di Sergio ROSSI
PDF
Excursus caravaggesco
Uno dei temi che a suo tempo ha suscitato un vero scandalo tra i benpensanti e i teorici classicisti è quello delle presunte immagini della Vergine per i cui lineamenti Caravaggio si sarebbe servito di prostitute ritratte per l’occasione, a partire dalla cosiddetta Madonna dei Pellegrini, [fig.1] pala che così venne descritta dal Baglione:
«Nella prima cappella della chiesa di Sant’Agostino alla man manca, il Caravaggio fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia; e per queste leggierezze in riguardo delle parti che una gran pittura aver dee, da popolani ne fu fatto estremo schiamazzo».[1]
Il dipinto, in realtà, a differenze di altre opere del Merisi, non ha subito alcun rifiuto ed è rimasto nel luogo in cui fu realizzato, per cui il racconto del Baglione appare più dettato dal noto malanimo che questi nutriva verso il nostro pittore che corrispondere alla realtà dei fatti. Quanto alla modella che avrebbe posato per la figura della Vergine essa viene ormai comunemente identificata con “la Lena donna del Caravaggio che sta in piedi a Piazza Navona”: ma questo significa solo che la giovane abitava ai piedi della piazza e non che si prostituiva “in piedi” nella piazza, come per lungo tempo si è voluto intendere.[2] Si tratta molto probabilmente di Maddalena Antognetti, ma chi in realtà essa fosse, modella, amante, ragazza madre, cortigiana o tutte queste cose messe insieme, ad oggi non possiamo stabilire con certezza, anche perché a volte le notizie che la riguardano sono sfociate in racconti romanzati e contraddittori.[3] In realtà l’unico documento certo che la riguarda e nel quale viene esplicitamente definita come cortigiana è una relazione del 2 novembre 1604 che recita:
«Questa notte andando alla cerca con la mia compagnia, quando sono stato in piaza Catinara ho trovato una certa Lena romana, che era ammantata con un ferraiolo, et erano sette ore sonate; et perché detta dona e cortigiana io l’ho mandata prigione a corte Savella».[4]
Sta di fatto che proprio per questa fanciulla il Caravaggio si scontrerà, fino a ferirlo gravemente, con lo scrivano Mariano Pasqualone, solo un anno prima del fatale duello che lo costringerà a fuggire da Roma, ed esattamente il 19 luglio del 1605. In particolare la vittima dirà di non aver visto l’aggressore che lo ha assalito alla spalle procurandogli una grave ferita alla testa:
«ma io non ho da fare con altri che con d[ett]o Michelang[e]lo, p[er]ché a queste sere passate havessimo parole sul corso lui et io p[er] una donna chiamata Lena che sta in piedi a piazza Navona passato il palazzo del s[igno]r Sertorio Teofilo, che è la donna di Michelang[e]lo».[5]
Condannato in contumacia e rifugiatosi a Genova, già il 26 agosto
«Il pubblico notaio [Domenico Marconi] prende atto della volontà delle parti di fare la pace da buoni cristiani, grazie alla dichiarazione rilasciata dal Caravaggio nella quale il pittore chiede perdono al notaio Mariano Pasqualone de Accumulo per averlo aggredito».[6]
Va poi sottolineato come la Lena abbia posato anche per la Madonna dei Palafrenieri della Galleria Borghese e come il suo volto torni anche, senza ombra di dubbio, in quello della Madonna delle Sette opere di Misericordia, a conferma del fatto che il Merisi aveva una straordinaria memoria visiva e ripeteva spesso i medesimi modelli anche a distanza di anni.
Ma perché questa sua abitudine di conferire a quasi tutte le Madonne da lui dipinte un aspetto “umano, troppo umano”, anche se per nulla sconveniente? La risposta non può ridursi al puro gusto della provocazione e dello scandalo, come appunto i biografi sei e settecenteschi tendono ad affermare e va piuttosto ricondotta a mio avviso anch’essa alla vicinanza del nostro pittore a quegli ambienti pauperistici, borromaici ed oratoriani che volevano dare della Chiesa un’immagine caritatevole e “misericordiosa”.
Questo ragionamento si adatta alla perfezione proprio alla Madonna dei Pellegrini, da cui siamo partiti e la cui il committenza, come perfettamente ricostruito da Alessandro Zuccari, si deve agli eredi del bolognese Ermes Cavalletti, “ratiocinator” della Camera apostolica, molto devoto alla Madonna di Loreto e membro della arciconfraternita romana della Santissima Trinità dei Pellegrini[7], il che riconduce ancora una volta all’ambiente di San Filippo Neri e degli Agostiniani e conferisce al dipinto un preciso valore “giubilare”, anche se l’Anno Santo era ormai trascorso da cinque anni.
Infatti, nel dipinto, l’apparire sulla soglia della Vergine indica l’accoglienza che la Chiesa fa ai suoi fedeli:
«Anche l’abito dimesso dei pellegrini assume in questo contesto un significato particolare. I cosiddetti “contadini” ritratti dal Merisi sono piuttosto due fedeli abbigliati con vesti povere e sdrucite: tale atto di umiltà, non di rado, era praticato anche dai nobili ed è possibile che Orinzia de Rossi abbia fatto ritrarre nel pellegrino il defunto marito».[8]
D’altro canto un modello per la pellegrina,[9] a quanto mi risulta finora sfuggito alla storiografia, è quello della Sant’Anna della raffaellesca Madonna dell’Impannata di Palazzo Pitti: seppure ripresi in controparte i volti delle due donne sono assolutamente coincidenti e dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la profonda cultura artistica del Caravaggio, ribadita anche dal fatto che la stessa Madonna del nostro dipinto, nella sua postura, si rifà a una scultura classica identificata da Hess[10] nella cosiddetta Tusnelda che fu utilizzata anche per la Madonna dei Palafrenieri.
