di Giulio de MARTINO
De Pisis tra scrittura e pittura. Un saggio di Miriam Carcione
Luigi Filippo Tibertelli, nato a Ferrara l’11 maggio 1896 e morto a Milano il 2 aprile 1956, noto al maggior pubblico come Filippo de Pisis, è figura davvero suggestiva della cultura e dell’arte italiana nella prima metà del ‘900. Ogni studio dedicato alla sua esistenza e alla sua attività artistica è quindi benemerito poiché contribuisce a dare nuova vita e attualità alla vicenda culturale e artistica del nostro Novecento al di fuori delle schematizzazioni – e dei luoghi comuni – in cui l’hanno costretta l’accademia e la scuola, l’ideologia e la cultura di massa[1].
Frutto nefasto degli schematismi sociologici è stata la paradossale divisione del ‘900 italiano in un prima e un dopo la «cesura» posta dalla seconda Guerra mondiale e dalla trasformazione dell’ordinamento costituzionale da monarchia a repubblica. Tale schematizzazione – imposta dall’ideologia politica e certamente valida nell’ambito istituzionale – corre il rischio di rendere incomprensibili, sul piano della cultura e dell’arte, sia il prima che il dopo della guerra poiché scava un fossato invalicabile fra l’epoca delle avanguardie storiche e quella delle neo-avanguardie, fra l’epoca del «ritorno all’ordine» e quella della «post-modernità».
Chiariamo. Cambiamenti, svolte, rivoluzioni nella società e nella tecnologia, ve ne sono stati, e più di uno. Come pure vi sono state trasformazioni nei linguaggi delle arti e nelle forme del «gusto» e quindi mutamenti nelle modalità della comunicazione e nella fruizione da parte del pubblico. Ma un filo rosso, una trama profonda, ha percorso l’intero secolo. Ci riferiamo a una storia dell’arte vista come «storia dell’artista», fenomenologia della prospettiva creativa. L’arte e la cultura sono state la grande risorsa della società civile, le forme della sua libertà e dei suoi adattamenti durante un «secolo di estremi», come ha scritto E. J. Hobsbawm. Alcuni gruppi e movimenti artistici hanno cercato di sfidare il potere o di cavalcare qualche ideologia, ma l’appiattire la storia dell’arte, della letteratura, della musica sulla storia delle istituzioni metterebbe in ombra l’inquietudine della ricerca e gli itinerari della creazione e della produzione artistica. Rivedendo e studiando de Pisis si può disoccultare il magma di cui si sostanzia il mondo degli artisti: soggettività indipendenti, che hanno evitato come la peste sia il conformismo delle masse che l’agone delle ideologie per seguire la propria strategia del senso e attuare una originale riappropriazione della cultura[2].
Fig. 3 Il manifesto della mostra Filippo de Pisis, al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps, dal 17.06 al 20.09.2020.
Molto interessante, nell’accurato studio di Miriam Carcione, è la ricostruzione dettagliata della giovinezza e dei primi passi nel mondo dell’arte di Filippo de Pisis. Fuso con la sovrabbondante curiosità giovanile, con l’ingenuo enciclopedismo adolescenziale, c’è il suo sforzo, il suo anelito di conquistare una postura da artista.
Come molti giovani, che praticano – per talento o curiosità, per instabilità o sentimento – i linguaggi della poesia, dell’arte, della musica, anche Filippo de Pisis trovò nell’erudizione e poi nelle arti visive una modalità personale di «essere nel mondo». Se nei diari e nei primi testi si nota la sua abilità nel passare dalla scrittura al disegno, nel suo vivere intenso vediamo che ebbe come modello quel «giovane favoloso» che fu Giacomo Leopardi: anche lui, come de Pisis, erudito aristocratico e «bizzarro»[3].
De Pisis rimase fedele alle scoperte giovanili: ne trasse la sua scommessa artistica e esistenziale. Ma le vie dell’arte sono tante quante le Muse. Occorreva scegliere. De Pisis privilegiò due discipline: la letteratura e la pittura. Le tenne però intrecciate: il testo poetico, teatrale, letterario fu per lui analogo all’immagine disegnata o al concetto dipinto. La mano che scrive e la mano che dipinge obbedivano al medesimo slancio estetico. In questo de Pisis seguì una tradizione dell’arte. Molti artisti – in ogni epoca – hanno utilizzato più di un atelier e più di una «scrivania», molti hanno sperimentato più linguaggi e mezzi differenti. Ciò avvenne di nuovo nel Novecento, quando l’arte si unì sempre alla riflessione filosofica.
