di Francesca SARACENO
“Se Michelagnolo Amerigi non fusse morto sì presto, haveria fatto gran profitto nell’arte per la buona maniera che presa havea nel colorire del naturale, benché egli nel rappresentar le cose non avesse molto giudicio di scegliere il buono e lasciare il cattivo. Nondimeno acquistò gran credito, e più si pagano le sue tele che l’altrui historie, tanto importa l’aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con le orecchie. E nell’Accademia il suo ritratto è posto.”
Parole e “musica” di Giovanni Baglione.
La “musica” è sempre quella: invidia e disappunto. E da questa “musica” si sono tramandate per secoli e sono arrivate fino a noi, “travisate e scorrette”, una serie di interpretazioni delle vicende del Caravaggio che hanno contribuito non poco ad alimentare quell’idea di trasgressione e intemperanza che tanto piace al nostro tempo e che avrebbe provocato, secondo alcuni, perfino il rifiuto di alcune sue opere. D’altra parte è innegabile come, a fronte dell’evidente livore del Baglione nei confronti del più “fortunato” collega, sia chiara la sua ammirazione e il riconoscimento del suo talento di pittore, quando dice che “haveria fatto gran profitto nell’arte per la buona maniera che presa havea nel colorire del naturale”. Salvo poi sottolineare che egli non avesse “molto giudicio di scegliere il buono e lasciare il cattivo”.
Ma “frecciatine” come questa, disseminate ovunque nella sua biografia del Caravaggio, non avrebbero dovuto fuorviare noi posteri da una lettura imparziale e obbiettiva delle informazioni che lo stesso Baglione fornisce. Tenendo conto che egli invidiava il Merisi perché costituiva per lui un concorrente impossibile da battere (“e più si pagano le sue tele che l’altrui historie”…) ma in realtà da professionista della pittura sapeva riconoscere un talento quando lo vedeva, andrebbero riconsiderate certe sue asserzioni senza il filtro “partigiano” della nostra ammirazione per il genio lombardo e soprattutto senza voler vedere per forza, nelle sue vicende artistiche e personali, uno scontro aperto con il suo ambiente e con la mentalità del suo tempo.
Mi riferisco nello specifico a quei “rumori” e “schiamazzi” di cui il buon Baglione ci informa e che la letteratura mediatica più recente ha proposto con un’accezione sempre negativa. Ovvero intendendo come “scandalizzate” e indignate le reazioni del pubblico ad alcune sue opere. In molti, pur essendo a conoscenza di studi specifici sull’argomento tendenti a leggere quelle espressioni in maniera più corretta, sono caduti nella trappola di utilizzarle assecondandone l’interpretazione ostile che la nostra epoca, avvezza alla critica facile, orizzontale e “sciorinata”, più facilmente vi riconosce. Ma nel caso specifico del Caravaggio e del suo tempo in generale, il significato delle parole “rumore” e “schiamazzo” era invece indicativo di un moto di meraviglia e di diffusa ammirazione, popolare e non solo, tal che di un evento o di un personaggio se ne parlasse in ogni dove e in maniera assolutamente entusiastica. Così fu per Caravaggio fin dalla sua prima uscita pubblica.
Scrive Baglione, in riferimento alla presentazione dei laterali Contarelli, e in particolare alla “Vocazione”…
“Pur venendovi a vederla Federico Zucchero, mentre io era presente, disse: che rumore è questo? E guardando il tutto diligentemente, soggiunse: io non ci vedo altro, che il pensiero di Giorgione nella tavola del Santo, quando Cristo il chiamò all’Apostolato; e sogghignando, e meravigliandosi di tanto rumore, voltò le spalle, e andossene con Dio.”
Considerando l’avversione dello Zuccari, principe dell’Accademia di San Luca e strenuo conservatore classicista, verso il nuovo stile introdotto dal Caravaggio, quel suo interrogativo sul “rumore” suscitato dalla “Vocazione di San Matteo” va interpretato come un senso di altezzoso fastidio nei confronti del pubblico che aveva visto l’opera e ne cantava le lodi in ogni dove. Questo era il senso del “rumore” che egli tentò sdegnosamente di smorzare col suo giudizio lapidario. La parola “rumore” avversata dallo Zuccari come un volgare cicaleggio di popolo, dunque, rivelava non la disapprovazione ma l’alto gradimento suscitato dalla “Vocazione” e va letta quindi in senso del tutto positivo nei confronti del Caravaggio. Invece spesso e volentieri la si è interpretata come una manifestazione di biasimo per un’opera considerata troppo eterodossa.