Venendo all’aspetto formale, il Merisi conferisce a quest’opera una dimensione verticale per lui inconsueta, rafforzata dalla colonna sbrecciata che fa da fondale alla scena, mentre i contrasti luministici si intensificano e diventano sempre più accentuati. La luce ormai squarcia le tenebre per lampi improvvisi e provenienti da fonti diverse: dalla sinistra e dall’alto per la Vergine e il Bambino, dal basso e da sinistra per l’anziana pellegrina, come dei riflettori puntati per un set cinematografico, e pur tuttavia mantiene ancora quella funzione ‘plasmante’ dei corpi che perderà solo nell’ultimissimo periodo. E tutti e quattro i personaggi protagonisti del dipinto, ben diversamente da come scrivevano le fonti antiche, hanno un’aria nobile ed elegante, pur nella “finta miseria”.
Così la Madonna, lungi dall’apparire come una popolana o addirittura una prostituta, è una splendida ragazza bruna, dalle carni eburnee e da un elegante tunica di raso rosso messa ben in evidenza; Gesù Bambino, che ricompare anch’esso nelle Sette opere di Misericordia è un fanciullo, biondo e ben pasciuto, completamente diverso dai tanti putti rachitici di molte opere coeve e della stessa Madonna del Rosario; dei due pellegrini e dei loro vestiti sdruciti ad arte già abbiamo detto. In definitiva, anche in questo capolavoro Caravaggio si dimostra ben lontano da quel Courbet ante litteram che dipinge quello che vede nei bassifondi, come certa storiografia si ostina a presentarlo, e ci offre un’opera dal profondo valore simbolico e “politico”, nel senso alto del termine, con l’immagine di una Chiesa che tutti accoglie amorevolmente in quell’ottica misericordiosa che oggi sta tornando finalmente di attualità.
Infine va sottolineato che «nel contesto delle controversie con i protestanti- com’è noto- la Vergine è anche l’immagine della Chiesa che consente ai fedeli di avere accesso al Salvatore. E’ lei a presentare il Bambino ai pellegrini, e Gesù, a sua volta, li benedice con un gesto delle dita allusivo al mistero del Dio uno e trino. Questo gesto di benedizione può anche indicare la remissione dei peccati attraverso l’indulgenza plenaria accordata dalla Chiesa a coloro che osservano precise norme nella visita del santuario lauretano, norme che Ermes Cavalletti ha fatto sue nel pellegrinaggio compiuto tre mesi prima della morte».[11]
Ancor maggior scandalo aveva destato La Morte della Vergine: [fig. 2] commissionata da Laerzio Cherubini per la chiesa carmelitana di Santa Maria della Scala già nel 1601, fu in realtà dipinta solo nel 1606, anche se si ignorano i motivi che causarono questo ritardo; essa fu comunque rifiutata per le solite ragioni di “decoro” di cui parlano i biografi e successivamente acquistata nel 1607 dal duca di Mantova su suggerimento del Rubens, che di Caravaggio era un grande ammiratore. Come ben sintetizza Mia Cinotti: «Il rifiuto fu causato secondo il Mancini dall’aver ritratto nella Madonna una cortigiana da lui amata (la famosa Lena modella anche della Madonna di Loreto e della Madonna della Serpe) o “qualche meretrice sozza degli ortacci”, secondo il Baglione e il Bellori dall’aspetto indecoroso della Madonna gonfia. Secondo il Calvesi e lo Spezzaferro fu l’avvento del partito filospagnolo con Paolo V a segnare l’inizio delle sfortune del Caravaggio. Calvesi pensa che modella possa essere stata la monaca senese Caterina Vannini, una meretrice convertita molto cara a Federico Borromeo, morta nel 1606 gonfia di idropisia. Lo studioso, riallacciandosi al filone interpretativo pauperista che secondo vari critici ispira la pala, ritiene la Madonna gonfia di grazia. Altri pensano invece a un programma polemico contro la Controriforma, oppure al senso tragico della morte come morte fisica, cioè negazione del senso provvidenziale della storia e della speranza di un futuro oltre la vita. Io escludo che il Caravaggio avesse intenzioni blasfeme. Egli si attiene all’iconografia di base della “morte sonno” e ai personaggi essenziali, cui aggiunge la Maddalena, di origine iconografica trecentesca».
