di Nica FIORI
“Sebbene gli ottocento metri che la separano dalla Sicilia si compiano in meno di dieci minuti di navigazione, ogni volta che ‘si sale’ sull’isola si passa in una diversa dimensione spazio-temporale. Si precipita – o, se preferite, si ascende – ne lu tempu quannu lu tempu nun era tempu. È il tempo di Mozia. Fuori dalla realtà ”.
Ammesso che esistano dei luoghi dove è possibile superare la barriera spazio-temporale, come avviene nei sogni, uno di questi potrebbe essere Mozia, a giudicare dalle parole dell’archeologo Lorenzo Nigro, che da vent’anni dirige la missione archeologica che tanto ha contribuito alla conoscenza di questa città fenicia, sita in una piccola isola nello “Stagnone” di Marsala (in provincia di Trapani). Il luogo lo ha talmente rapito da avergli ispirato il romanzo I genî di Mozia (ed. Il Vomere, 2020), dove il protagonista, che è lo stesso autore, descrive, tra le altre cose, le sue corse in mountain bike con la macchina fotografica e la sacca di tela contenente gli strumenti del suo lavoro (la piccozzina, gli acquerelli e il diario di scavo):
“Sfrecciando attraverso vigneti verdeggianti e argentati uliveti, zigzagando tra le piante e le pietre emergenti di qualche muro che il vento e le piogge hanno riportato alla luce, lungo i muri a secco che nascondono pezzi di statue e di stele fenicie, schiaccio con le ruote i fichi d’India caduti da montagne di pale cresciute aggrappate alle pietre e divenute alte come alberi. Un caleidoscopio di profumi accompagna queste ciclistiche scorribande, mescolando in un’unica essenza odorosa l’aria salmastra ricca di posidonia con l’odore dei fichi maturi, della resina del lentisco e del gelsomino. … Mozia ammalia, inebria, stordisce, culla e fa sognare!”.
Bastano poche frasi dello scrittore-archeologo Nigro per trasmettere al lettore il desiderio di visitare Mozia, ma per chi volesse scoprire anche visivamente le sue impressioni, si aggiunge ora la mostra “I fiori di Mozia”, ospitata dal 18 novembre al 19 dicembre 2021 a Roma nel nuovo Spazio Arti Floreali, nel rione Ponte.
Partendo dai diari redatti a mano dallo studioso nell’arco di 20 anni, con tanto di illustrazioni colorate, è nata l’idea di raccogliere gli acquerelli archeologici di Lorenzo Nigro in un percorso espositivo curato da Lauretta Colonnelli, curatrice anche del catalogo (ed. Il Vomere). I lavori raccontano per immagini sia la storia della ricchissima flora spontanea e coltivata che si ammira sull’isola, sia quella dei ritrovamenti archeologici, e soprattutto le sensazioni che l’archeologo ha provato durante i molteplici soggiorni nei periodi di scavo.
La sua pittura è naïf, quasi fiabesca, con un talentuoso uso del colore. Come scrive la curatrice, Nigro ritrae
“un mondo dove la falce di luna è sempre immensa, gialla o viola o lattescente … il sole che s’inabissa nella linea dell’orizzonte è avvolto nell’arcobaleno, le stelle compaiono nel cielo in pieno giorno, le montagne lontane sulla terraferma trascolorano nel malva, le aree sacre affiorano dai terreni gialli e rosa, le nuvole si gonfiano azzurre nell’azzurro cielo, le agavi sono più alte delle colonne di un tempio e gli acanti più grandi dei capitelli caduti, e gli scarabei scolpiti nel diaspro appaiono massicci come statue accanto alle piantine di menta”.
Uno degli acquerelli che si impone allo sguardo nella galleria romana è Il Tempio di Astarte, nel quale la dea fenicia Astarte, corrispondente alla greca Afrodite, è raffigurata nuda in fondo alla cella, mentre in primo piano sono vivacemente colorate di rosso le due lesene con capitelli a volute (protoeolici), che inquadrano con un architrave l’ingresso.
La stessa dea nuda, che trae spunto dall’immagine di una statuina fittile ritrovata negli scavi, è raffigurata in Astarte e le rose. In questo dipinto, oltre alla varietà di rose di diversi colori, ci colpisce la presenza del segno di Tanit (la corrispondente punica di Astarte, sposa di Baal Hammon), riprodotto ai lati della nicchia che ospita il simulacro, che ricorda una figura umana estremamente stilizzata.
