di Nica FIORI
Secondo la tradizione fu Numa Pompilio, il secondo re di Roma, a fondare il santuario di Vesta e a istituire il collegio sacerdotale delle vergini Vestali, che avevano il compito di custodire il fuoco sacro della città.
Il culto verso la dea del focolare, corrispondente alla greca Estia, era già presente nel Lazio e lo stesso sacerdozio femminile è un’evoluzione di un più antico collegio sabino, come sabino del resto era Numa.
Dopo la scomparsa di Romolo, assunto in cielo e poi divinizzato, Numa decise di trasportare il focolare sacro dalla capanna regale, che era in cima al Palatino, alla base del colle, là dove ancora adesso si trovano i resti del Tempio di Vesta, la Casa delle Vestali e la cosiddetta Regia, al cui interno avevano luogo i culti più strettamente connessi con la persona del re e che divenne poi la sede del pontefice massimo. Si tratta indubbiamente di un’area, all’interno del Foro Romano, che può essere identificata come il centro religioso e di potere della Roma arcaica e repubblicana. Quello che vediamo oggi, però, è un complesso di età imperiale che ha sommerso una realtà ben più antica e con un diverso orientamento. Immutata, comunque, appare la forma circolare del tempio (Aedes rotunda), che doveva riprendere quella della capanna del re e in senso più ampio quella della terra, al cui centro si riteneva che ci fosse un fuoco perenne.
Dopo il restauro del Tempio di Vesta, anche gli ambienti dell’adiacente Casa delle Vestali (Atrium Vestae) tornano a rivivere, grazie a un lungo percorso di recupero conservativo e di studio, in un nuovo itinerario espositivo inaugurato il 5 luglio 2021, alla presenza del Direttore Generale Musei Massimo Osanna, e animato dalla suggestiva performance “Danse sacrée et danse profane“, eseguita da sei ballerine vestite di bianco.
La Direttrice del Parco Archeologico del Colosseo Alfonsina Russo, presentando i lavori effettuati, ha dichiarato:
“Si tratta del primo passo di un complesso programma di ricerca e di restauro che, oltre all’apertura al pubblico dell’intera Casa delle Vestali, prevede di ampliare l’offerta culturale con nuovi percorsi e spazi informativi diffusi in tutta l’area del Parco archeologico del Colosseo, per coinvolgere il pubblico in una visita sempre più consapevole alla riscoperta di monumenti straordinari, patrimonio dell’Umanità, inseriti in un contesto naturale di rara suggestione”.
L’edificio dove risiedevano le Vestali venne realizzato in opera laterizia all’epoca di Nerone, dopo l’incendio del 64 d.C., quindi nuovamente ricostruito sotto Traiano e restaurato da Settimio Severo. Rimase in funzione fino al 391, quando Teodosio abolì i culti pagani. È venuto alla luce nel corso degli scavi eseguiti negli anni 1882-1884 da Rodolfo Lanciani, in seguito alla rimozione del grande muro di recinzione degli Orti Farnesiani e degli strati di interro, caratterizzati da uno spessore anche di venti metri rispetto al piano di calpestio antico.
Quando entriamo nel cortile centrale (peristilio) ci rendiamo conto che l’Atrium Vestae è uno dei complessi architettonici più affascinanti del Foro Romano, sia per le numerose statue marmoree (attualmente copie) delle padrone di casa, o meglio delle Vestali massime che avevano la responsabilità del collegio sacerdotale, sia per la presenza di basse vasche circondate da arbusti di rose, che trasmettono un’atmosfera romantica all’insieme.
Una novità è data dalla sistemazione nelle stesse vasche di ninfee e fiori di loto, quei fiori simbolici presenti in alcuni miti antichi: in Egitto erano sacri a Ra, dio del sole, in quanto si aprono al mattino in direzione est e si chiudono al tramonto, mentre nella tradizione induista un loto sulla superficie delle acque si apre per dare alla luce il creatore demiurgo, Brahma.
Il loto è anche un simbolo di castità e le Vestali appendevano a un albero di loto i loro capelli (arbor capillata), quando venivano tagliati nei riti di iniziazione, come ha ricordato Alfonsina Russo.
Dal peristilio parte un nuovo percorso di visita che comprende il settore sud-orientale dell’edificio, che era da tempo chiuso al pubblico (l’intervento di recupero conservativo è durato dal 2013 al 2020). Quelli che erano ambienti residenziali delle sacerdotesse sono diventati spazi di un “museo diffuso”, con la ricontestualizzazione di alcune pregevoli sculture e altri materiali lapidei rinvenuti nell’area nel corso degli scavi ottocenteschi e sistemati inizialmente nell’Antiquarium forense e nei magazzini.
Nel primo ambiente espositivo troviamo la statua di una Vestale (marmo, II secolo d.C., rielaborazione di modelli greci del IV secolo a.C.) e accanto quella cosiddetta di Numa Pompilio, ma più probabilmente di Vettio Agorio Pretestato (320 ca. – 384), uno degli esponenti dell’ultimo paganesimo romano (marmo, II secolo d.C. con testa rilavorata del IV secolo d.C.).