Nel commentare questo brano devo dire che non mi stupiscono tanto le vere e proprie dicerie delle fonti antiche, che rientrano in quel clima denigratorio e malevolo verso il nostro artista cui ormai siamo abituati, quanto le analisi moderne circa la presunta “blasfemia” o comunque l’ancor più presunto “ateismo” del Merisi che qui dipinge, al contrario, un quadro profondamente religioso e cattolico, proiettato proprio verso l’offrire un’immagine della Chiesa come Madre Misericordiosa. Assai più articolato è il discorso circa l’interpretazione di Calvesi: se infatti non mi sento di condividere, per quanto suggestiva, l’ipotesi che nella Vergine fosse stata ritratta Caterina Vannini, che nel 1606 aveva tra i cinquantaquattro e i cinquantasei anni, quindi almeno quindici se non venti in più della Madonna caravaggesca (che fra l’altro non è assolutamente un’idropica), è invece da condividere e sviluppare l’altra intuizione dello studioso circa il fatto che il gonfiore della donna raffigurata
«poteva assumere significati simbolici, come allusione alla Vergine del Parto, alla Vergine (o Chiesa) sempre incinta di Dio».
Concetto ulteriormente ribadito da Rodolfo Papa, che parlando dell’ipotesi, già da me ricordata, che il Merisi avrebbe addirittura preso a modella il cadavere di una prostituta annegata nel Tevere la definisce una “sorta di leggenda” e aggiunge:
«Sembra più verosimile considerare che Caravaggio avesse voluto in realtà dipingere una donna incinta, e il termine “gonfia”, usato dal Bellori, proprio a questo allude, secondo l’uso popolare;…[e] …Maria è dipinta con il ventre dilatato per sottolineare la maternità di colei che è sempre Madre di Dio. Del resto è stato osservato come le riflessioni teologiche sulla morte della Vergine partissero proprio dalla sua maternità».[12]
In definitiva, la persona ritratta, visto che di ritratto come credo comunque si tratta, non è assolutamente la Lena, di cui non ricorda nemmeno alla lontana le fattezze; non è neppure la Vannini; ma è semplicemente una bella donna poco più che trentenne e palesemente incinta, come anche il gonfiore delle gambe e dei piedi, conseguenza del tutto normale della gestazione, testimonia.
Solo che qui, come in tante altre sue opere, Caravaggio trasfigura il dato iniziale di partenza, lo carica di tutti quei significati simbolici prima considerati, e quindi la “gravidanza” della Madonna morta, elemento ovviamente irrealistico e che ritengo il vero motivo del rifiuto della pala da parte dei frati carmelitani, la “gravidanza”, dicevo, assume tutto un altro valore se inteso in senso traslato.
Nell’accarezzarsi amorevolmente il grembo rigonfio, altro gesto tipico delle donne incinte, la Vergine allude infatti alla nascita del Figlio che con il suo sacrificio salva l’umanità intera. Del resto già il Pontormo, nella sua meravigliosa Deposizione in Santa Felicita a Firenze, al vertice della piramide visiva del suo dipinto raffigura la Vergine giovane e palesemente gravida che, come in un sogno, immagina il futuro martirio di Gesù.[13] E Michelangelo, nella Pietà di San Pietro, scolpisce la Vergine più giovane del Cristo morto che trattiene sulle sue ginocchia e che più che una Pietà in senso stretto andrebbe anch’essa interpretata come una sorta di prefigurazione della morte del Salvatore.
Con Caravaggio, in qualche misura, il cerchio si chiude e non è più la Madonna giovane che prefigura la futura morte del Cristo ma la Madonna morente che ci ricorda la nascita del Redentore: ma è sempre al ciclo nascita-morte-rinascita, tema fondante della religione cattolica, che si sta alludendo. Anche se nel caso del dipinto del Louvre non si può parlare di morte nel senso stretto del termine, perché come è noto, secondo la dottrina sostenuta da gran parte dei teologi e che il Merisi qui riprende alla lettera, Maria non sarebbe veramente morta, ma sarebbe soltanto caduta in un sonno profondo, dopodiché sarebbe stata assunta in cielo, come il termine latino Dormitio Virginis conferma; ed infatti Caravaggio ci mostra una Vergine per nulla sofferente ma che sembra piuttosto dolcemente addormentata.
Essa, come si diceva, non è assolutamente una donna ormai anziana, come la Maria che lo stesso pittore ha raffigurato nella Deposizione vaticana, ma è ancora nel fiore degli anni e questo proprio perché altrimenti, raffigurarla incinta, sia pure simbolicamente, sarebbe stato certo controproducente. Ma soprattutto perché, non essendo toccata dal peccato, la Vergine è eternamente giovane o meglio non soggetta all’invecchiamento delle comuni mortali, come già espresso in maniera sublime da Dante “Vergine madre, figlia del tuo Figlio,/Umile ed alta più che creatura,/Termine fisso d’eterno consiglio”…[Paradiso, XXXIII, 1-3] e ribadito dallo stesso Michelangelo che in risposta alle obbiezioni circa l’età della Madonna nella Pietà vaticana avrebbe risposto
“che le persone vergini senza essere contaminate si mantengono e conservano l’aria del viso loro gran tempo, senza alcuna macchia”.[14]
La Vergine è anche, indiscutibilmente, una ‘figura’ della Chiesa: ma più esattamente di quale Chiesa? Non certo quella dello sfarzo e del lusso ostentati senza pudore, ma al contrario quella degli umili, dei bisognosi, dei pellegrini; quella vagheggiata da San Filippo Neri e dagli Oratoriani ed alla quale la stanza completamente spoglia di suppelletili allude in modo inequivocabile. Al suo interno la scena si svolge ancora secondo ritmi rallentati, con gli apostoli che mostrano un dolore contenuto e pensoso, come la Maddalena, che sembra anch’essa dormire e riprende in modo impressionante l’analoga figura del dipinto giovanile della Galleria Doria Pamphij, sia pure colto da altra angolazione, a conferma che Caravaggio, lo ripeto per l’ennesima volta, riprende a distanza di anni soggetti e /o volti fissati indelebilmente nella propria memoria. Anche i contrasti luministici, nella nostra tela, per quanto sempre più intensi, mantengono quella funzione ‘avvolgente’ che ho appena rilevato nella Madonna dei Pellegrini, con un sapiente bilanciamento cromatico che parte dall’ampio tendaggio rosso della parte superiore del dipinto, si va quasi a riflettere nella veste di Maria per poi smorzarsi nell’ocra intenso della Maddalena, conferendo a questo capolavoro un senso insieme tragico e solenne di intima religiosità la cui negazione mi pare francamente incomprensibile.
