di Nica FIORI
Villa Sciarra: un giardino idilliaco dove abbondano le statue d’ispirazione mitologica
“Cantami, o Musa, il figlio diletto di Ermes, bicorne, / dal piede caprino, amante del clamore, che per le valli, / folte di alberi, si aggira con le ninfe avvezze alla danza …“
Questi versi, dall’omerico Inno a Pan, descrivono sommariamente il misterioso dio dall’aspetto semianimalesco che nell’antica Grecia personificava la forza fecondante della natura. Figlio del dio Ermes e della ninfa Driope, deve il nome al fatto che, presentato dal padre agli altri dei dell’Olimpo, Pan aveva rallegrato con i suoi strepiti e risa tutti gli animi (pan in greco vuol dire tutto) e soprattutto Dioniso, che lo volle nei suoi cortei. Ma, se gli dei erano rallegrati dal suo aspetto, ai comuni mortali la sua inquietante apparizione nei boschi poteva provocare un senso di paura e di smarrimento, il “timor panico”, che ha dato origine al termine “panico”.
A Roma Pan viene equiparato a Silvano, una divinità latina dei boschi, o a Fauno, che era il dio dei pascoli e dell’agricoltura, e i Fauni sono sue raffigurazioni, abbastanza somiglianti ai Satiri legati al culto di Dioniso, insieme ai vecchi Sileni, che erano geni delle sorgenti e delle fontane.
Le figure di Satiri e Fauni hanno avuto grande fortuna nell’arte antica, mentre nel Medioevo sono stati demonizzati e la capra è stata vista come simbolo di lussuria. Dall’età rinascimentale in poi hanno avuto nuovamente una grande fortuna artistica e letteraria e sono pure entrati nel genere fantasy e nel cinema.
I musei romani accolgono diverse sculture antiche di Fauni, ma, per chi preferisce passeggiare all’aria aperta, suggerisco la visita del giardino di Villa Sciarra, dove abbondano le raffigurazioni scultoree di queste divinità silvestri in un ambiente verde particolarmente idilliaco.
Situata sulle pendici del Gianicolo e delimitata dai bastioni delle Mura di Urbano VIII, da via Calandrelli, dove si apre l’ingresso principale al n. 23, e da via Dandolo, Villa Sciarra con i suoi sette ettari di superficie è uno dei parchi romani più interessanti dal punto di vista botanico, artistico e paesaggistico.
L’area in cui sorge era occupata fin dall’antichità da orti e giardini: in età arcaica vi era il bosco sacro a Furrina, una misteriosa divinità appartenente alla fase più arcaica della religione romana, forse legata a una fonte, della quale però già negli ultimi decenni della Repubblica non si ricordava niente altro che il nome. Il luogo era, infatti, considerato nefasto dopo che vi aveva trovato la morte Caio Gracco nel 121 a.C.
Più tardi divenne parte di quell’enorme spazio verde noto col nome di “Orti di Cesare”, che dalla collina di Monteverde e dal Gianicolo scendevano fino al Tevere, e ancora più tardi vi venne edificato un tempio dedicato a divinità siriache, il cui nucleo più antico risale all’epoca di Nerone (I secolo d.C.), mentre la fase più recente è del IV secolo.
Le vicende della proprietà della villa sono intricate: deve il suo nome a uno dei rami della famiglia Barberini, i principi Sciarra, ai quali giunse in eredità dopo essere appartenuta, tra gli altri, a mons. Innocenzo Malvasia, al card. Antonio Barberini, al card. Pietro Ottoboni. Poco rimane dell’assetto originario che risale al XV secolo, quando era al di fuori della cinta muraria, fatta ampliare da Urbano VIII per migliorare le possibilità difensive della zona. Si può dire che il passaggio dal primo Quattrocento ai nostri giorni non ha quasi lasciato traccia. Quello che ora vediamo è il risultato dei profondi interventi compiuti all’inizio del XX secolo dal suo ultimo proprietario, il diplomatico americano George Wurts, che l’acquistò nel 1902, o meglio acquistò quello che ne rimaneva, dopo che Don Maffeo Sciarra, in seguito a una serie di speculazioni sbagliate, che l’avevano portato alla rovina economica, l’aveva in parte lottizzata.
Quando Gabriele D’Annunzio nel romanzo Il Piacere del 1891 vi ambientò la famosa scena del duello tra Andrea Sperelli e Giannetto Rutolo, la villa era “già per metà disonorata dai fabbricatori di case nuove”. Fu dunque il Wurts a salvarla e a trasformarla nella forma attuale. Non dobbiamo pensare però a un cambiamento negativo, bensì a una valorizzazione e a un arricchimento effettuato da una persona di notevole gusto e soprattutto innamorata dell’arte italiana.