Sempre Baglione, parlando del presunto rifiuto della prima versione del “San Matteo e l’angelo”, racconta che…
“Per il Marchese Vincenzo Giustiniani fece un Cupido a sedere dal naturale ritratto, ben colorito sì, che egli dell’opere del Caravaggio fuor de’ termini invaghissi; ed il quadro d’un certo S. Matteo, che prima avea fatto per quell’altare di S. Luigi, e non era a veruno piaciuto, egli per esser’opera di Michelangelo, se ’l prese; e in questa opinione entrò il Marchese per li gran schiamazzi, che del Caravaggio, da per tutto, faceva Prosperino delle Grottesche” turcimanno di Michelagnolo.”
Al di là della poca considerazione che il buon Giovanni manifesta nei confronti delle capacità del marchese Giustiniani di riconoscere un’opera di valore dal momento che, a suo dire, aveva comperato quel san Matteo che “non era a veruno piaciuto”, “solo” perché eseguito dal pittore più “sponsorizzato” del momento, anche in questo caso c’è da rilevare che lo sciabordio verbale di Prosperino è da leggersi in maniera del tutto positiva. Va evidenziato, inoltre, che Baglione ci rimanda l’immagine di un Giustiniani letteralmente “ubriacato” dagli “schiamazzi” che del Caravaggio andava facendo il suo “turcimanno”. Laddove il termine “schiamazzi”, lungi dall’intendersi con una connotazione malevola, va tradotto invece con “elogi spropositati” e continuati da parte dell’ottimo “manager”; il quale peraltro aveva anche le sue buone ragioni per dir bene delle opere dell’amico Caravaggio; infatti le copie dei suoi dipinti si vendevano come l’acqua e ci si guadagnava più che bene.
Gli schiamazzi di Prosperino che, secondo Baglione, avevano fatto sì che il marchese Giustiniani delle opere di Michele “fuor de’ termini invaghissi”, erano gli stessi che, sempre secondo l’invidioso Giovanni, fecero “cadere al romore anche Ciriaco Matthei” il quale gli commissionò diversi quadri e per questo egli dice, Caravaggio“intaccò quel Signore di molte centinaia di scudi”.
Ma gli “schiamazzi” riferiti dal Baglione più equivocati, sono quelli riferiti ad alcune opere tra le più famose, anche perché strettamente legate a vicende professionali e personali del Caravaggio. Una, come abbiamo visto fu la tela del primo “San Matteo e l’angelo”; un’altra è certamente la “Madonna dei pellegrini”. Scrive il Baglione:
“Nella prima cappella della chiesa di Sant’Agostino alla man manca, fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia, e per queste leggierezze in riguardo delle parti, che una gran pittura haver dee, da’ popolani ne fu fatto estremo schiamazzo.”
La prima cosa da notare in questo passaggio, prima ancora della parola “schiamazzo”, è che essa si riferisce “a’ popolani”, ovvero a quella fascia di pubblico che noi posteri abbiamo spesso immaginato indignata e sbigottita per via di quei piedi indecorosi e di quei panni laceri. Invece Baglione riferisce che proprio di queste “leggierezze in riguardo delle parti che una gran pittura haver dee” i popolani furono entusiasti, tanto da farne “estremo schiamazzo”. Lo stesso Bellori, che diversi anni dopo si rifece in gran parte proprio alla “Vita” del Caravaggio scritta dal Baglione, nello stilare la sua biografia dell’artista dimostra di non comprendere come quella gente avesse potuto rispondere con così grande entusiasmo quando “In Santo Agostino si offeriscono le sozzure de’ piedi del pellegrino”…
Per dare maggior risalto alle loro “interessate” obiezioni nei confronti dello stile del Merisi, i suoi biografi facevano notare come il suo successo fosse in gran parte dovuto all’ammirazione di gente che di arte ne sapeva poco o nulla, ovvero per l’appunto la gente del popolo. Parlando dei laterali Contarelli, Gaspare Celio, nella sua biografia del Caravaggio antecedente a quella del Baglione, osserva che…
“Poste esse pitture in opera che furno ad olio, Prosperino condusse tanti pittorecoli, et altri, a lodare l’opera, che vi fece un concorso straordinario, e la fama suonò fora di modo, essendo le teste ritratte dal naturale, e di bella, et oscura maniera, cosa nuova alle persone non nell’arte. Sì che non guardando se erano ben disegnate le figure, o se mostravano le sue distanze secondo il luogo, fu lodato esso Caravaggio oltre il dovere dalle persone non erudite.”