Solo di pochi mesi posteriore, anche se dipinto ormai a Napoli dopo l’improvvisa fuga da Roma in seguito all’uccisione in un duello di Ranuccio Tomassoni, sono Le sette opere di misericordia, [Fig. 3] dipinte per l’omonimo Pio Monte e ancora conservate in loco. Le sette opere di misericordia corporali, lo ricordiamo, sono: dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; dar accoglienza ai pellegrini; vestire gli ignudi; visitare gli infermi; visitare i carcerati; seppellire i morti e sono tutte riportate, sia pure in modo a volte non immediatamente percepibile, nella grande tela del Merisi. Talmente poco percepibile, aggiungerei, che ancora nel 1951 uno storico dell’arte del calibro di Bernard Berenson poteva scrivere: «Cosa dire di una composizione come le Sette Opere di Misericordia, dove ci vengono presentati i soli piedi di un cadavere portato a seppellire, una giovane isterica che offre il petto a un vecchio, alcune figure giorgionesche occupate in indecifrabili attività, e un uomo- c’è da supporre un medico-che guarda controluce il contenuto di un bicchiere»[15].
E l’anno dopo Roberto Longhi, ovviamente con ben altro spessore critico, poteva parlare di
«un quadrivio napoletano sotto il volo di angeli-lazzari che fanno la “voltarella” all’altezza dei piani, nello sgocciolio delle lenzuola lavate alla peggio e sventolanti a festone sotto la finestra»[16],
trasformando una complessa macchina scenica dai profondi significati religiosi in un “vociante squarcio di vita partenopea fotografato a un crocicchio”, e confondendo così Caravaggio con Eduardo De Filippo e il nostro dipinto per L’oro di Napoli o Natale in casa Cupiello. Per non parlare, ovviamente del Bellori che scambiava per un ubriacone il Sansone che si abbevera alla mascella d’asino “e vi è uno, che alzando il fiasco beve con la bocca aperta, lasciandovi cadere sconciamente il vino”.
Per una volta, però, Caravaggio sembra voler dare manforte ai suoi denigratori, e non parlo naturalmente del Longhi, concentrando al massimo i personaggi in uno spazio compresso e dominato per quasi la metà da un fondo scurissimo, personaggi, inoltre, i cui gesti non sono immediatamente collegabili con le opere di misericordia che dovrebbero simboleggiare. Sull’estrema destra, infatti, abbiamo una giovane che offre la propria mammella ad un vecchio che si sporge da una grata e avvicina la sua bocca al capezzolo della ragazza. E’ evidente, ma Berenson e chissà quanti altri non l’avevano capito, che si tratta della cosiddetta Carità romana, ovvero la storia esemplare di una donna, Pero, che allatta segretamente il padre, Cimone, dopo che lui è stato incarcerato e condannato a morire di fame e che poi viene graziato proprio in virtù dell’atto di pietas della figlia: in quest’unica scena, dunque, il Merisi assomma i precetti di visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati.
Subito al suo fianco ecco un uomo (in realtà un chierico regolare) illuminare la scena con una torcia ed un altro reggere per i piedi quel cadavere che tanto aveva scandalizzato Berenson e che è invece uno squarcio pittorico di straordinaria forza visiva. Più al centro, invece, un giovane riccamente vestito è colto nell’atto di tagliare in due il proprio mantello e porgerlo ad un uomo seminudo, seduto in terra e colto di schiena e dietro al quale appena si intravede un’altra figura identificabile in uno storpio. Si tratta ovviamente di San Martino che assolve alla doppia funzione di vestire gli ignudi e visitare gli infermi. E spostandoci infine sulla sinistra ecco altri tre personaggi: un pellegrino, col cappello tipico di San Giacomo, il già citato Sansone e un’ultima figura identificabile in un oste che accoglie il viandante con un gesto della mano che sta probabilmente a indicare la propria locanda e insieme completa le sette opere dando da bere a un assettato e dando accoglienza a un pellegrino.
