di Silvia CALAMANDREI
Silvia Calamandrei, scrittrice, saggista, proviene da una delle famiglie di intellettuali italiani tra le più prestigiose. E’ presidente della Biblioteca Archivio Piero Calamandrei di Montepulciano. Ha svolto numerose attività di studi e ricerche sulla Cina curando e traducendo opere letterarie e saggistiche riguardanti la Repubblica Popolare Cinese. Nel 2020 ha curato un numero speciale della rivista “Il Ponte” sulla Cina d’oggi. A settembre uscirà un suo saggio autobiografico intitolato “Attraverso lo specchio. Cina Andate-Ritorni”, per le Edizioni di storia e letteratura. Con questo saggio inizia la sua collaborazione con About Art
Ho accettato con grande piacere l’invito ad un convegno su Malaparte nella sua Prato organizzato da Walter Bernardi, animatore della Fondazione Casa Pia dei Ceppi e studioso dello scrittore, per commentarne l’ultimo viaggio del 1956 da cui ritornò con un grande amore ed entusiasmo per la Cina popolare.
Tanto fu l’amore sviluppato per la Cina che lo scrittore volle lasciare all’Associazione degli scrittori cinesi la sua villa di Capri: quella Associazione che lo aveva invitato per celebrare il massimo scrittore novecentesco, Lu Xun, all’epoca noto in Italia per una traduzione di Luciano Bianciardi dall’inglese.
Ma l’eredità non potè essere riscossa dai cinesi: nel 1957 non c’erano relazioni diplomatiche tra l’Italia e la Repubblica popolare cinese e i famigliari impugnarono il testamento: la villa non si trasformò in soggiorno di riposo e studio per gli scrittori cinesi che Malaparte aveva avuto occasione di conoscere in un viaggio di scoperta di un mondo “altro”.
L’”io” debordante di Malaparte viene conquistato e come assorbito dal grande millenario Paese di mezzo, che descrive con la sua vivace vena narrativa nelle pagine che verranno pubblicate postume (con alcuni appunti ancora non rielaborati) dall’amico Giancarlo Vigorelli per Vallecchi nel 1958.
Invitato per le celebrazioni dell’anniversario dello scrittore Lu Xun, Malaparte giunge a Pechino dopo un lungo ed estenuante viaggio attraverso la Russia e la Mongolia. Lo stesso itinerario che aveva percorso la delegazione di intellettuali italiani del 1955, guidata da Piero Calamandrei, che costituì una sorta di apripista nelle relazioni culturali tra i due paesi.
Vigorelli scrive nella Introduzione che Malaparte ne tornò trasformato, come se si fosse trattato di un esame di coscienza più che di un’avventura, come se avesse trovato il meglio di se stesso.
Poco dopo la metà del secolo scorso vari scrittori, artisti e cineasti italiani si affacciano oltre la Grande Muraglia, intessendo una relazione tra Italia e Cina che studiosi dei due paesi sono andati ricostruendo e che non si è più interrotta.
Prima di andare a Prato, dove alcuni amici coltivano la memoria dello scrittore nativo, mi ero chiesta se tra i tanti giovani cinesi di Prato di seconda generazione non ci fosse curiosità per questo esploratore della Cina che ne rimase tanto segnato, nella fase finale della vita: lui “superuomo” -come scrisse Vigorelli- che scopre gli uomini, forse in faccia all’Uomo di Pechino: di fronte all’umanità dei lavoratori cinesi, alla loro sofferenza millenaria, fa i conti anche con le colpe dell’Occidente.
A Chongqing, osservando migliaia di uomini con bilanciere sulle spalle, curvi sotto il peso di due ceste cariche di pietre, che vanno per miglia e miglia, trottando, a portar pietre alle fornaci di calce, avverte la colpa di essere complici di una politica volta a perpetuare questa dolorosa, atroce condizione umana, a riempire la Cina, l’Asia, il mondo di bestie da soma”:
“É un’esperienza che bisogna fare. Un’esperienza necessaria, questo incontro con gli uomini che tirano i carri, attaccati alle stanghe, che camminano curvi sotto la soma. É necessario per tutti, per voi, per me. Quegli uomini riscattano anche voi, anche me. Riscattano la nostra cultura, la nostra condizione di intellettuali, condizione, talvolta, così spregevole”.
