di Marco BUSSAGLI
Soltanto uno studioso della levatura di Marcello Fagiolo, con la sua capacità di osservazione, la sua sterminata cultura visiva e la profonda conoscenza delle complesse trame dell’arte e della sua storia, poteva scorgere nei grandi affreschi di Raffaello alle Stanze Vaticane, quello che nessun altro aveva mai saputo vedere.
È questo quanto, giustamente e con piena condivisione da parte di chi scrive, ha affermato il Direttore dei Musei Vaticani Barbara Jatta nella breve, ma significativa introduzione al piccolo, prezioso libro da poco pubblicato per i tipi di De Luca Editori D’Arte che il Centro di Studi sulla Cultura e l’Immagine di Roma ha promosso in occasione del cinquecentenario dalla scomparsa del genio di Urbino. L’opera s’intitola, per l’appunto, Raffaello invisibile. Lo spazio. L’arco di trionfo. La cupola. Il segreto di questa capacità analitica risiede, al di là della effervescenza culturale dello studioso, negli interessi di ricerca e professionali dell’autore che è stato Professore di Storia dell’Architettura a Milano (dal 1969) poi a Firenze (dal 1974) e a Roma “La Sapienza” (dal 2000). A questo si aggiunga che ha fondato e diretto la rivista di architettura Psicon (Firenze, 1974-77), volta a dibattere e sperimentare il metodo “psico-iconologico”, anche sull’onda delle ricerche di Panofsky e Gombrich, applicate all’architettura. Ha poi diretto una rivista blasonata come QUASAR. Quaderni di storia dell’architettura e restauro (Firenze 1989-93). Dal 1988 è membro del Comitato direttivo di Palladio. Rivista di storia dell’architettura e restauro. Ha diretto le collane editoriali di varie case editrici: «Heliopolis: idee di città» (Officina), «Roma: storia, cultura, immagine» (Gangemi), «Barocco in Sicilia» (Ediprint) e «L’immagine storica della città» (Electa Napoli).
Questo ricco percorso di studi e di attività editoriali spiega bene il motivo per il quale Marcello Fagiolo ha potuto guardare gli affreschi con gli stessi occhi di Raffaello che, sarà bene e utile ricordarlo, aveva una profonda preparazione architettonica, con incarichi di assoluto prestigio a cominciare da quello affidatogli da Leone X di progettare il nuovo San Pietro. Fu allora che il giovane Sanzio si procurò un’edizione del De Architectura di Vitruvio. Tuttavia, come spiega con dovizia di dati Marcello Fagiolo, l’esperienza architettonica di Raffaello iniziò ben prima di quella straordinaria incombenza.
Dopo aver tratteggiato quel che fu l’ambiente storico coevo al soggiorno romano con la presenza in città di un giovane Lutero, l’autore appunta la propria attenzione sull’architettura dipinta, come primo e più facile approccio del grande pittore alla pratica vera e propria della costruzione degli edifici. Infatti, come si può ben intuire, il punto di partenza dello studio di Marcello Fagiolo, affiancato felicemente da due interventi di approfondimento di Fabio Colonnese, è proprio la concezione dello spazio del grande urbinate. Non per nulla, come fa notare giustamente Fagiolo – sulla scorta degli studi di Spagnesi, Fandelli e Mondelli (1984) – si deve parlare di «una architettura concepita in chiave ‘pittorica’ e una pittura invece strutturata decisamente in senso architettonico».
Risulta perciò chiaro il motivo per il quale l’autore abbia preso come esempi, per iniziare, quelli relativi a due opere giovanili del Sanzio: la predella con l’Annunciazione della Pala Oddi e lo Sposalizio della Vergine (conservati ai Musei Vaticani e a Brera). Nel primo caso
l’approfondimento sull’uso della prospettiva sviluppato nel contributo di Colonnese (che analizza anche i precedenti perugineschi dell’Annunciazione della Pala di Fano, dell’Ultima Cena nell’ex convento di Fuligno e della Pala Torlonia), confermano l’innovazione raffaellesca della ‘colonna in asse’ al centro del colonnato posto in prospettiva.
Un aspetto chiarito ancor meglio dal disegno preparatorio della scena vaticana nel quale si vedono, almeno in parte, le linee di costruzione di tutto l’ambiente a tre navate che si articola secondo una visione rigorosa sul cui punto di fuga giace appunto la ‘colonna in asse’, mancante nella ricordata pala di Fano di Perugino.