Come sottolinea Calvesi:
«Nel quadro teologico si tratta di quelle ‘opere buone’ attraverso le quali, come Lutero non credeva, si attinge la Grazia e la Salvazione: tramite la Chiesa, simboleggiata dal gruppo sovrastante della Vergine col Bambino».[17]
Vergine e Bambino sembrano usciti di peso dalla Madonna dei Pellegrini e quasi si sostengono a due angeli abbracciati tra loro che planano dall’alto in un turbinio di ali e di drappi bianchi e neri; e uno di loro spalanca le braccia, secondo il gesto tipico della Misericordia ed è a sua volta identico all’angelo, anch’esso ‘planante’, del S. Matteo e l’angelo di San Luigi dei Francesi. E ancora Calvesi precisa:
«Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia: così aveva detto Gesù nel Discorso della Montagna. L’espressione, per eccellenza, della divina misericordia è la grazia, cui il Caravaggio allude, come sempre, attraverso la manifestazione della luce; ma anche con la scelta, così profondamente meditata, degli exempla. Accennavamo alla “grazia” che toccò al padre della fanciulla romana, come compensa della sua ‘opera di misericordia’»[18].
Naturalmente Pero [fig. 4] non è tuttavia solo un exemplum profano inserito a caso in un contesto profondamente religioso, perché essa è anche, in una qualche misura, una “figura” della Vergine, la madre caritatevole per eccellenza e più precisamente partecipe dell’iconografia della Madonna del Latte, e di quella della Madonna delle Grazie, come specifica in un suo interessantissimo saggio Costanza Caraffa,[19] che analizza il dipinto caravaggesco nel contesto della cultura artistica napoletana degli ultimi due secoli: «Nei suoi primi cento anni di vita la Madonna delle Grazie napoletana [Sancta Maria de Gratia cun Purgatorio] è caratterizzata generalmente dalla ostentata esibizione dei seni. Nel periodo post tridentino viene invece recepita l’esigenza di maggior decoro delle immagini sacre poi codificata da Federico Borromeo nel De Pictura Sacra(1624), un capitolo del quale è specificatamente dedicato alle rappresentazioni della Vergine»[20].
E ancora la studiosa sottolinea come
«Secondo la cosiddetta Bolla Sabatina, emessa da Giovanni XXII nel 1322 e ripetutamente confermata da successivi pontefici nel corso del XV e XVI secolo, la Madonna sarebbe scesa ogni sabato nel Purgatorio per liberare le anima penitenti»
e solo nel 1613 Paolo V stabilì che la discesa della Vergine nel Purgatorio non andava intesa in senso materiale bensì metaforico: la Madonna si limitava ad intercedere e l’ascesa delle anime avveniva “per manu angelorum”.
«In questa cornice possiamo ipotizzare che Caravaggio avesse preso atto della formula iconografica napoletana della Madonna delle Grazie col Purgatorio e avesse reagito all’istanza post tridentina di decorun, di cui potevano essersi fatti portavoce i committenti, scindendo la rappresentazione della Madonna col Bambino da quella della lactatio, trasposta in basso a destra nel ben evidenziato gruppo della Caritas Romana».[21]
Una conferma indiretta a questa ricostruzione possono venire da alcuni esempi lontani nel tempo e nello spazio ma che secondo me risentono, forse indirettamente, proprio di questo prototipo caravaggesco. Mi riferisco ad alcuni dipinti che ho ammirato in Perù e che fondono appunto le due immagini della Madonna del Latte e della Carità Romana.
Quello che mostro ora, in particolare, è un dipinto di Ignacio Chacón (17745-1775) nel Convento de la Merced a Cuzco [fig. 5]. Qui la Vergine, oltre ad allattare col seno destro il Divino fanciullo offre infatti l’altra mammella a San Pedro Nolasco, il fondatore dell’ordine dei Mercedari, molto diffuso in America Latina. Nato con lo scopo prevalente di liberare dalla schiavitù i cristiani catturati dai mussulmani, l’ordine ha infatti esteso la sua missione all’aiuto dei carcerati e delle loro famiglie, alla cura degli infermi e all’alloggio dei pellegrini, a mettere cioè in pratica le sette opere di misericordia.
Una possibile spia di un rapporto tra i Mercedari ed il caravaggismo può venire dalla chiesa, ora distrutta, di S. Adriano a Campo Vaccino a Roma, nel Seicento chiesa dell’ordine, dove si trovava la grande tela di Orazio Borgianni raffigurante S. Carlo Borromeo tra gli appestati e commissionata dal conte Francisco de Castro, legato tra gli altri ad ambienti borromaici milanesi.[22] Mentre che Caravaggio fosse noto in America Latina già intorno al 1602 lo conferma Marco Pupillo quando scrive di una proposta di per una commissione al Merisi di un’opera poi mai realizzata per una compagnia messicana da parte della SS. Trinità dei Pellegrini.[23] La mia superficiale conoscenza della pittura latino-americana, e in particolare di quella peruviana, mi impedisce di approfondire il problema del se, come e quando una qualche copia o riproduzione del capolavoro del Merisi sia potuto giungere in quelle terre lontane, ma mi pare indiscutibile che l’immagine della Pero caravaggesca e delle molte versioni della Madonna del Latte diffusesi in Perù nel XVIII secolo partecipino del medesimo clima spirituale e sincretistico (del resto l’affinità terminologica fra Grazia, Carità e Misericordia è un dato di fatto almeno dal XV secolo) e rimandino al concetto cattolico di misericordia, legato a sua volta al tema del mistero eucaristico.
