di Claudio LISTANTI
Per tutti noi italiani, appassionati di musica e frequentatori dei teatri d’opera, recarsi ad assistere agli spettacoli operistici programmati nei paesi di lingua tedesca, Germania e soprattutto Austria, significa entrare in una sorta di ‘Eldorado’ con teatri che funzionano per 300 sere all’anno, dove ogni giorno si può assistere ad un’opera (o balletto) diversa dal giorno precedente per un repertorio che accoglie capolavori appartenenti a tutte le epoche della Storia della Musica.
Una condizione, questa, che stride con l’organizzazione delle stagioni d’opera nostrane che per lo più (anche in momenti lontani dalle restrizioni covid) riescono a proporre un centinaio di spettacoli d’opera l’anno con i teatri che hanno il numero dei giorni di chiusura al pubblico più alto rispetto a quelli in cui è prevista l’apertura.
Tutto ciò è dovuto a due diverse concezioni del fare spettacolo d’opera. Il primo, quello che chiameremo tedesco per comodità ma che è adottato in altre parti del mondo, è strutturato sul modello del ‘teatro stabile’ quindi con una compagnia formata da un nucleo di cantanti e interpreti che si alternano nell’interpretazione dei diversi personaggi appartenenti alle opere inserite nel programma. Gli allestimenti vengono utilizzati per più stagioni ed ogni anno ne sono proposti di nuovi che andranno a far parte integrante del proprio ‘repertorio’ con spettacoli che saranno rappresentati per più stagioni e, ovviamente, sottoposti al giudizio del pubblico. Chi legge queste parole, pensiamo, giunga facilmente alla conclusione che questo tipo di attività riesce a coniugare l’ottimizzazione delle risorse finanziarie on una produzione di spettacoli quantitativamente importante ottenendo anche buoni risultati in termini di qualità delle proposte.
Nel nostro paese, riconosciuto da tutti vera e propria ‘culla’ dell’opera lirica, è in auge una tradizione diversa nell’organizzazione delle stagioni liriche. Nei nostri teatri ormai da anni la rappresentazione di un’opera lirica prevede il concomitante utilizzo di nuovi allestimenti, che per la maggior parte dei casi è utilizzato per poche recite (difficilmente superiori a sei) che porta ad un impegno finanziario rilevante anche se, c’è da dire, che in questi ultimi anni si è scelta una strada più equilibrata, quella delle coproduzioni non solo con teatri italiani ma anche internazionali. A questo aspetto si unisce il problema dei cast vocali i cui componenti provengono dall’esterno per la mancanza di compagnie stabili per giungere ad un numero di recite piuttosto contenuto.
La scelta ‘italiana’ la si può classificare di tipo ‘intellettualistico’ per una frenetica rincorsa alla ‘novità’ che nell’arte è sempre auspicabile ma la ‘novità’ a tutti i costi porta spesso a discutibili realizzazioni nelle quali si impone con una certa frequenza l’ego assoluto di registi e scenografi. Un modo di vedere il teatro rivolto senza dubbio alla ricerca dell’eccellenza, che però non sempre è raggiunta, e ha la controindicazione di essere dedicato più ad un pubblico colto che ad uno ‘popolare’ al quale l’opera lirica, storicamente, si è sempre rivolta.
Per quanto ci riguarda siamo orientati verso il sistema ‘tedesco’ che, magari, può portare a qualche ‘appiattimento’ delle diverse esecuzioni, come molti intellettuali e critici musicali addebitano a questo particolare modo di fare spettacolo ma che ha, come riscontro positivo, il fatto che riesce a coinvolgere un pubblico più vasto e, soprattutto, eterogeneo dedicando una offerta ricca e variegata per stagioni nelle quali sono presenti spettacoli di buon livello e apprezzabili nell’insieme come vogliamo dimostrare riferendo di una edizione di Die Zauberflöte (Il flauto magico) di Wolfgang Amadeus Mozart alla quale abbiamo assistito lo scorso 21 settembre scorso presso il teatro Volksoper di Vienna.
Pur non essendo il primo teatro d’opera di Vienna, ruolo esercitato autorevolmente dalla Wiener Staatsoper, è comunque uno dei teatri più importanti della capitale austriaca, dall’attività operistica più che centenaria, iniziata nel 1904 e organizzata con le caratteristiche organizzative poco prima esposte, per il quale molti grandi interpreti di livello internazionale hanno dedicato la propria arte producendo spettacoli di successo e di richiamo. Oggi alterna rappresentazioni di opere liriche di grande repertorio all’operetta e al musical.
Parlare di una recita di Die Zauberflöte in un teatro tedesco può essere considerata una cartina di tornasole per comprendere la professionalità degli interpreti e la validità dell’esecuzione e della messa in scena di una delle opere più rappresentative della cultura musicale dei paesi di lingua tedesca, opera che in Austria è sicuramente tra le più rappresentate e che occupa una posizione centrale nel repertorio di ogni singolo teatro in special modo alla Volksoper. Da ciò che abbiamo visto ed ascoltato possiamo certamente considerare l’esecuzione valida sotto i molteplici aspetti.