Aiutato in questa sua passione dalla ricchissima moglie Henriette Tower, egli profuse somme ingenti per ornare il giardino con piante rare e di pregio, per lo più esotiche (ricordiamo in particolare il maestoso Ginko Biloba, che troneggia al centro del parco), ma sapientemente accostate a quelle nostrane, e con numerose statue e fontane settecentesche, provenienti da una distrutta proprietà dei Visconti a Brignano Gera d’Adda (in provincia di Bergamo): proprio a questa origine lombarda si deve la presenza in due fontane del Biscione visconteo. I gruppi scultorei sono inseriti nel paesaggio con raffinata naturalezza, insieme a finti ruderi di gusto romantico e aiuole che, secondo i dettami dell’arte topiaria, sono realizzate con bossi e tassi sagomati a formare figure geometriche.
Dopo aver ricostruito l’edificio centrale, che era stato gravemente danneggiato durante i drammatici eventi della Repubblica Romana (1849), i Wurts vi si stabilirono trasportandovi la loro ricca collezione d’arte e impiantarono nella proprietà un allevamento di pavoni (si conserva ancora la grande voliera in ferro), tanto che all’epoca era conosciuta come “la villa dei pavoni bianchi”. Fecero pure costruire nella parte inferiore un villino in forma di castelletto per i custodi: in quell’occasione vennero alla luce i resti del cosiddetto Tempio Siriaco (visibili da via Dandolo), i cui reperti sono conservati nel Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano. Spettacolare tra essi è la statuetta bronzea di una divinità racchiusa entro sette spire di un serpente, interpretata come Adone, in quanto si riteneva che il dio morisse ogni anno per tornare in vita attraverso le sette sfere celesti.
La vita dei coniugi Wurts nella splendida dimora gianicolense andò avanti fino al 1928, quando l’ex diplomatico morì; poco dopo la vedova, in memoria del marito e del suo amore per l’Italia, decise di donare la villa, insieme a un lascito di 50.000 dollari per la sua manutenzione, allo Stato italiano, nella persona del suo capo del Governo Benito Mussolini, il cui nome è stato abraso dall’iscrizione marmorea che ricorda la donazione. E più tardi, alla sua morte, Henriette Wurts Tower lasciò ancora in eredità all’Italia l’intera collezione di oggetti d’arte del marito. Mentre il giardino di villa Sciarra è stato destinato a parco pubblico, l’edificio principale è sede dell’Istituto Italiano di Studi Germanici, per favorire “l’unità spirituale fra i popoli”, come si legge nell’iscrizione.
Nonostante il rifacimento e l’aggiunta di un corpo di fabbrica sulla destra, la palazzina ha conservato in parte la pianta originaria, con la facciata dotata di tre archi, un tempo aperti, dai quali si accede al portico con la volta a botte ribassata; quello che era il cortile è stato invece trasformato in biblioteca dagli architetti Alberto Calza Bini e Mario De Renzi in occasione della sua destinazione a Istituto di studi germanici (avvenuta nel 1932 in coincidenza con la celebrazione del centenario della morte di Goethe). La biblioteca è specializzata nelle letterature germanica, scandinava e olandese.
La cosa più notevole dell’edificio è la terrazza, con una torretta e sculture in arenaria poste sui bordi: da questa felice posizione la città appare ancora, come scriveva D’Annunzio,
“immensa, augusta, radiosa, irta di campanili, di colonne e d’obelischi, incoronata di cupole e di rotonde, nettamente intagliata, come un’acropoli, nel pieno azzurro”.
La visita di Villa Sciarra può essere estremamente affascinante per la sua varietà paesaggistica, che la fa sembrare più grande di quanto non sia in realtà. Se si ha l’accortezza di visitarla nelle ore meno frequentate, si può avere l’illusione che le statue dei fauni e delle ninfe si rincorrano realmente nell’ambiente silvestre a loro congeniale. Di fauni, in effetti, c’è un vero affollamento e, addirittura, un’intera famiglia nella bella fontana disposta sul muro perimetrale vicino all’ingresso che immette in viale Adolfo Leducq.
Oltre al padre e alla madre, che sorreggono una grossa conchiglia, vi sono un primo figlio che suona un corno e un altro più piccolo che si aggrappa alle gambe della madre. Sulla destra un grosso uccello sembra disinteressarsi della scena, mentre al di sopra un putto che fuoriesce dalla bocca di un mostro marino (il Biscione) sostiene la corona dei Visconti.