Già nel Concilio di Trento infatti l’Eucaristia «viene interpretata come “segno dell’unita e della carità per le quali il Signore volle uniti e quasi fusi tra loro tutti i cristiani”, riprendendo i concetti espressi da san Paolo e da sant’Agostino. Il corpo consacrato di Cristo viene vissuto come “cibo di carità” allusivo per un verso all’amore di Dio dimostrato verso l’umanità e per l’altro all’amore che i cristiani devono praticare in segno di imitatio. Tale concetto, che si lega a quello della carità intesa come Amor Dei e amor proximi, secondo la definizione agostiniana è sottolineato nel Catechismo Tridentino dove l’Eucaristia viene rubricata come sacramentum inesplicabile pignus charitatis … Del resto, non va trascurato che, nel clima della Controriforma, l’accentuazione del ruolo primario svolto dalla principale virtù cristiana assume un valore non solo teorico ma anche pratico, riaffermando l’efficacia delle opere, contro la teoria luterana della salvezza attraverso la sola grazia. Probabilmente anche per questo motivo la lettura in chiave caritativa del Sacramento Eucaristico diviene un tema centrale nell’ambito della letteratura devozionale e della predicazione … Proprio in riferimento alla carità come amore, e in particolare nell’accezione dell’Amor Dei, viene spesso utilizzato, oltre al cuore, simbolo di Amore, anche il fuoco, come appare, ad esempio, nella Carità scolpita da Nicola Pisano nel Duomo di Siena, che presenta una cornucopia da cui non fuoriescono frutti, bensì delle fiamme. Tuttavia, a partire dall’età rinascimentale l’iconografia della Carità, “mater omnium virtutum”, sposa prevalentemente l’immagine della madre con i propri figli, colta, spesso, nel gesto dell’allattamento, anche se cuori, fiamme e frutti continuano ad arricchire in alcuni casi la scena»[24].
Riguardo al tema del fuoco, invece, l’uomo che regge la torcia propria accanto a Pero non può essere considerato un mero espediente luministico o una semplice figura di quinta: la fiamma che egli regge va infatti interpretata proprio in relazione all’Amor Dei e come una sorta di prolungamento dell’immagine della fanciulla caritatevole per eccellenza, quasi a costituire un unicum la cui esatta comprensione non si può avere se le due immagini vengono divise o estrapolate l’una dall’altra. Si tratta del resto, come osserva ancora la Caraffa, di un sacerdote officiante detentore della fiaccola e
«che è da intendersi quale simbolo cristologico e che allude alla infinita virtù espiativa del sacrificio di Cristo ripetuto nella messa attraverso l’eucarestia, ma sottolinea anche il ruolo di mediazione esercitato dalla Chiesa».[25]
Ancora Calvesi sottolinea poi che
«è soprattutto nella figura di Sansone che l’allusione teologica è più evidente. Rappresentare il precetto di dar da bere agli assetati con l’episodio dell’eroe biblico che beve alla mascella d’asino non è solo un dotto espediente. Intorno a questo racconto si era largamente esercitata l’esegesi allegoristica: la sete sofferta da Sansone prefigurava quella patita da Cristo sulla croce; e Sant’Agostino segnala ripetutamente Sansone come immagine preconoscitiva del Redentore».[26]
In realtà, come ha molto opportunamente osservato P. Caiazza[27], Sansone non si abbevera dalla mascella d’asino che pure regge in mano, «bensì da un grappolo d’uva nera che egli spreme con le dita e dal quale cola il liquido che lo disseta» [fig. 6]. Ma questo non esclude, anzi rafforza, l’identificazione dell’eroe biblico con il Redentore e ci riconduce ancora una volta al Mistero Eucaristico, per l’evidente allusione dell’uva spremuta con il calice di benedizione che è “comunione con il sangue di Cristo”.[28]
Concordo ancora pienamente con il Caiazza quando questi individua nei due angeli che volteggiano sopra la scena non certo “lazzari che fanno la voltarella”, ma l’angelo della luce, con le ali bianche ed un candido lenzuolo che lo accompagna, colto nell’atto di planare verso terra (quello di sinistra) e l’angelo del male, con una ciocca rossa tra i capelli, le ali scure ed un drappo nero che lo contraddistingue (quello di destra), che sembra voler spiccare il volo ma in realtà tenta di impedire all’angelo del bene di compiere la sua missione di misericordia. Viene così evidenziata, secondo lo studioso, l’eterna «lotta tra un angelo buono ed un angelo cattivo, costantemente presente nella fragilità della vita umana: la battaglia-ché di questo si tratta- tra il Bene ed il Male, che marca l’intera vita umana, si trasferisce e si realizza dunque anche nelle sette opere di misericordia, tra l’angelo della luce (o del Bene) che vuole istillare nell’uomo la fede che genera misericordia, e l’angelo delle tenebre (o del male) che –per invidia- vuole impedire che germogli di bene possano nascere nel cuore degli uomini».[29]
Ma lo studioso non si accorge della cosa più importante, e cioè del gesto esplicito che compie la Madonna, che non si rivolge genericamente alla scena sottostante, ma indica inequivocabilmente con l’indice ed il pollice (colti nella medesima postura di quelli del san Matteo nella Vocazione di san Luigi dei Francesi) l’angelo del Bene e compiendo così una scelta definitiva e senza compromessi [fig.7]: è proprio attraverso le opere di misericordia che l’umanità peccatrice potrà salvarsi. Dunque offrendo, proprio all’opposto di quello che pensa il Caiazza al termine del suo ragionamento, una indicazione precisa in favore della teoria cattolica della salvezza attraverso le opere rispetto a quella luterana della salvezza attraverso la sola fede.
