcia. Per volontà del padre, intorno ai dodici anni si recò a Roma per perfezionare gli studi umanistici, in compagnia della sorella e della nutrice Cirilla. Le proprietà degli Anici a Roma erano in parte sul Celio (è attestata una Domus Aniciorum del IV-V secolo presso San Gregorio al Celio) e in parte a Trastevere, dove Benedetto avrebbe vissuto per 5 anni, nel luogo dove poi sorse la chiesa di San Benedetto in Piscinula.
Nel 497 abbandonò quella che era stata la capitale dell’Impero, perché la sentiva estranea e piena di corruzione, e arrivò, accompagnato dalla nutrice, nella valle dell’Aniene, passando per la via Prenestina a Roiate e ad Affile, dove dimorò nella chiesa di San Pietro. Qui sarebbe avvenuto il primo miracolo, quando risanò il setaccio per il grano che Cirilla aveva preso in prestito e che aveva rotto (foto 5).
Il prodigio suscitò tanto clamore che a San Benedetto, che voleva schivare la folla, non rimase che fuggire di nascosto, anche dalla sua nutrice.
Si ritirò in una località vicina, Subiaco, dove un monaco gli indicò una grotta per il suo eremitaggio (intorno alla quale poi verrà eretto il monastero del Sacro Speco), che durò 3 anni (foto 6) .
Da qui poi si recò a Vicovaro, dove fu chiamato a dirigere un monastero preesistente, probabilmente basiliano. I monaci, non amando le regole rigide che egli introdusse, cercarono di avvelenarlo, ma la coppa di vino avvelenata si ruppe miracolosamente quando lui la toccò facendo il segno della croce (foto 7).
Lui allora tornò a Subiaco, dove nella Villa di Nerone creò il protocenobio (gli scavi del 1995 hanno evidenziato un piccolo forno che era nella cucina del convento) e dedicò una chiesa alla Vergine in un ambiente termale absidato. Poi, visto che arrivavano da lui molti devoti desiderosi di seguire il suo esempio, fondò nell’arco di molti anni 13 monasteri (12 più 1, ciascuno con 12 monaci più 1, a ricordare gli apostoli e Gesù). La sua fama di santità non fu esente da invidie, tanto che un prete di nome Fiorenzo, istigato dallo spirito maligno, “progettò un’orrenda decisione: inviò al servo dell’onnipotente Signore un pane avvelenato, presentandolo come pane benedetto e segno di amicizia”, come racconta San Gregorio Magno. Ma anche questa volta l’Uomo di Dio si rese conto dell’insidia nascosta nel pane e ordinò a un corvo, che solitamente veniva da lui per beccare un po’ di briciole, di prendere quel pane e di buttarlo in un luogo dove nessuno potesse trovarlo.
Alla fine Benedetto sentì l’esigenza di allontanarsi e si recò a Cassino, stabilendosi sull’acropoli dell’antica città. Qui, distrutti i templi pagani e disboscata la foresta dove si svolgevano i riti sacri, il santo iniziò la costruzione di un’opera colossale: l’abbazia. Siamo intorno al 529 e Benedetto è un uomo maturo per la sua rivoluzione monastica, testimoniata dalla stesura nel 540 della Regola (in realtà già pensata a Subiaco) che propone a se stesso e agli altri (foto 8 e 9).
Questa è basata sull’impegno della ricerca di Dio, sulla lettura dei testi sacri e sulla fatica del lavoro, indispensabile per il proprio sostentamento. Concezioni che verranno poi sintetizzate nel motto “ora et labora”, decisamente innovativo rispetto al monachesimo orientale, che era solo contemplativo. Dopo una vita costellata di fatti miracolosi, morì a Montecassino in piedi, come Mosè, pregando con le mani levate al cielo. Era il 21 marzo 547 (foto 10).
Un mese prima di morire si era incontrato con la sorella Scolastica, fondatrice del ramo femminile dell’ordine e anche lei santificata (foto 11).
Fu grazie anche all’esempio di santità dei due fratelli, che la Regola continuò imperterrita il suo cammino trionfale: davanti ad essa ogni altra legislazione monastica doveva cedere il passo, così che ben presto si arrivò a quell’unità pratica della concezione religiosa, che è alla base del cristianesimo europeo.
L’enorme importanza religiosa, politica e sociale che il suo Ordine ebbe nel Medioevo si è riflessa su tante e tanto varie manifestazioni artistiche, improntandole di un particolare carattere, che si può parlare a tutti gli effetti di arte benedettina. Grazie poi al lavoro da amanuensi dei monaci, pazientemente svolto negli scriptoria, la tradizione culturale classica è stata tramandata fino a noi. È dai loro monasteri che sono usciti i più insigni codici miniati, che ci meravigliano per la raffinatezza calligrafica dei disegni e per il vivace cromatismo (foto 12).
Il giorno tradizionale del santo, il 21 marzo, coincide con l’inizio della primavera e ha ispirato il noto proverbio: “Per San Benedetto, la rondine sotto il tetto”.
In realtà già dal 1970 le rondini che migrano dal Sud verso i nostri lidi non hanno più il loro patrono. La sua festa è stata spostata all’11 luglio, perché, secondo la riforma liturgica, non vi devono essere feste o memorie obbligatorie di santi nel periodo quaresimale. La scelta di questa data è legata alla supposta traslazione delle ossa di San Benedetto dall’abbazia di Montecassino a quella di Fleury, in Francia, in seguito all’invasione longobarda del 581/589. Ma la tradizione è dura a morire e ancora adesso nelle sue abbazie si celebra il marzo benedettino.
