di Massimo FRANCUCCI
È sicuramente una sfida ambiziosa il dedicare un’esposizione monografica a un tema tanto forte e fortunato qual è il trionfo di Giuditta sul possente generale Assiro Oloferne, sconfitto dalla bellezza, dall’astuzia della giovane e non dalla forza del nemico.
Il rischio di cadere nel banale, di limitarsi alla sequenza di versioni similari del soggetto, nonché il pericolo di cadere nel ‘già visto’ erano forti, ma sono stati accuratamente evitati dalla mostra curata da Maria Cristina Terzaghi. In effetti l’esposizione ospitata al piano terra di Palazzo Barberini riesce nell’intento di raccontarci una storia, di mettere in luce l’onda d’urto provocata dal capolavoro caravaggesco, mettendo in fila a tal fine una serie di interpretazioni del tema biblico. La prima sala, come argomentato con più ampia estensione nell’agile catalogo, deve dar conto della tradizione iconografica di Giuditta precedente l’allestimento scenografico del Caravaggio, sottolineandone così la forza e la dirompente novità, nonostante qualche presagio del cambiamento imminente fosse già presente nelle opere più antiche.
Queste non potevano però sottrarsi al confronto con interpretazioni illustri del tema, che avevano evitato accuratamente di focalizzarsi sul momento più drammatico della vicenda, la decapitazione, che aveva al massimo trovato spazio in qualche macabra raffigurazione medievale.
Non aveva indugiato su quel momento Mantegna che aveva mostrato asetticamente l’eroina quasi pentita del suo gesto, pronta a rifuggire qualsivoglia contatto visivo con la testa sanguinante affidata all’ancella Abra che la sta infilando in una sacca. Parecchio più risoluta è la Giuditta di Donatello, che ha alzato inesorabilmente la scimitarra e tende il collo del generale nemico tirandolo per i capelli in modo da sferrare con maggior agio il colpo fatale. Al contrario, tutto è già accaduto anche per il Michelangelo della Sistina che dona eleganza alle due donne pronte a celare il macabro trofeo sottratto al corpo nudo e ancora sanguinante di Oloferne.
A Michelangelo guarda Pierfrancesco di Jacopo Foschi, nel cui dipinto l’Assiro è modellato sul Noè ebbro del pittore di Caprese, col corpo ricurvo pronto quasi a ripiegarsi su se stesso, mentre la sua Giuditta deve molto a Donatello e si accinge a dare il colpo di grazia al nemico già sanguinante, che secondo il testo biblico, colpì infatti due volte.
Parecchio truculenta è poi l’interpretazione del soggetto di Lavinia Fontana, la cui presenza in mostra è anche utile a ricordarne il ruolo precipuo nell’aprire nuove opportunità alle pittrici sia a Bologna che a Roma: nella versione in mostra – proveniente da Parma, ma se ne conosce una molto bella alla Walpole Gallery di Londra – la giovane vedova è colta nello slancio necessario a recapitare il capo mozzato di Oloferne all’ancella, mentre particolarmente splatter è la visione del collo sanguinante descritto con brutale realismo. Un taglio netto, di rottura, simile allo sconvolgimento, rapido come un baleno, che giungerà con l’interpretazione di Caravaggio, la cui forza dirompente supererà anche il tentativo del committente, il banchiere Ottavio Costa, di tenere gelosamente l’opera tutta per sé.