Fig. 5 Filippo de Pisis, Natura morta con martin pescatore, 1925
Illuminanti e profetici furono gli incontri di de Pisis a Ferrara – la «città pentagona» – e sono stati puntualmente indagati e documentati dalla Carcione. I rapporti con Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Ardengo Soffici non furono né lineari, né bilanciati e reciproci. Soltanto una storiografia anodina delle paternità e delle discendenze potrebbe tacere dei dissidi e dei contrasti, anche aspri e umorali, che scoppiano fra gli artisti. Sarebbe una agiografia dell’arte quella che eliminasse l’elemento umano, psicologico e competitivo dal suo sviluppo. Nonostante questo, le affinità, le predilezioni, i reciproci influssi – pure unilaterali – sono stati fecondi e determinanti[4].
Fig. 6 Filippo de Pisis, I pesci sacri, 1925.
De Pisis lesse “La Voce” e “Lacerba”. L’esperienza della crisi del decadentismo e il fascino dell’avanguardia lo spronarono. La sua letteratura e la sua pittura nacquero sotto l’influsso della Metafisica di De Chirico e di Savinio e furono animate dalle suggestioni del Futurismo di Balla, Soffici e Prampolini. De Pisis fu l’esploratore del territorio di confine fra i due movimenti. Anche il Dadaismo, nella persona di Tristan Tzara, fu suo interlocutore in un rapporto incompiuto e solo potenziale. Ma de Pisis, più che ricercare l’adesione a questo o a quel movimento, volle essere lui stesso portatore di quello «spirito dell’avanguardia» che attraversò molti linguaggi artistici nei primi decenni del ‘900.
Era l’arte che si poneva in una posizione di dissociazione, di provocazione, di dissidenza rispetto ad una sensibilità massificata e conformistica di tipo ottocentesco: classicista o romantica che fosse[5].
A Roma, il 5 giugno 1918, fu pubblicato il primo numero della rivista di Mario Broglio, “Valori Plastici”, con un articolo di de Pisis. Ancora a Roma, nel marzo del 1920, la Casa d’Arte Bragaglia organizzò la sua prima mostra di disegni e acquarelli.
Decisivo fu, per de Pisis, intrecciare scambi epistolari con editori e riviste, ma ancor più importante fu lasciare il «natìo borgo selvaggio» e, soprattutto – oltre Roma – raggiungere le grandi capitali europee: Parigi e Londra, che consentivano all’arte di liberarsi delle pastoie nazionaliste e dei condizionamenti localistici. Anche se Ferrara rimase sempre, per lui, culla di miti ruvidi e arcaici.
Un autore polimorfo come Guillaume Apollinaire (1880-1918), durante i cupi anni della guerra, gli indicò la via dell’interdisciplinarità, ma anche la giusta posizione di vicinanza/distanza dai diversi e numerosi gruppi d’avanguardia: «avanguardia e restaurazione sono dunque due facce di un medesimo movimento che tende ad oltrepassare la morte dell’arte»[6].
Durante il soggiorno a Roma (1920-1924) de Pisis si considerò più poeta che pittore. Ed è utilissimo il lavoro della Carcione per porre in evidenza la continuità del suo lavoro di scrittura (teatro, poesie, saggi, articoli, racconti) anche quando fu la pittura a dargli – dopo i primi insuccessi – la notorietà e positivi riscontri economici.
Preziose sono le pagine in cui la Carcione mostra come le dottrine di Friedrich Nietzsche siano state il punto di avvio dello «spirito dell’avanguardia». Documenta anche come lo stesso de Pisis si fosse impadronito della problematica paradossale del «Wille zur Macht», dell’«Ewige Wiederkunft des Gleichen» e dell’Ubermensch», interpretandola nella modalità corretta di una «nuova estetica» – una estetica «metafisica» – senza alcuna contaminazione con la successiva distorsione politicista e nazifascista del pensiero di Nietzsche[7].
Il libro della Carcione riattraversa tutto ciò che de Pisis diede, in vita, alle stampe con cura filologica. La trama concettuale è chiara e illuminante: «[Ferrara fu] spesso matrigna, ostile e implacabile verso questo figlio sbagliato, questo figlio omosessuale en travestì, troppo estroso, troppo lirico, questo figlio esuberante e ambizioso, debole e nevrotico; tra le tante pagine di un grafomane inquieto, tra le tante tele di uno scrittore deluso si consuma il dolore di un dissidio, sullo sfondo di questo carcere-città “che io odio e teneramente pur amo”»[8].
Giulio de MARTINO Roma 11 luglio 2021
NOTE