Non lontano vi è il gruppo scultoreo di due faunetti che giocano con un capro sul bordo di una fontana rustica in piazzale Wurts.
Più in là un faunetto cerca, insieme a un putto, di arrampicarsi su una tartaruga e ancora dei grandi fauni sono utilizzati come portavaso. Ne troviamo altri ancora, più o meno seminascosti nel folto della vegetazione, mentre è bene in vista il lussurioso Pan, che con espressione avida si illude di abbracciare la ninfa Siringa, mentre in realtà rimane stretto a un fascio di canne palustri. Quello di Siringa è uno dei tanti esempi di metamorfosi presenti nei miti antichi.
Seguace di Artemide, la ninfa, inseguita dal dio, giunse sulle rive di un fiume e lì chiese aiuto alle Naiadi, che la trasformarono in canne che, al soffio del vento, emettevano un dolce suono. Fu allora che Pan decise di fabbricarsi con quella che era stata oggetto del suo desiderio un flauto a sette canne, detto “siringa di Pan”.
Non mancano altri personaggi della mitologia greca, come Apollo e Dafne, la ninfa che viene trasformata in alloro per sfuggire alle avances del dio, Eos (l’Alba) con a fianco un gallo, Selene (Diana), personificazione della Luna, con il bel pastore Endimione e il suo immancabile cane. Questi ultimi sembrano specchiarsi sulle sponde di una grande vasca dalla forma irregolare, all’ombra di un boschetto di lauri.
A semicerchio intorno a un’originalissima aiuola sono disposte le raffigurazioni allegoriche dei dodici Mesi, entro nicchie ricavate nel folto dell’esedra vegetale.
Nello spiazzo che si apre davanti all’edificio principale, tra pini, cipressi, bossi, palme e abeti, si possono ammirare due curiose fontane. La prima, di forma circolare, contiene quattro figure mostruose simili a sfingi, che simboleggiano la Gola (accovacciata su una cornucopia piena di frutti), l’Avarizia (poggiata su una cornucopia piena di monete), la Lussuria (posta su un tappeto di fiori) e l’Ira (con la zampa anteriore poggiata su un teschio): peccati questi ingenuamente attribuiti dall’ignoto autore settecentesco a una femminilità perversa.
Le sfingi, in effetti, sono femminili, come era di moda nel Settecento, contrariamente alle sfingi egizie, che erano quasi sempre maschili.
La seconda fontana ha al centro lo stemma dei Visconti con il biscione dalla cui bocca fuoriesce un fanciullo nudo; ai lati due putti, di cui uno con l’elmo in testa, escono anch’essi dalla bocca di mostri marini.
Anche la balaustra che delimita lo sfondo è adorna di putti.
Quando sono stati effettuati i restauri delle fontane e dei gruppi scultorei settecenteschi, i lavori hanno comportato non poche difficoltà per la natura friabile del materiale.
Queste sculture, infatti, sono tutte in arenaria, una pietra dal caratteristico e caldo colore grigio-ocra, ma che purtroppo è molto porosa e scarsamente resistente. Più volte sono state deturpate da atti vandalici, ma per fortuna sono ancora lì, pur mancanti di braccia o altri parti, mentre altri pezzi d’epoca romana sono spariti.
Se la situazione nella parte superiore della villa è sotto controllo, ben diversa appare nella parte inferiore, la cui vegetazione boschiva si è completamente inselvatichita, e che è da tempo interdetta al pubblico per pericolo di smottamento del terreno, come è pure recintata l’area intorno al Ninfeo, posto lungo il declivio del colle.
Realizzata nel 1912 su progetto dell’ingegnere Enrico Gennai, questa costruzione prevedeva un porticato un tempo ricco di colonne, statue e busti romani, che sono stati nel tempo asportati per motivi di sicurezza. Al di sopra era collocata una piccola fontana a forma di nave con due figure alate (con funzione di polene) e due putti che soffiano entro conchiglie, da cui doveva uscire l’acqua che dall’alto cadeva in una vasca sottostante. L’entrata su via Dandolo, accanto ai ruderi del Tempio Siriaco, è chiusa e abbandonata a un triste degrado, tra rovi e rifiuti.
E pensare che un tempo era considerata la più suggestiva per il suo aspetto misterioso e sacrale: lo scenario ideale per immergersi nell’atmosfera degli antichi culti pagani e nel bosco popolato dai mitici Fauni.
Nica FIORI Roma 1 agosto 2021