“Saper ritrarre fiori, et altre cose minute”. Giustiniani, Caravaggio e la Natura Morta: una questione complessa.

di Francesca SARACENO

“[…] et il Caravaggio disse che tanta manifattura gl’era à far un quadro buono di fiori, come di figure.”

Sono le parole con cui Vincenzo Giustiniani riporta uno dei pochissimi pensieri “autografi” del Caravaggio sull’arte della pittura che egli aveva scelto come mestiere. Una frase su cui tanti studiosi di tutto il mondo si sono confrontati dandone ciascuno la propria spiegazione e che ai ‘non addetti ai lavori’ potrebbe sembrare, ad una prima lettura, anche piuttosto semplice da interpretare.

Invece la questione è piuttosto complessa e sarà forse utile ragionarci.

Innanzitutto bisogna dire che la frase in oggetto è stata estratta da un passaggio preciso di una lettera, comunemente conosciuta come il “Discorso sopra la pittura”, che il marchese Vincenzo Giustiniani inviò all’avvocato olandese Theodore van Amayden tra il 1617 e il 1618. Per la natura stessa della lettera e per le argomentazioni che vi si trovano, essa è stata considerata come una sorta di “trattato” in cui il marchese delineava quelli che a suo parere, da collezionista e conoisseur, erano i diversi livelli della pittura in ordine crescente, dal meno nobile al più nobile. Una gerarchia in dodici punti che parte dallo “spolvero”, passando per la “copia”, la “ritrattistica”, fino all’ultimo punto, il più importante, in cui si fondono la pittura “di maniera” e quella “dal naturale”.

La frase sopra citata e riferita a quello che Giustiniani dice essere il pensiero del Caravaggio, si trova al punto 5 della classifica: “saper ritrarre fiori, et altre cose minute”. E non è di poco conto il fatto che il marchese usi il termine “ritrarre” in riferimento ai fiori, perché in effetti il Caravaggio trattò sempre le sue “nature morte” esattamente alla stessa stregua delle figure umane. Giustiniani annovera tra i pittori migliori da inserire al punto 12, come summa maxima dell’abilità pittorica, Annibale Carracci, Gudo Reni e, per l’appunto, il Caravaggio. Proprio perché essi erano in grado, ciascuno con il proprio stile, di dipingere integrando la pittura di “maniera” con la resa naturalistica attraverso l’uso del colore.

Ora, per comprendere meglio il significato di quel pensiero del Caravaggio per il quale “tanta manifattura gl’era à far un quadro buono di fiori come di figure” è necessario considerare innanzitutto che il genere dei naturalia le cosiddette “nature morte”, benché a quel tempo diffusamente usate nei dipinti, non esistevano ancora come “genere pittorico” a sè stante, benché una forte tendenza in questo senso fosse già in atto, grazie alle influenze nordeuropee e fiamminghe in particolare. Si trattava piuttosto di soggetti di contorno, a corredo di un quadro di figure o di storia ma sempre con una valenza secondaria. Questo accadeva perché, fino a quel momento, l’ideale artistico era stato quello rinascimentale che vedeva l’uomo (e dunque la figura) al centro della scena pittorica, protagonista indiscusso, esaltato ancor di più dalla storia e, segnatamente, dalla storia sacra. Tutto ciò che era di contorno alla figura era considerato di minore importanza.

Dal punto di vista tecnico l’assunto era che la figura umana ponesse per l’artista un maggiore livello di difficoltà nell’essere ritratta, in quanto soggetto “animato” sottoposto inevitabilmente al movimento. E questo, soprattutto nella pittura “dal vero” con i modelli in presenza, costituiva per il pittore un evidente disagio. Al contrario le “nature morte”, ovvero oggetti, fiori, frutti, in quanto soggetti “statici”, fermi, che permettevano all’artista di ritrarli dal vero molto più agevolmente, per diverso tempo senza mai avere il problema di doverli “immaginare” o rimettere in posa, venivano eseguiti con estrema precisione e per questo riuscivano sempre maggiormente simili al vero.

