di Vitaliano TIBERIA
RICORDO DI ACHILLE PACE
Ho conosciuto Achille Pace nel 1996; mi fu presentato da un altro grande artista, P. Tito Amodei (in arte Tito), perché fosse cooptato nella Pontificia Accademia dei Virtuosi al Pantheon, di cui ero Presidente da un anno. Gentile nei modi, affabile nei colloqui e attento studioso di estetica, Pace era allora al culmine della sua carriera come uno dei maggiori esponenti del polimorfico Astrattismo europeo. Fondatore, con altri artisti, nel 1962, del Gruppo Uno, quindi del Premio Termoli, che tanto ha giovato allo sviluppo dell’arte, Pace era spesso presente in rassegne internazionali (Biennale di Venezia, Quadriennale di Roma) e in mostre importanti, così da divenire un riferimento autorevole per generazioni di artisti.
Achille Pace ha preso le mosse dalla realtà, sublimandola in suggestive forme astratte e contraddicendo, come egli stesso sottolineò, parlando dell’ Informale, «il suo irrazionale groviglio», per approdare a pensieri di chiarezza, veri e coinvolgenti. Schivando i limiti dell’oggettività assoluta, volle affidare la sua indagine soprattutto ad un veicolo inconsueto, il filo, materia leggera, quasi impalpabile, che tuttavia nelle sue tele ha acquistato una tenace forza estetica e suscitato, nello stesso tempo, aspettative di ricostruzioni morali dopo le tragedie spesso patite dall’esistenza.
Quel filo infatti non si esaurisce nella sua estetica sinuosità figurativa, ma scandisce realisticamente presenze polimorfiche e suggestive di colore e si carica di significati simbolici, che favoriscono l’incontro e il riconoscimento di identità appartenute ma dimenticate e pur tuttavia ancora vigenti. E questo perché il filo riannoda e dipana di nuovo tante categorie del pensiero e della realtà: la logica, la misura, l’equilibrio, la relazione, la comunicazione e insomma l’alfa e l’omega, la nascita e la fine.
Una forma di neoaristotelismo che ricapitola esteticamente non solo il singolo dramma esistenziale ma tante aspettative di un’umanità, che, dagli anni Cinquanta, tentò di risorgere dalle tragedie dall’irrazionalismo ideologico, che scelse, anziché il bello naturale, un esoterico vagheggiamento del sublime.
In questo percorso di revisione e di speranza di uscita dal caos ma anche dai linearismi dell’estetica tradizionale, Pace ha guardato con entusiasmo ai raggiungimenti dei grandi Astrattisti, Klee, Mirò, Malevic, Burri, Fontana, che interpretavano da diversi punti di stazione formale le inquietudini e le lacerazioni dell’anima del Novecento.
Il fine è stato l’approdo ad una forma artistica orgogliosa di testimoniare l’icasticità del segno e la potenza seduttiva dell’immagine non dichiarativa ma pur sempre suscitata dalla realtà, così che è possibile pensare ad un’essenza ontologica della sua rappresentazione astratta conseguita con i mezzi tradizionali della pittura. In tal senso, Pace ha ricordato, parlando della sua frequentazione di Mafai, che «tono, luce, spazio erano gli elementi fondanti» del lavoro dell’artista; gli elementi che trasformavano allegoricamente l’irrazionale e le cadute reali in resurrezioni luminose, per giungere ad un punto d’arrivo, che talora si sarebbe congiunto perfino con l’infinito. Il filo di Pace dunque, che non è generato dall’ansia esistenziale della fuga di quello di Arianna, diviene irenica guida poetica sulla tela, dipanandosi fra i colori dai toni e dalle intensità più varie e talora fantasmagoriche.
La ricerca strutturalistica di Pace si orienta così verso quanto si è perduto, lacerato e talvolta riannodato, di quanto si rimpiange e, nonostante il labirinto della vita reale, può ritrovarsi sia nella poetica di un’esistenza rappresentata artisticamente da segni, colori e poesia sia in una “verità” che non è avulsa dai suoi modi espressivi.
La raffinata cultura estetica e l’originalità creativa di Pace attirò l’attenzione di uno dei padri, con Cesare Brandi, della critica estetica contemporanea. «L’ultima riduzione» di Achille Pace «è l’identità di poesia e poetica», osservò Argan, che gli riconobbe così la duplice e rara fisionomia dei grandi della poesia e della pittura.
Se l’estetica contemporanea si è dibattuta fra le inquietudini delle Avanguardie e i vagheggiamenti spettacolari di novità dirompenti, Pace, già dagli anni Sessanta, riteneva, al pari di Cesare Brandi, superate le Avanguardie, proponendo una ricostruzione del significato simbolico della realtà attraverso una decisa ermeneutica degli enigmi del multiforme pensiero contemporaneo e con l’ausilio di una poetica della forma declinata con felice ricchezza di desinenze. E sintetizzava così questo suo pensiero, anche alla luce della teoria della formatività di Luigi Pareyson, per cui l’opera d’arte, formata e formante, è il frutto di un costante processo dinamico:
«[….] l’arte – osservava Pace – è sempre simbolica, procede sempre dal tipo all’archetipo e dunque un filo diventa discorso logico, diventa psiche, diventa pensiero e, naturalmente, tutto questo diventa azione. Quello che è importante è che l’operazione o il concetto operativo parta sempre dall’idea quando si vuole creare. Il concetto deve essere abbinato alla materia creativa perché esso da solo non è sufficiente; […]. Col materiale che adopero le possibilità creative sono molto maggiori di quelle che avrei da un altro materiale […], ma quello che maggiormente mi rappresenta […] è il filo di cotone […]. Esso, nel suo distendersi diventa forma, la forma in fieri, forma formante, forma che è in formazione».
Nel pensiero di Pace si ritrova dunque l’entusiastica conferma del valore della sequenza idea-sensibilità, che, nella storia del pensiero estetico, ha favorito la riscoperta del valore simbolico dei raggiungimenti dell’arte attraverso la perenne e pluralistica dialettica di segno e immagine, di materia e forma.
Vitaliano TIBERIA Roma 3 ottobre 2021.