Del resto la Vergine non è affatto[30] «una madre che regge tra le braccia, con l’infinito amore materno, un bambino probabilmente ammalato» alludendo dunque alla quinta opera di misericordia, quella di “visitare gli infermi”, perché Gesù non è affatto malato e in ogni caso la Madonna non lo sta certo visitando. Ma il gruppo, come ho già rilevato, è preso di peso dalla Madonna dei Pellegrini e la Vergine ha le famose sembianze della “Lena donna del Caravaggio”, dunque la meno adatta ad alludere, in qualsiasi misura, a singole opere misericordiose. E non credo che il pittore in questo caso lo abbia fatto (come in altre occasioni) con un intento volutamente provocatorio ma semplicemente perché non avendo al momento dei modelli a disposizione ha preferito citare a memoria, come spesso fa, delle immagini ancora ben vive nella sua mente. La Vergine comunque, come da noi ampiamente sottolineato, partecipa delle iconografie della Madonna delle Grazie, di quella del Latte e di quella della Misericordia riunendole insieme in una immagine di inaudita potenza e di sconvolgente carica rivoluzionaria.
Alla luce di queste considerazioni cade anche l’assunto finale del Caiazza, che pur citando giustamente San Paolo e Sant’Agostino, vede in questo capolavoro un’esplicita adesione del Merisi alle teorie luterane perché «nel pensiero cattolico l’opera buona è “ontologicamente” buona in sé, e che la differenza che caratterizza il comportamento del fedele consiste solo nel farla o non farla. Viceversa nel pensiero protestante, l’opera di misericordia non è buona in sé, bensì è “buona” o “falsamente buona” se è una conseguenza della fede in Dio, ovvero se è sentita (o fatta avvertire) come un dovere realizzato per acquistare “mercede” dinnanzi alla giustizia di Dio: Lutero nel suo Sermone sulle opere buone del 1520, ad esempio, non sostiene affatto (come erroneamente si scrive) che le opere buone non servano: sostiene bensì che, se esse non discendono dalla fede, sono prive di valore perché sono frutto dell’ipocrisia, dell’ambizione, dell’ignoranza».
Ma è proprio questo paradosso luterano, che vi possano cioè essere delle “opere buone” che in realtà si rivelano cattive, che Caravaggio (e i suoi committenti) respinge in maniera assoluta. Le Opere di Misericordia sono certamente buone in sé e la differenza consiste proprio nel farle o nel non farle. Tuttavia esse da sole non sono sufficienti per raggiungere una volta per tutte la “grazia”, perché questa è strettamente collegata, innanzi tutto, con il libero arbitrio e cioè con la scelta tra il bene ed il male, ma va poi costantemente supportata attraverso le opere, appunto, perché anche il più puro degli uomini può sempre cadere in tentazione e cedere al peccato (come la sterminata serie di pitture con il Demonio tentatore conferma), mentre anche il più incallito dei peccatori, se il suo pentimento è sincero e il suo cambiamento reale e confermato attraverso le opere, appunto, può redimersi.[31]
Per corroborare questo mio ragionamento devo rivolgermi ancora una volta al già citato libro di Marco Bussagli su I denti di Michelangelo,[32] e in particolare sul paragrafo dedicato alla Creazione del Sole e della Luna nella Volta della Cappella Sistina, dove pure compaiono gli angeli della luce, che simboleggiano il Bene e quelli delle tenebre, che rappresentano il Male, sulla scorta del pensiero di Sant’Agostino:
«La separazione tra la santa società degli angeli che la luce della verità fa rifulgere in modo intellegibile, e le tenebre ad essa contrarie, cioè le menti più orribili degli angeli cattivi estranei alla luce della giustizia, poté operarla Colui al quale non poté essere nascosto o incerto il male futuro alla volontà della volontà, e non della naturac».[33]
Dunque non è assolutamente vero, come sostiene Caiazza, che Caravaggio ha voluto rappresentare sullo stesso piano (attraverso i due angeli) i due principi i del Bene e del Male che possono presiedere entrambi alle opere “buone”, che sarebbe poi una colossale contraddizione in termini ma, attraverso il gesto esplicito della Vergine, ha indicato nell’angelo del Bene, colui che, resistendo ai tentativi di trattenerlo dell’angelo delle Tenebre si appresta a contemplare e in qualche modo “approvare”, anzi addirittura a promuovere, le sottostanti Opere di Misericordia.
Certo un’opera dottrinariamente così complessa non poteva che essere concepita in pieno concerto con il committente, il Pio Monte della Misericordia, che comprendeva tra l’altro personalità del calibro dei Carafa, dei Carafa-Colonna e degli Aragona. E la Congregazione si dimostrò in ogni caso, nell’approvare una tela così moderna e avanti nel tempo, più tollerante e ‘progressista’ di tanta storiografia artistica non solo del Seicento, ma addirittura del secolo scorso, come l’esempio del Berenson conferma. Anzi ritengo che questo possa considerarsi, senza esagerazione alcuna, uno dei dipinti più innovativi di tutta la storia dell’arte occidentale.
