di Francesca CAPPELLETTI
Cos’è che ispira l’artista ? I segreti stanno anche nelle botteghe*
La scorsa estate, nella mostra Panter’s Paintings alla National Gallery di Londra e, più recentemente in convegno organizzato alla British School of Rome, a cura di Francesca Parrilla e Matteo Borchia è stata analizzata l’importanza degli studi degli artisti nello sviluppo della loro creatività e in particolare sul potere d’ispirazione degli oggetti. Sono emersi documenti i più disparati, dalle testimonianze letterarie agli inventari ereditari, in città ed epoche diverse che, dal ‘500 al ‘700, raccontano tantissimo dei processi di elaborazione artistica, ma anche delle ambizioni dei pittori, delle dinamiche della bottega e del valore attribuito agli oggetti come strumenti di lavoro e come simboli della posizione sociale. Il possesso delle opere d’arte e dei ritratti degli antenati sta infatti a rappresentare l’elevato status raggiunto dalla famiglia e già dalla metà del Cinquecento alcuni artisti sembrano allestire le loro case, spesso comunicanti con la bottega, secondo criteri di decorum, all’epoca in via di definizione, che imponevano il possesso di opere di devozione, di ritratti di pontefici e regnanti, accanto ad elementi più tipici del mestiere, come disegni, abbozzi, raccolte di stampe, arnesi vari, qualche strumento musicale, calchi di marmi famosi e talvolta qualche trattato di prospettiva.
L’ampiezza sella raccolta dipendeva ovviamente dalle fortune del pittore e la collezione di Peter Paul Rubens, ad esempio, identificata tradizionalmente con quella raffigurata nel dipinto di Cornelius de Bailleur conservato a Palazzo Pitti a Firenze, ci mostra una collezione simile a quelle aristocratiche, con una galleria circolare di statue e dipinti simmetricamente su tutte le pareti. Si tratta senz’altro di un caso eccezionale, ma anche in circostanze più comuni, in Italia e nelle Fiandre, opere del passato erano certamente raccolte come esempi da studiare, o segni tangibili di ammirazione pe run artista in particolare.
Un dipinto olandese decisamente più tardo, La lezione di disegno di Jan Steen, al Getty Museum di Los Angeles,
sintetizza la tradizione nordica dello studio dell’artista, luogo di apprendistato, in questo caso mondano ed ironico, considerando che l’allieva è una giovane donna elegante, ma anche luogo della raffinatezza della vita d’artista, circondato non solo dagli strumenti della professione ma anche da oggetti lussuosi e ricercati. I disegni che compaiono in molte raffigurazioni italiane e nordiche dello studio d’artista e la cui esecuione è al centro del quadro di Steen venivano studiati e copiati e alcuni grandi artisti, come lo stesso Rubens, non si trattenevano dal ritoccare disegni e dipinti che avevano acquistato nei loro viaggi.
I disegni in effetti erano materiale fragile e prezioso, si potevano trasportare da una città all’altra, si potevano mostrare agli amici e ai collaboratori e a volte erano così desiderati da essere oggetto di furti e di truffe. Più spesso però erano rielaborati: gli schizzi di monumenti romani di Matthjis Brill vennero più volte e a lungo usati dal fratello Paul, protagonista della pittura di paesaggio a Roma nei primi decenni del Seicento. E Paul li prestò anche, intorno al 1593, a un altro pittore fiammingo di passaggio per Roma, il celebre Jan Brueghel dei Velluti.
Nel segno dell’ossessione per il paesaggio romano e per la sua rappresentazione è la raccolta di Claude Lorrain, il pittore di paesaggio che costruì, nella Roma del Seicento, in particolare dal pontificato Barberini in poi, la sua straordinaria fama europea. Ricercato da principi e cardinali, Claude conservava nella sua dimora i suoi disegni e centocinquanta dipinti, tutti di “paesi”.
Una tale uniformità di soggetti è assolutamente unica nel panorama delle collezioni dell’epoca tale da far pensare che il paesaggio, osservato continuamente nelle lunghe giornate di studio dal vero nella campagna romana, fosse evidentemente anche l’unico riferimento visivo desiderabile all’interno della casa.
Se per Claude si deve dunque parlare di una passione esclusiva per il paesaggio, il piccolo dipinto di
Michelangelo Cerquozzi nella Galleria Pallavicini di Roma, che mostra l’artista nello studio intento a dipingere San Girolamo, ci mostra un uomo anziano che sta posando per il quadro. Cerquozzi mette in scena la pratica del dipingere “dal naturale” utilizzando un modello vivente, invenzione che si faceva risalire alla rivoluzione caravaggesca dell’inizio del secolo. Lo studio appare spoglio e non molto confortevole, con qualche quadro appeso alle pareti.
Ancora più sintetica è l’immagine dell’artista nello studio in un capolavoro di Annibale Carracci, l’Autoritratto dell’Ermitage di San Pietroburgo. Qui l’immagine stessa dell’artista è totalmente affidata alle sue capacità di pittore e al centro del quadro, sopra il cavalletto, è posto l’autoritratto. Lo studio è lo spazio del mestiere dell’artista e, nella totale assenza di elementi narrativi e delle stesse figure umane, vi trionfa, unica protagonista, l’arte della pittura.
di Francesca CAPPELLETTI Roma Novembre 2017