Un segno questo che troviamo anche nell’acquerello Un melograno nel tofet, dove è raffigurato piccolissimo sull’erma di Astarte. Il tofet è un santuario dove i fenici di Mozia seppellivano le urne con i resti dei bambini morti nel parto o in tenera età, che venivano inceneriti insieme ad animali sacrificati e altre offerte, così da garantire loro il rientro nel grembo della madre terra. Quanto al melograno, il suo frutto simboleggiava la fecondità ed era allo stesso tempo legato al mondo dei morti.
Le altre divinità di Mozia, oltre Astarte, sono Ba’al (equiparato al greco Poseidone) e Melqart (equiparato a Eracle).
Il Tempio di Ba’al nell’area sacra del Kothon, scoperto e interamente scavato sotto la direzione di Nigro tra il 2002 e il 2010, è il protagonista di alcuni acquerelli, tra cui Il fico e l’aloe nel Tempio di Ba’al : vi è raffigurata la corte centrale con due stele e un obelisco orientati verso il punto dell’orizzonte dove al solstizio d’inverno sorge, subito dopo il tramonto, la costellazione di Orione, che per i punici era Ba’al Addir (il Signore Potente). Con il termine kothon viene indicato un bacino idrico caratteristico dei porti fenici, ma il kothon di Mozia doveva essere una sorta di piscina sacra, legata a culti locali.
L’acquerello Melqart nei prati di asfodelo raffigura il tempio di Cappiddazzu, dedicato a Melqart, il dio il cui nome è ricordato nella mostra anche nella ricostruzione in 3D di un’iscrizione su pietra in caratteri fenici, da poco ritrovata a Mozia.
La prima nave fenicia raggiunge Mozia è un’affascinante raffigurazione marina che ci ricorda la fondazione della città fenicia nell’VIII secolo a.C. Divenuta florida e potente, la città strinse rapporti con la vicina Erice, che compare nello sfondo di alcuni acquerelli, con Segesta e con altre città greche della Sicilia, finché venne distrutta da Dionisio, tiranno di Siracusa, nel 397 a.C.
Un altro acquerello raffigura Il gelso centenario nella casa delle missioni archeologiche, dove, oltre al gelso con le sue more violacee, notiamo i gechi sulle pareti rosse di quella che è stata la prima casa degli archeologi sull’isola.
Ricordiamo che i primi scavi risalgono a Joseph Isaac Spadafora Whitaker (1850-1936), erede di una famiglia inglese tra le più ricche d’Europa, ma già prima vi era stato un infruttuoso tentativo di scavo da parte di Schliemann, lo scopritore di Troia. Whitaker, che abitava a Palermo, acquistò l’isola agli inizi del Novecento e vi fondò il museo, che ospita attualmente il marmoreo Efebo di Mozia (rinvenuto nel 1979) e gli altri reperti ritrovati sull’isola.
Molti altri dipinti ci incuriosiscono per la presenza di piante suggestive in un paesaggio trasfigurato dalle emozioni del pittore, dalle palme nane ai cactus, dagli acanti alle ferule, dai fichi ai funghi cardoncelli, ma uno in particolare, con un’agave che sta per fiorire, Il fiore del primitivo e il capitello fenicio, mi sembra riassuma nella sua semplicità il mondo incantato di un’isola felice.
Lorenzo Nigro (Roma, 1967) si è appassionato all’archeologia fin da bambino; dopo aver scavato appena laureato a Ebla, in Siria, sotto la guida di Paolo Matthiae, ha in seguito diretto importanti scavi in Giordania e in Palestina, oltre che a Mozia, ed è attualmente professore ordinario di Archeologia e storia dell’arte e archeologia fenicio-punica alla Sapienza di Roma. Oltre agli scritti accademici, ha al suo attivo due romanzi archeologici editi da Il Vomere: Gerico. La Rivoluzione della preistoria (Marsala-Roma 2019) e il già citato I genî di Mozia (Marsala-Roma 2020), dedicati rispettivamente all’età neolitica nella più antica città del mondo e alla saga della Famiglia di Giuseppe Whitaker e al mistero del tesoro di Garibaldi.
Nica FIORI Roma 21 novembre 2021
Spazio Arti Floreali. Roma, vicolo della Campanella 42
Orario: da martedì a sabato ore 16-19,30; domenica ore 11-18 (lunedì chiuso)