Qui Sansone, Pero, Cimone, San Giacomo, San Martino sono raffigurati uno accanto all’altro e per di più in abiti dell’epoca. Ma non siamo in presenza, come ho già rilevato altrove, di una negazione della storia, piuttosto di una sua ‘presentificazione’: e cioè i dotti exempla non sono astruse citazioni di testi antichi ma diventano vive e palpitanti scene di vita vissuta, starei per dire hic et nunc, qui ed ora, dove passato e presente convivono con straordinaria forza espressiva.
Questo dipinto per il Pio Monte segna anche un ulteriore passo verso quello che potremmo definire l’inizio della fine. Dopo il fatale duello del maggio del 1606, infatti, avremo la conseguente fuga da Roma e l’errare senza pace da Napoli a Malta alla Sicilia e poi ancora a Napoli fino ad Orbetello, sempre nella speranza di ottenere dal pontefice quella “grazia” che appunto lo raggiungerà solo al termine della sua tormentata esistenza. Un crescendo inarrestabile che si rifletterà anche nella sua pittura, sempre più concitata e drammatica e che noi non possiamo seguire nei suoi risvolti estremi ma di cui il David e Golia della Borghese, da cui siamo partiti, rappresenta una sorta di sublime testamento spirituale in punto di morte [fig. 8]. Ed a Caravaggio, in conclusione, potrebbe adattarsi alla perfezione quanto pronunciato da Arnold Shönberg in commemorazione di Gustav Malher:
«A lui fu concesso di rivelarci quanto ci ha detto, e solo quello, del nostro futuro; quando volle dirci di più fu portato via, poiché non deve esserci pace e silenzio, ma lotta e frastuono».
Sergio ROSSI Roma 6 giugno 2021
[1] Baglione, cit. a nota 18
[2] cfr. Zuccari, Caravaggio, cit., p. 278.
[3] Si veda per tutti R. Bassani-F. Bellini, Caravaggio assassino, Roma 1994.
[4] Macioce, cit. p.175; e Tribunale Criminale del Governatore, relazione dei Birri, Reg. 103, C. 25V.
[5] Macioce, cit, p. 185 e Tribunale Criminale del Governatore, Visite dei Notai, Reg. 39, CC 54r-55r.
[6] Ibidem, p. 189-190 e Tribunale Criminale del Governatore, Miscellanea Artisti, Busta 2, Fasc. 92. Sulla Roma frequentata da Caravaggio si veda poi il bel saggio di Alessandra Rodolfo Là c’è anche un Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose meravigliose, in Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose meravigliose, a cura della stessa studiosa, Musei Vaticani, pp. 13-72.
[7] Zuccari, cit., p. 187 e sgg.
[8] Ibidem, p.191.
[9] Di recente, R. Papa, Caravaggio. L’arte…, cit. p. 130, ha avanzato l’ipotesi che essa possa essere la madre del Cavalletti, probabilmente morta in precedenza.
[10] J. Hess, Modelli e modelle del Caravaggio, “Commentari”, 4, 1954, pp. 271-289.
[11] Zuccari, cit. pp.193-194.
[12] R. Papa, Caravaggio, lo stupore,cit. pp. 192-194.
[13] S. Rossi, Jacopo Pontormo e il suo doppio, in Los mundos del arte: Estudios en homenaje a Joan Sureda, Acaf-Art, Barcelona 2019, pp. 111-128.
[14] M. Bussagli, I denti, cit. pp. 36 e 153.
[15]Del Caravaggio, delle sue incongruenze e della sua fama, Firenze, pp.37-38.
[16] R. Longhi, Caravaggio, riedizione Roma 2006, p. 66.
[17] Calvesi, cit., p. 356.
[18] Ibidem, p. 359.
[19] C. Caraffa, “Ex Purgatorij poenis ad aeternam salutem per Dei Misericordiam”. Le Sette Opere di Misericordia di Caravaggio riconsiderate nel contesto napoletano, in Caravaggio e il suo ambiente. Ricerche e interpretazioni, Milano 2007, pp.119-132.
[20] Ibidem, p.123.
[21] Ibidem, pp.123-125.
[22] Si veda M. Gallo in Scienza e miracoli nell’arte del ‘600. Alle origini della medicina moderna, a cura di S. Rossi, Milano 1998, pp. 336-339
[23] M. Pupillo, cit. p. 81.
[24] D. Frascarelli, Admirabiles, cit. pp. 140-143.
[25] Caraffa, cit., p. 128.
[26] Calvesi, cit. p.359.
[27] Un cristiano “ecumenico”? Caravaggio e le sette opere di misericordia, in Caravaggio alla fine del Rinascimento, a cura di C. Strinati, Roma 2017, p. 72.
[28] D. Frascarelli, cit., p. 140.
[29] Caiazza, cit., pp. 77-81.
[30] Ibidem p. 76.
[31] Si veda al proposito M. Bussagli, I denti, cit. a nota 9, p.85. E sul cattolicesimo del Merisi quanto osserva A. Lonardo, Caravaggio un pittore controriformista?, in Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma…, cit., p. 76. «Non solo Caravaggio, pur non essendo uno stinco di santo, è certamente cattolico e si sente di appartenere alla Roma del suo tempo, ma è anche la Roma del suo Seicento che lo sente come uno dei suoi, lo ama e lo cerca, permettendogli di esprimersi con estrema libertà».
[32] Ibidem, pp. 86-89.
[33] Agostino, De Civitate Dei, XV, 19.