Dunque “persone non nell’arte” e “non erudite”… come dire che gli apprezzamenti arrivavano da perfetti ignoranti. Salvo poi dover riportare il giudizio positivo di Giovanni de Vecchi, “pittore celebre”, il quale avendo visto le tele Contarelli, pare avesse detto: “Questo virtuoso, per non saper disegnare, ha fatto assai”. Ma Celio non ci sta a lasciargli questa come ultima parola, infatti subito dopo aggiusta il tiro affermando che “Da tale sussurramento Michele pigliò ardire oltremodo”. Ancora una volta si imputa al chiacchericcio generale un successo fin troppo scomodo.
In realtà, se è innegabile l’ammirazione popolare verso il Caravaggio, parimenti non si può ignorare lo stesso, se non maggiore, successo presso una fascia di pubblico decisamente più colta e competente, ovvero i suoi facoltosi e ricchi committenti. A partire proprio da quel Vincenzo Giustiniani che secondo il Baglione si era fatto irretire dagli “schiamazzi” di Prosperino; al contrario, il marchese sapeva il fatto suo ed era perfettamente in grado di riconoscere il valore di un artista. Egli stesso citerà Caravaggio, insieme ad Annibale Carracci e Guido Reni, nel suo “Discorso sopra la pittura” al punto 12, quello che riteneva più importante “cioè dipingere di maniera, e con l’esempio avanti del naturale”.
Ma anche le famiglie Mattei e Costa, per non parlare del Cardinal Del Monte o lo stesso Scipione Borghese, e perfino il papa Paolo V, non si può dire che fossero degli sprovveduti incapaci di apprezzare il genio di un pittore. E le loro prestigiose ed entusiastiche commissioni o acquisizioni, sono la testimonianza tangibile che il pubblico “erudito” non aveva certo bisogno degli “schiamazzi” di Prosperino o dei popolani per manifestare interesse nei confronti delle opere del Caravaggio. Peraltro, l’ammirazione e la protezione che il Merisi ottenne dai suoi committenti, i cui ruoli pubblici erano strettamente legati alla Chiesa, smentisce quell’interpretazione del pauperismo caravaggesco in chiave “progressista” che il Novecento ha voluto affibbiare all’artista e che il nostro tempo continua, in un certo senso, a caricare di significati reconditi, non ultimo – ad esempio – un suo presunto ateismo.
Inutile da parte del Baglione, profferire quelle parole (rumore e schiamazzo) in tono sprezzante sì da indurre al biasimo verso l’artista e il suo pubblico di “incompetenti”; la storia lo ha smentito più e più volte. E sebbene egli continui a disprezzare le opere dell’odiato collega definendole “tele” (come fossero roba di poco conto) mentre parla di quelle “altrui” come di “historie” (ovvero invenzioni concettuali di grande importanza), deve suo malgrado convenire che Michelangelo aveva acquistato “gran credito”. Salvo aggiungere, quasi rassegnato, che tutto questo succedeva perché “tanto importa l’aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con le orecchie. E nell’Accademia il suo ritratto è posto”. Come dire che, a fare la fortuna di un pittore, valeva più una “strombazzata in piazza” che il reale talento.
Eppure il ritratto di Michele è ancora lì…
Francesca SARACENO Roma 18 luglio 2021