Vi sono anche delle dediche votive e cinque teste marmoree femminili, tra cui una di Giulia Domna, la moglie di Settimio Severo che restaurò l’Atrium Vestae dopo l’incendio avvenuto nel 191 sotto Commodo, e una di Artemide-Diana con crescente lunare (II secolo d.C., rielaborazione di modelli prassitelici del IV a.C.).
Le altre sono teste ritratto di Vestali che mostrano una particolare acconciatura divisa in trecce disposte a corona (i seni crines intrecciati in una fascia detta infula), che richiamava quella delle spose novelle al momento del matrimonio. Poiché il sacerdozio prevedeva il taglio dei capelli, la Vestale esibiva probabilmente una imitazione delle trecce, fatta con un cordone di lana, e indossava al di sopra un velo (suffibulum). L’abito, interamente bianco, era costituito da una tunica cinta da un cingulum sotto il seno, da una sopravveste (stola) e da un mantello (palla).
Le sacerdotesse di Vesta erano sei (inizialmente quattro) ed erano scelte nelle famiglie più importanti tra i sei e i dieci anni di età: esse dovevano mantenersi vergini per tutto il periodo del loro incarico, che era di trent’anni (i primi dieci erano di apprendistato, nei secondi dieci dovevano compiere i riti previsti e negli ultimi dieci dovevano trasmettere la disciplina alla altre). La loro verginità, secondo Ovidio, era dovuta al fatto che Vesta era una dea vergine e quindi pretendeva di essere servita da mani caste (Fasti, VI, 289-290). La funzione giornaliera delle Vestali era il mantenimento del fuoco sacro e la cura dell’acqua di fonte. Esse dovevano inoltre custodire alcuni oggetti, tra cui probabilmente il “Palladio”, il simulacro di Atena che Enea avrebbe portato sul lido laziale da Troia. Spettava pure alle Vestali confezionare la mola salsa, la focaccia sacra a base di farro e sale, che veniva offerta alla divinità in occasione delle principali festività e distribuita in piccoli pezzi ai credenti o utilizzata per cospargere gli animali destinati al sacrificio, da cui il verbo “immolare”.
I privilegi di cui godevano le sacerdotesse superavano di molto le prerogative delle matrone romane: una Vestale poteva testimoniare senza prestare il giuramento di rito, veniva sepolta all’interno del pomerio, attraversava la città in cocchio per recarsi alle cerimonie sacre, le era riservato un posto d’onore negli spettacoli teatrali o sportivi, e infine nel caso si imbattesse in un condannato a morte, aveva la facoltà di graziarlo.
Se una Vestale commetteva colpe di scarso rilievo, veniva punita dal pontefice massimo; se la trasgressione riguardava la violazione del voto di castità, veniva sepolta viva (nel cosiddetto “Campo scellerato”, sul Quirinale), come già era avvenuto ad Alba Longa nel mitico caso di Rea Silvia, madre di Romolo e Remo. Lo storico Dionigi d’Alicarnasso ricorda alcuni episodi relativi a Vestali accusate ingiustamente, che, appellandosi alla dea, dimostrarono la loro purezza, come nel caso di Tuccia. Questa Vestale
“con il consenso dei pontefici si diresse verso il Tevere, accompagnata da tutta la folla di cittadini. Quando fu vicino al fiume, si sottopose a un’impresa impossibile, che è rimasta nei proverbi: attinse acqua dal fiume con uno staccio e, avendola portata fino al foro, la versò ai piedi dei pontefici. Dopo di ciò, si dice che il suo accusatore non fu mai più ritrovato, né vivo né morto, sebbene fossero state fatte numerose ricerche” (Le Antichità Romane, II, LXIX, 2).
Grazie a questa leggendaria ordalia, Tuccia divenne il simbolo della Pudicizia in rappresentazioni artistiche e in opere letterarie, come per esempio nei Trionfi di Petrarca:
“Fra l’altre la vestal vergine pia / che baldanzosamente corse al Tibro, / e per purgarsi d’ogni fama ria / portò del fiume al tempio acqua col cribro” (Pudic., 148-151).
Tra gli ambienti espositivi oggetto del recente restauro, suscita grande curiosità la stanza con alcuni elementi pertinenti a più di una macina a clessidra, realizzati in pietra lavica e sistemati nell’Ottocento per dare l’idea di un pistrinum, ovvero un mulino, basandosi sulla credenza che le sacerdotesse di Vesta confezionassero la mola salsa macinando personalmente il farro. Un ulteriore ambiente (forse in origine un triclinio, trasformato in un locale di servizio nel IV secolo) è stato utilizzato per esporre dei capitelli corinzi con modanatura di tipo ionico del I secolo d.C.
Nica FIORI Roma 11 luglio 2021