Ritrarre naturalia era dunque considerato piuttosto “facile”, laddove la facilità non risiedeva tanto nella tecnica pittorica quanto nella comodità di esecuzione. Per tale ragione le nature morte, solitamente di dimensioni ridotte, avevano anche un valore di mercato notevolmente inferiore rispetto ai quadri con figure. Il più delle volte nella loro esecuzione venivano applicati apprendisti di bottega (come lo stesso Caravaggio appena arrivato a Roma) e pittori meno quotati o comunque “specializzati” in quel tipo di raffigurazioni. Tutti artisti la cui carriera difficilmente sarebbe mai decollata, anche perché le nature morte come soggetto commerciale avevano una destinazione esclusivamente privata e dunque senza alcuna eco esterna. Mentre i quadri di storia (soprattutto sacra) con figure, godevano delle committenze più prestigiose e spesso destinate alla visione pubblica.

In quest’ottica, per molti studiosi quella frase che Giustiniani attribuisce al Caravaggio vorrebbe significare l’intenzione del pittore di porre la “natura morta” sullo stesso livello della pittura di storia, religiosa o mitologica, in ogni caso ove fossero presenti figure, sovvertendo in tal modo quell’ideale rinascimentale che aveva sempre messo l’uomo al centro della scena e contribuendo così alla nascita della “natura morta” come genere pittorico vero e proprio.

In realtà tutto questo, più che “intenzione”, per lo stile di Caravaggio fu probabilmente “conseguenza”. Tant’è vero che Bellori, scrivendo parecchi anni dopo la morte del pittore, affermò che quei suoi fiori e frutti erano

“sì bene contraffatti che da lui vennero a frequentarsi a quella maggior vaghezza che tanto oggi diletta”,

dando ad intendere che da quel momento in poi le nature morte cominciarono ad andare di moda anche come soggetto unico.

Altri studiosi hanno voluto interpretare quella frase del Caravaggio come una sua volontà di valorizzare maggiormente l’aspetto pratico della pittura nell’esecuzione di un soggetto fino a quel momento considerato di scarso valore in quanto statico, rispetto al momento creativo e concettuale tipico invece della pittura di storia, che necessita di una composizione complessa e spesso di scene “in movimento”. In tal modo Caravaggio avrebbe azzerato quella gerarchia dei generi che vedeva da sempre la pittura con figure al primo posto.

fig. 1 Canestra di frutta, 1598 ca. Pinacoteca Ambrosiana, Milano

Ma ad avvalorare queste tesi, come giustamente fa notare Giacomo Berra, dovrebbero essere noti nella produzione artistica del Caravaggio, molti più quadri di “natura morta” come soggetto “unico”. E invece i soli di cui abbiamo certezza sono la celeberrima “Canestra di frutta” (fig. 1) della Pinacoteca Ambrosiana e una “Caraffa di mano del Caravaggio di palmi dua” citata nell’inventario del 21 febbraio 1627 del cardinale Francesco Maria del Monte, che però non conosciamo. Tutte le altre nature morte del Caravaggio sono inserite in dipinti con figure. Se davvero l’artista avesse voluto, con quella frase, significare la propria volontà di valorizzare questo tipo di soggetti ne avrebbe probabilmente dipinti molti di più “in solitaria”.

Invece sappiamo dai suoi biografi, e dal Bellori in particolare, che egli sembrava avere pure una certa reticenza nel dipingere fiori e frutti, soprattutto nel periodo in cui, appena arrivato a Roma, fu “dalla necessità costretto” a lavorare a bottega presso diversi pittori, dove evidentemente veniva impiegato per lo più proprio nell’esecuzione di “quadri di devozione” e appunto naturalia. Gli apprendisti o collaboratori, come già accennato, erano spesso impiegati in queste attività considerate “minori”, sia per produrre quadretti di facile commercializzazione, sia su pitture più importanti dove però le figure erano prerogativa esclusiva del “maestro”.