La primavera potrebbe essere, in effetti, la stagione giusta per visitare degli incantevoli borghi intrisi di memorie storiche e mistiche legate al santo, che meriterebbero ognuno un articolo a sé. Nel Lazio, oltre al celeberrimo Sacro Speco di Subiaco (foto 13) e all’abbazia di Montecassino, si ricorda anche una grotta presso il santuario della Mentorella (nel comune di Guadagnolo), dove il santo si sarebbe ritirato a pregare prima di recarsi a Subiaco, mentre a Roiate si conserva un masso di pietra calcarea dove Benedetto, secondo la tradizione, avrebbe lasciato l’impronta del corpo, dopo che vi si era disteso una notte a riposare in occasione di una sua visita al paese durante una pestilenza.
Si dice che la pietra trasudi il 21 marzo gocce di sudore che i locali chiamano “manna” e che questo liquido abbia il potere di guarire da alcune malattie, soprattutto degli occhi.
Purtroppo, date le restrizioni di questo periodo, il nostro interesse si è rivolto unicamente a Roma e in particolare alla chiesa trasteverina dove è venerato.
Parliamo di San Benedetto in Piscinula, nella suggestiva Piazza in Piscinula, così chiamata perché in quel luogo la gens Anicia possedeva una ricca dimora con vasche termali (ma poteva anche trattarsi di terme pubbliche). La chiesa ha conservato l’impianto medievale originale con tre piccole navate irregolari, divise da otto colonne di spoglio con capitelli di varie epoche (databili tra il I e il V secolo), raccordate da arcate che terminano nell’abside semicircolare. La copertura a capriate del XV secolo è stata più volte restaurata mentre è originario il pavimento cosmatesco del XII secolo. Dello stesso periodo è il campaniletto romanico (il più piccolo di Roma) a due ordini di bifore, che conserva la campana più antica tra quelle romane (datata al 1069). La facciata neoclassica, di Pietro Camporese il Giovane, risale al restauro della metà dell’Ottocento (foto 14, 15 e 16).
Sulla sinistra del portico è situato il piccolo oratorio (forse dell’VIII secolo), cui si accede da un ingresso con decorazione cosmatesca e architrave sostenuto da due colonne di cipollino. Sull’altare è collocata l’immagine trecentesca (affresco staccato e montato su tela) della Madonna della Misericordia. L’oratorio costituisce l’elemento più antico della chiesa ed è collegato all’angustissima cella dove Benedetto, secondo la tradizione, era solito pregare (foto 17 e 18).
Lo splendore della chiesa originaria emerge in alcuni affreschi riportati alla luce dall’ultimo restauro, in particolare nella navata sinistra si è conservata parte del Battesimo di Cristo, dove si legge la frase pronunciata dal Battista: Ecce agnus dei. Nel presbiterio a destra vi è un dipinto con Sant’Elena e a sinistra Sant’Anna con la Vergine e il Bambino. Altri resti ancora ci fanno intuire che la chiesa doveva essere un tempo tutta affrescata.
La chiesa conserva tre dipinti del santo. Il più antico è un affresco, che si trovava originariamente nel portico. Staccato e conservato su tavola, è collocato attualmente nella navata destra, vicino all’ingresso. Risale a un periodo tra il IX e il XII secolo e raffigura il santo ancora giovane, con poca barba, in piedi, con un bastone “a T”, come quelli dei monaci d’Oriente. Il suo abito è scuro e ricorda il colore naturale della lana scura (foto 19).
La seconda raffigurazione (pittura su tavola), risalente probabilmente al XIII secolo, è collocata nell’abside sull’altare maggiore, al di sotto di una Madonna col Bambino (affresco, XIV secolo). Questa volta San Benedetto è seduto, in vesti nere, con il baculo in forma di pastorale e il libro della regola aperto, con le parole che richiamano a una conversione totale: “Ausculta, fili, precepta magistri et inclina aurem cordis tui (Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del maestro e volgi ad essi l’orecchio del tuo cuore)” (foto 20).
La terza immagine la troviamo sull’altare della navata destra nella pala (copia ottocentesca di un dipinto del Seicento) che raffigura la Madonna col Bambino, San Lorenzo e San Benedetto. Il santo con una lunga barba e abito scuro è raffigurato, in piedi, a sinistra della Madonna.
Ovviamente a Roma vi sono altre chiese e cappelle intitolate al santo e vi sono anche le abbazie benedettine di San Paolo fuori le Mura e di Monte Oliveto presso la basilica di Santa Francesca Romana. Tra le raffigurazioni presenti in altre chiese voglio ricordare i due affreschi (VIII–XI secolo) che si trovano nella chiesa inferiore paleocristiana di San Crisogono, ancora una volta a Trastevere. Quello meglio conservato raffigura San Benedetto che guarisce un lebbroso (foto 21), l’altro raffigura il Salvataggio di San Placido.
Placido era un giovane monaco che era caduto nel fiume e la corrente lo stava portando via, ma, come racconta il solito San Gregorio Magno, come pure Iacopo da Varazze nella Legenda aurea, San Benedetto, che stava nella sua cella, vide tutto in spirito, allora chiamò Mauro e gli ordinò di correre a prenderlo. Quello si precipitò e, camminando miracolosamente nell’acqua, senza rendersene conto, arrivò da Placido e, tirandolo per i capelli, lo trasse in salvo: fu quel che si dice un miracolo avvenuto ”in virtù dell’obbedienza”.
Nica FIORI Roma 21 marzo 2021