Tutto questo rivela una concezione sofisticata e complessa dello spazio da considerarsi – a vario titolo – scenico, pittorico e architettonico di cui si trova puntuale conferma nel capolavoro di Brera, non di rado messo a confronto con lo Sposalizio della Vergine di Pietro Perugino conservato a Caen. Tanto è semplice, paratattico e scontato, quello del maestro di Raffaello, così è organico, circolare e coinvolgente quello del Sanzio; ma non basta. Si vede qui un primo compiuto esempio di quell’architectura picta che deve considerarsi una delle cifre distintive dell’arte del grande Urbinate. Infatti, l’immagine del Tempio sullo sfondo, sulla cui trabeazione, non per caso, il pittore ha posto la propria firma, è concepito in maniera così coerente da permettere agli studiosi (da Emers a Spagnesi, da De Vecchi a Fagiolo) di ricavare la pianta – centrale – di un edificio poligonale che si sviluppa in altezza sulla base delle indicazioni del De Architectura di Leon Battista Alberti. In altre parole, ben prima di misurarsi con imprese architettoniche vere e proprie – dalle perdute scuderie di villa Chigi (oggi Farnesina) alla chiesa di Sant’Eligio, dalla Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo a San Pietro, fino a Villa Madama per l’allora cardinale Giulio de’ Medici, poi eletto papa come Clemente VII – Raffaello si era misurato con questa complessa disciplina nelle sue opere pittoriche.
Questa straordinaria attitudine, infatti, condizionò in termini positivi anche la sua concezione dello spazio pittorico che non di rado – va ricordato – veniva progettato impiegando espedienti tipici degli architetti. È il caso del celebre foglio conservato presso la Royal Library di Windsor Castel (inv. RCIN 912732) dove l’artista si guarda bene dal disegnare tutta la scena; ma dal momento che, in realtà, risulta essere in buona parte simmetrica ne realizza solo metà: esattamente come fanno gli architetti quando devono progettare una cupola.
Basta disegnarne mezza, salvo approfondire eventuali problematiche specifiche nella metà che non era stata schizzata e che, generalmente, è sempre la sinistra. Il foglio inglese, che fa parte degli studi preparatori della cosiddetta Disputa del Sacramento – nel senso della discordia concors, p. 40 – contiene anche un’indicazione assai significativa. Si tratta della prima ipotesi compositiva che doveva servire a dividere l’emiciclo superiore di quella che – per semplificare, come spiega bene Fagiolo – diremo della Chiesa Trionfante da quello inferiore della Chiesa Militante.
Probabilmente, era concepito sulla scorta della memoria della Pala Baronci, la prima opera nella quale Raffaello è documentato dal contratto come magister. Così egli immagina una struttura architettonica ad emiciclo, con due colonne e un arco trionfale. L’idea verrà poi sostituita dalla soluzione, assai più suggestiva delle nuvole che, del resto, il pittore aveva già sperimentato nell’affresco del San Severo a Perugia, ma un residuo della prima proposta, forse, si può scorgere nell’immenso blocco marmoreo che chiude sulla destra l’affresco vaticano.
Fagiolo avanza quest’ipotesi assolutamente stimolante (resa ancor più chiara dalla ricostruzione operata da Colonnese), sviluppando verso l’alto il basamento e le lesene del blocco di marmo sulla destra dell’affresco e inserendo un arco di trionfo monumentale. La tesi non contraddice le altre possibili interpretazioni correnti che considerano il blocco di marmo come “pietra angolare” dai risvolti evangelici e architettonici, se si riflette al fatto che, in quegli stessi anni, si stava procedendo alla demolizione del San Pietro costantiniano e alla costruzione di quello bramantesco, in qualche modo prefigurato anche dalla monumentale crociera dipinta nell’affresco antistante della Scuola d’Atene. Infatti, come spiega Fagiolo, «Raffaello aveva già impostato un arco trionfale che inquadrava trionfalmente (…) le figure di Platone e Aristotele».
Adesso, grazie all’intuizione del grande studioso romano, il recupero dell’altro «arco trionfale» completa il pensiero di Raffaello e di Giulio II, il quale può essere considerato l’ideatore dal punto di vista teologico dell’intero ciclo pittorico.