Non ho potuto purtroppo verificare l’interesse dei cinesi di seconda generazione: ad un convegno dedicato contemporaneamente a Malaparte e Lu Xun a Prato non c’era un solo cinese presente, tanto le due comunità procedono ancora separate.
Eppure oltre a Malaparte si ricordava Lu Xun, scrittore di cui Sellerio ha appena pubblicato una nuova traduzione, dopo le tante che si sono succedute, prima dall’inglese (Luciano Bianciardi e Maria Teresa Regard) e poi dal cinese (Edoarda Masi, Primerose Gigliesi, Anna Bujatti. E su di lui è appena uscito un prezioso librino di Carlo Laurenti, deliziosamente stampato recto verso da Aragno (2021) nella collana Pietre d’angolo curata da Andrea Cortellessa: rielaborazione della sua tesi, in cui evidenzia le radici taoiste dello scrittore cinese, accostandolo a Zhuangzi e mettendone in discussione la canonizzazione maoista nei Discorsi sulla letteratura e sull’arte del 1942 a Yen’an.
Secondo il prefatore Vigorelli, Lu Xun e Malaparte non potevano essere più diversi, “due nature inconfondibili”. Eppure fu lui ad essere invitato a celebrarne il ventennale della morte a Pechino.
Malaparte è stato tradotto in cinese (Kaputt e La pelle), ma stranamente non è stato tradotto il suo diario di viaggio-testamento. Eppure nel 1957 il “Quotidiano del popolo” aveva scritto un necrologio di omaggio a Malaparte, annoverandolo tra i buoni amici della Cina e ricordando il suo incontro con Mao, con il quale si era intrattenuto in conversari, anche commentando su Nenni e Togliatti.
Il reportage di Malaparte è uno dei tanti frammenti di un incontro tra due paesi e due culture, che prosegue negli anni, nutrendosi di confronti e di interrogativi. Quel dialogo è ancora aperto oggi, anche se la pandemia ha impedito di intensificarlo in occasione del cinquantenario delle relazioni diplomatiche, che ha costretto a rinviare l’anno delle relazioni culturali tra l’Italia e la Cina al 2022.
Dopo il viaggio del 1955 della delegazione culturale diretta da Piero Calamandrei e la visita di Nenni, si aprì una fase di scambi fecondi, stimolata anche dalla pubblicazione del numero straordinario del “Ponte” nell’aprile del 1956 (nell’ottobre 2020 il Ponte è uscito con un numero speciale antologico dedicato a quel volume e alla sua contestualizzazione). Mentre a Venezia venivano esposte opere del grande pittore Qi Baishi, una delegazione di artisti italiani gli rendeva visita a Pechino.
Dopo la visita di Cassola, Fortini ed Antonicelli alla casa di Lu Xun a Shanghai, Malaparte veniva invitato a rendere omaggio a Lu Xun nel suo anniversario. Non ci resta copia di quel discorso in francese (negli archivi Malaparte di Milano se ne conserva una sola pagina), ed ho chiesto ad un’italianista cinese se riesce a ritrovarlo negli archivi di Pechino.
Ci sarebbe tanto da scavare sulle ragioni di quell’invito privilegiato a Malaparte: Igor Mann, in una testimonianza sulla “Stampa” del 2008, parla di una iniziativa di Maria Antonietta Macciocchi, su suggerimento di Togliatti, che lo avrebbe spedito in Cina come inviato di “Noi donne”; Togliatti aveva già avuto modo di apprezzarlo a Napoli nel 1944, visitando la sua villa Capo Masullo e la sua biblioteca.