Pare che lo stesso Raffaello nella sua bottega avesse dei collaboratori specializzati a cui delegava la pittura di naturalia per dedicarsi, invece, personalmente alle figure. E stando a quanto dice Bellori, il Cavalier D’Arpino presso cui lavorò il Caravaggio, lo aveva proprio “applicato a dipinger fiori e frutti” con suo “gran rammarico di vedersi tolto alle figure”.

È chiaro che questo per un artista rivoluzionario come il Merisi rappresentava oggettivamente un “limite” alla sua ambizione. Non tanto per un fatto di “preferenza” di un genere pittorico piuttosto che un altro, quanto per una questione più strettamente opportunistica. Ed è forse in questo senso che va inquadrata la frase riportata dal marchese Giustiniani. Caravaggio era consapevole della sua grandezza e il timore di essere relegato ad una attività ed un ruolo secondari, lo indussero forse a chiarire il suo pensiero circa il valore da attribuire ai due generi di pittura. Se i pittori di naturalia erano considerati di “serie B” lui non voleva certo essere annoverato tra questi. Egli giustamente ambiva a più alti onori, alle commissioni pubbliche che gli avrebbero assicurato fama, gloria e lauti guadagni. E come notava qualcuno tra gli studiosi, forse non è un caso che non appena Caravaggio iniziò dipingere opere “pubbliche”, i soggetti naturalistici nei suoi dipinti diminuirono drasticamente.

Dunque con quel suo dire che “tanta manifattura gl’era à far un quadro buono di fiori, come di figure” probabilmente egli volle affermare che occorreva la stessa abilità pittorica, la stessa cura, lo stesso ingegno da parte dell’artista per ottenere un poderoso effetto “realistico” anche nell’esecuzione delle figure umane come delle nature morte.

Volendo forse “sponsorizzare” sé stesso, con quella frase ci tenne a puntualizzare che egli profondeva lo stesso impegno, lo stesso talento in entrambi i generi. Perché se è vero che i naturalia venivano sempre ritratti in maniera meticolosa, precisa, perfettamente aderenti al vero nella resa finale anche dal punto di vista coloristico, è vero pure che altrettanta “manifattura” – leggasi ‘perizia’ – era necessaria per riuscire nello stesso intento con le figure. E invece spesso nei quadri in cui erano presenti entrambi i soggetti (figure e naturalia) la differenza di esecuzione e di resa risultava evidente, con gli elementi naturali sempre molto più realistici rispetto alle figure che rimanevano invece maggiormente idealizzate. Proprio perché il pittore non vi applicava la stessa “attenzione”, sicuro che il soggetto fosse già “vincente” in quanto concettualmente protagonista.

Caravaggio invece si proponeva come artista “completo”, egualmente capace di rendere la figura umana, o comunque animata, con la stessa precisa naturalezza di un soggetto inanimato. L’artista ne diede puntuale e poderosa dimostrazione fin dai suoi primi lavori romani, ad esempio con il “Ragazzo con canestra di frutta” oggi alla Galleria Borghese (fig. 2), o con il “Bacco” degli Uffizi (fig. 3),

e successivamente proprio al marchese Giustiniani con quelle due meraviglie che furono “Amore vincitore” (fig. 4) e il “Suonatore di liuto” (fig. 5)

dove, accanto ai soggetti “statici” (fig. 6 e 7) e per questo perfetti, splendono di assoluto “dinamico” realismo e di altrettanta mirabile perfezione, le straordinarie figure umane del Caravaggio, ritratte dall’artista attraverso un uso sapiente e rivoluzionario del colore e della luce.

E chissà, forse in quella sua frase “ad effetto” c’era anche un’implicita punta di sarcasmo nei confronti del divino Raffaello che si faceva dipingere fiori e frutti dai garzoni… Mentre lui, il “genio” lombardo, faceva tutto da solo e lo faceva incredibilmente bene.

Francesca SARACENO   Roma 22 agosto 2021

BIBLIOGRAFIA

Giacomo Berra, E il Caravaggio disse che “tanta manifattura gl’era à fare un quadro buono di fiori, come di figure” su P. di Loreto (a cura di), L’Arte di vivere l’Arte, “Scritti in onore di Claudio Strinati” etgraphie, Roma 2018 pp. 113 – 129