Le pagine del testo di Fagiolo, però, allargano lo sguardo su altri aspetti della concezione spaziale dell’affresco, per altro preannunciati dal sottotitolo. L’indagine dell’autore, infatti, evidenzia la costruzione ‘a cupola’ del registro superiore dell’opera che suggerisce, giustamente, un raffronto con l’altro capolavoro del Sanzio che precede di poco l’impresa romana: la Madonna del baldacchino conservata a Pitti. Tuttavia, questa dissertazione sulla cupola virtuale dell’Empireo rappresentata da Raffaello, porta Fagiolo ad imbastire un paragone con il Cristo in gloria dipinto da Zuccari nella cupola di Brunelleschi in Santa Maria del Fiore, il cui progetto decorativo si deve a Vincenzo Borghini, uno dei più grandi dantisti dell’epoca.
È allora qui che – di rimbalzo – emerge tutta l’importanza della visione dantesca anche nella concezione della Disputa dove aleggia in tutto l’affresco e si palesa, come fosse una citazione a margine, nello splendido ritratto dell’Alighieri che, guarda caso, si staglia proprio sullo spigolo della ‘pietra angolare’ alias pilastro dell’arco di trionfo.
Completa l’analisi dell’affresco, il contributo di Colonnese che indaga vari aspetti dell’opera, a cominciare dalla differenza fra il punto di vista virtuale calcolato da Raffaello per impostare tutta la scena (corrispondente all’orizzonte della composizione che interseca il punto fuga alla base del calice del Sacramento) e quello effettivo, calcolato secondo l’altezza media del fruitore, che si sovrappone al margine superiore della specchiatura decorativa compresa fra il pavimento reale e il limite anteriore di quello dipinto nell’opera. In questo modo, la parete pare aprirsi naturalmente seguendo uno spazio scenico che ‘sfonda’ il muro.
Colonnese, poi, affronta la costruzione prospettica della Disputa con particolare riguardo al modulo di costruzione del pavimento e agli ingombri del suppedaneo marmoreo dell’altare del quale fornisce pure una duplice restituzione zenitale. La prima mostra la pianta del suppedaneo, dell’altare e la posizione del blocco marmoreo (con il raddoppio ideale nello sviluppo in pianta del pilastro dell’arco trionfale) per come dovrebbe essere in effetti; la seconda, invece, rappresenta la vista dall’alto dell’altare, del suppedaneo e del pavimento per come è stato concepito nello spazio pittorico prospetticamente concepito.
Il libro si conclude con un capitolo sulle influenze che la concezione dello spazio di Raffaello ebbe sui suoi eredi naturali, ossia quegli artisti che avevano fatto parte della mitica bottega del maestro, i quali perpetuarono il suo magistero all’indomani della sua scomparsa. Come scrive giustamente Fagiolo, riferendosi al disperdersi in Italia di questi artisti negli anni immediatamente precedenti e contestuali al Sacco di Roma, «la “diaspora” dei raffaelleschi si rivelò quasi un disegno provvidenziale…». Così, ciascuno di loro portò con sé un aspetto della spazialità del grande maestro.
Perin del Vaga ereditò il ruolo di Raffaello presso la Corte pontificia e, dopo essere stato a Genova al servizio dei Doria, decorò l’appartamento pontificio di Castel Sant’Angelo per Paolo III Farnese; Polidoro da Caravaggio ebbe enorme fortuna con le sue facciate dipinte che movimentavano i prospetti dei palazzi nobiliari; Giovanni da Udine costruì la sua fama sull’uso degli stucchi “incollati”; Giulio Romano si trasferì a Mantova e popolò di meravigliose invenzioni le pareti di Palazzo Te.
Fu lui a portare agli estremi le potenzialità scenografiche del magistero del Sanzio, come dimostra la Sala dei Giganti che altro non è – come spiega giustamente Fagiolo – se non la trasposizione monumentale dell’invenzione raffaellesca con il San Paolo in carcere e il Terremoto dell’arazzo di papa Leone X. C’è poi un’onda lunga della spazialità del grande Urbinate anche in Andrea Palladio e nelle sue soluzioni architettoniche e sceniche che dimostrano come il verbo degli artisti sommi non conoscano confini né geografici né temporali.
Marco BUSSAGLI Roma 25 luglio 2021