Malaparte viaggia attraverso la Cina sulle orme degli antichi poeti cinesi, recitandone i versi insieme ai suoi accompagnatori cinesi:
“Durante il mio viaggio attraverso la Cina, da Pekino a Urumqi, nel Sinkiang, il Turkestan cinese, oltre l’estremo limite nord ovest della Grande Muraglia e da Urumqi a Langchow, a Sian, a Ciunking, ho seguito lo stesso itinerario di Tu Fu, mi sono fermato negli stessi luoghi che furono cari a Li Po e alla sua Musa delicata […] è un viaggio attraverso l’antica poesia cinese, quello che sto compiendo per montagne e steppe e fiumi; e troverò tra giorni i cieli sereni del sud, il clima dolce, i fiori lungo le correnti dorate. E Lin Nan Lin sorride, e mi recita i versi di Li Po dedicati al cielo di Sechuan, i versi di Tu Fu dedicati alle nuvole, alle fontane, ai verdi alberi del Sechan [sic]”.
Sono i poeti classici che più avvicinano Malaparte e i suoi interpreti, come Hong Xing, che era stato già accompagnatore di Francesco Flora e di Piero Calamandrei e che si premura di spedire a Flora le uova d’anitra per cui andava matto, quel Flora che gli aveva insegnato canzoni italiane.
Ci sarebbe da capire le ragioni dell’incontro al massimo livello che viene accordato a Malaparte con Mao Zedong, che non manca di sottolineare le qualità intellettuali di Togliatti (“Togliatti è un uomo che pensa”, commenta Mao, e chi sa cosa intendeva, viste le divergenze che covavano dopo il rapporto al XX Congresso su Stalin).
Malaparte era considerato un buon messaggero e divulgatore verso il pubblico italiano? Sicuramente il Mao benevolente che ritrae fa parte del soft power dell’epoca:
“Mi affascinava il suo sguardo: che è fermo, sereno, dolce, profondamente buono. Tutti i visitatori stranieri concordano nel disegnare di lui un ritratto, nel quale la fermezza si accompagna alla bontà. Se la sua prodigiosa vita di uomo d’azione, di rivoluzionario, è lo specchio del suo coraggio, del suo spirito dio sacrificio, della sua volontà di ferro, il suo viso è lo specchio del suo animo buono, generoso. Quando si pensa a quel che avrebbe potuto essere la rivoluzione cinese se alla sua testa fosse stato un fanatico, un sanguinario, un teorico lucido, astratto, spietato, c’è da rabbrividire”.
Sulla lucidità di apprezzamento di Malaparte si può nutrire qualche dubbio, dato che di rientro dal viaggio in URSS e in Cina aveva minimizzato le vicende ungheresi in un’intervista rilasciata a Mosca, definendole “dolorosi avvenimenti”. Niente poteva scalfire la speranza acquisita in Cina, o meglio “la fede che ha saputo ispirarmi nell’avvento sicuro e inevitabile di un mondo di bontà e giustizia”. Aveva imparato a “voler bene ai cinesi” e in partenza aveva telegrafato a Mao “Sono andato in Cina da amico, sono partito innamorato della Cina”.
Il suo ultimo reportage merita di essere riletto soprattutto per le descrizioni di paesaggi, opere d’arte e incontri con un mondo altro, da cui ricava una nuova fede nell’umanità. Un itinerario di scoperta, facendo i conti con se stesso. Giancarlo Vigorelli così conclude la sua introduzione al volume postumo:
“L’ultimo viaggio fu la fine del gioco: il saluto alla Cina fu un saluto alla vita, anche se pagato con la morte”.
Quando scese all’aeroporto di Ciampino già gravemente segnato dalla malattia ai polmoni che gli era esplosa in Cina, portava sul volto una mascherina. Al suo capezzale si sarebbero affollati amici e politici, da Tambroni e Fanfani a Togliatti, a cui avrebbe chiesto, secondo una intervista rilasciata a Sergio Zavoli tre mesi prima di morire, la tessera del PCI. Ai suoi funerali nel luglio 1957 lo stato maggiore del PCI, da Secchia a Scoccimarro a Pajetta, ma anche Tambroni, allor ministro degli Interni. E una conversione in punto di morte, per opera del gesuita padre Rotondi. Tante fedi trovate, in conclusione di un’esistenza segnata dal culto di se stesso e delle proprie doti di scrittore.
Silvia CALAMANDREI Roma 1 agosto 2021