Partiamo dalla messa in scena, affidata al regista Henry Mason, artista di una certa esperienza per le rappresentazioni teatrali, in particolar modo per quelle shakesperiane, che ha concepito uno spettacolo del tutto brillante nell’insieme, curato nei movimenti e nei cambi di scena che ci ha restituito un’azione serrata e, a volte, raffinata.
Come è noto Die Zauberflöte di Mozart procede su due binari separati ma contigui tra loro, caratteristica che in definitiva è la forza intrinseca dell’opera. Si tratta di due elementi: la solennità dell’iniziazione massonica utilizzata con i suoi risvolti simbolici e filosofici e l’elemento favolistico e popolare con le caratteristiche della fiaba a lieto fine. Ci sono personaggi che simboleggiano il potere: la Königin der Nacht (Regina della notte) protetta dalle sue Drei Damen (Tre Damen) e Sarastro ai quali si contrappongono personaggi dallo spirito popolare, non solo la coppia principale Tamino-Pamina ma anche Papageno e Papagena, certamente tutti spiriti semplici. La regia di Henry Mason, nel complesso, rendeva prevalente (e alla fine vincente) quest’ultimo aspetto messo in risalto dalla semplicità dei personaggi.
La scena seguiva questa impostazione. Ambientata nell’Egitto di fine 800 primi 900, nel fulgore della cosiddetta epoca coloniale nella quale erano inseriti i personaggi del ‘potere’ per una ambientazione che aveva come elemento di contrasto la natura quasi ad esaltare quella ‘semplicità’ che può combattere il ‘potere’ messo in evidenza da scene campestri e dalla presenza di numerosi animali soprattutto gli uccelli di Papageno qui rappresentati come pulcinella di mare (Fratercula arctica per la Scienza). Perfino il flauto, simbolo del potere, qui rappresentato ‘animato’, al termine della recita ricopre un ruolo di secondo piano lasciando spazio al trionfo della Natura.
Tale concezione è messa ben in evidenza quando Tamino, nel primo atto, guidato dai ragazzi, giunge di fronte a tre templi, intitolati rispettivamente alla Natura, alla Ragione, e alla Sapienza. Il terzo dei tre dovrebbe avere la centralità ma in questa edizione è quello della Natura che si colloca al centro la cui apertura ci fa scorgere un ambiente sereno, campestre, accogliente e magico, quasi a sottolineare una svolta ‘green’ del dramma con la Natura che trionfa su tutto il resto per la salvezza del mondo e degli uomini.
Per la realizzazione dello spettacolo determinanti sono stati scene e costumi di Jan Meier, eleganti, colorati e fantasiosi al fianco dei quali c’era la realizzazione degli animali e di alcuni personaggi con una affascinante parte realizzata con i burattini il cui design e coaching sono stati affidati alla preziosa arte della neozelandese Rebekah Wild. Valide anche la parte coreografica di Francesc Abós e le suggestive luci di Guido Petzold.
Anche la parte musicale ci ha riservato delle belle soprese ad iniziare dal cast di cantanti, tutti per lo più giovani, composto da artisti appartenenti alla compagnia stabile del teatro. Ad iniziare dal Papageno di Alexander Beauchat sicuro ed incisivo per proseguire con il Tamino di Martin Mitterrutzner tenore dalla voce chiara e ben educata, il Sarastro di Luke Stoker che ha dato al personaggio nobiltà e carattere, così come Karl-Michael Ebner un Monostatos dai modi giustamente ‘terrificanti’. Anche le principali parti femminili si sono rivelate efficaci. La difficilissima e mitica parte della Regina della Notte, appartenente al repertorio del soprano coloratura, è stata affidata a Anna Siminska che ha superato con una certa sicurezza le difficoltà della vertiginosa linea vocale così come valide sono state Rebecca Nelsen Pamina e Lauren Urquhart Papagena entrambe dalla voce molto ben educata. Completavano la compagnia di canto Ulrike Steinsky, Manuela Leonhartsberger e Annely Peebo Le tre Dame, Andreas Mitschke Oratore, Daniel Mitschläger e Christian Drescher Primo e Secondo sacerdote mentre i Drei Knaben erano elementi appartenenti ai Wiener Sängerknaben.
Per quanto riguarda la parte musicale il direttore Gerrit Prießnitz ha offerto una direzione omogena che ha messo ben in risalto sia quelle parti musicali caratterizzate da nobiltà e solennità sia quelle di carattere più popolare e giocose. Il tutto grazie anche alla collaborazione dell’Orchestra della Volksoper e del Coro della Volksoper diretto da Thomas Boettcher ai quali si aggiungevano alcuni elementi dell’Orchestra del Wiener Staatsoper per alcune interventi sulla scena.
Una recita nel complesso piacevole, raffinata e pienamente godibile nell’insieme, rappresentata in un teatro gremito in quanto in Austria le limitazioni all’ingresso degli spettatori sono, al momento, molto più esigue che nel nostro paese ma con controlli accurati e diffusi. Nel pubblico notevolmente numerica era la presenza di bambini e ragazzi che hanno seguito, tutti, con grande interesse e concentrazione tutto l’evolversi dello spettacolo che al termine è stato salutato da lunghi, corposi e sonori applausi a testimonianza di in incondizionato gradimento al quale ci associamo ben volentieri.
Claudio LISTANTI 3 ottobre 2021