La vicenda di Giuditta è una storia di contrasti inconciliabili, dell’ossimorica vittoria dell’apparentemente debole fanciulla sul possente generale, impronosticabile, ma ottenuta dalla giovane vedova facendo affidamento sulla sua avvenenza e sulla sua astuzia che le premette di sfruttare, quasi conoscesse i precetti di Sun Tzu, le debolezze del nemico a suo vantaggio. Con altrettanta prontezza, Caravaggio si rende conto che il momento culminante della scena è la decapitazione e con esso il tema della sorpresa: Oloferne, ancora vivo mentre la lama gli recide il collo, indirizza un ultimo sguardo sgomento alla giovane oggetto della sua bramosia, incredulo che una fanciulla tanto soave sia la causa della sua morte. Il suo volto è deformato da un grido che, sintomo di terrore e di dolore, esprime anche sorpresa e sconcerto: è solo un attimo che fuggirebbe via se non ci fosse stato Caravaggio a fissarlo per sempre sulla tela, affidando come sempre la scena al teatrale uso della luce che fa emergere le figure dallo sfondo scuro e le incornicia col rosso della tenda e col candore delle lenzuola che esaltano il colore vivo del sangue.
La necessità di avere un testimone porta il pittore a divergere dal racconto sacro e a far entrare nella tenda Abra, arcigna cariatide, schifata ma allo stesso tempo attratta dalla violenza della scena, una reazione simile a quella di coloro che attendevano con trepidazione le esecuzioni capitali parecchio frequenti nella Roma del tempo.
È probabile che Caravaggio abbia assistito alla più celebre di queste condanne, la decapitazione della bellissima Beatrice Cenci – il suo presunto ritratto si trova al piano superiore della Galleria – certo che se il pittore vi si è ispirato, spero che il boia fosse stato più abile e rapido della giovane vedova. Sangue, esecuzioni, decapitazioni: anche noi dopo un certo smarrimento nel trovarci immersi in tanta violenza espressa con notevole realismo ci scopriamo infine quasi attratti dal macabro, affascinati dal mistero della morte. Deve essere successo lo stesso ai primi testimoni del capolavoro caravaggesco, tanto che, nonostante la gelosia del Costa, il fragore della novità fu inarrestabile, riverberandosi in tanti dipinti dell’epoca che, quando il dipinto fu riscoperto da Pico Cellini nella collezione di Vincenzo Coppi e segnalato a Roberto Longhi nel 1951, fu da questi riconosciuto come una persona già incontrata. Vent’anni più tardi il dipinto sarebbe stato comperato dallo Stato e destinato alla Galleria di Arte Antica di Roma che a mezzo secolo ne celebra ora degnamente l’acquisizione.
Il confronto tra il capolavoro e le opere che a quel modello si ispiravano contribuisce a sottolinearne la forza e il rigore formale che infonde una monumentalità quasi solenne alle sue figure. In mostra l’affiancano un bel dipinto di Giuseppe Vermiglio che, nonostante abbia chiaramente visto la tela Costa, si mostra meno risoluto del collega nel comporre la scena per inseguire preziosità di gesti e colore;
e una tela della collezione Intesa Sanpaolo. Questa è da mettere in relazione con la nota Giuditta di Tolosa, che dal momento del suo ritrovamento ha fatto molto clamore come è normale per ogni nuova proposta al catalogo del Caravaggio e come ha confermato la recente emersione di un Ecce Homo in Spagna. Per quanto riguarda la Giuditta francese, aluni sono tentati di crederla opera di Finson, forse il suo capolavoro, realizzato rimeditando un prototipo del pittore lombardo, documentato a Napoli nel 1607, anche se il discorso non è affatto chiuso.
Tra gli altri dipinti spicca come sempre Valentin de Boulogne che vira il modello caravaggesco in modo da assecondare la propria sensibilità artistica esaltando il lume del dipinto e i suoi colori terrosi.
Come lui è francese Trophime Bigot, invece interessato soprattutto a sfruttare le novità caravaggesche concentrandosi sugli effetti del lume di candela.
Della fortuna caravaggesca a Napoli è invece testimone Filippo Vitale, mentre lineamenti carichi e incarnati ricchi caratterizzano il dipinto del Maestro dell’Incredulità di San Tommaso recentemente identificato da Francesca Curti con Bartolomeo Mendozzi.
Ma è già il momento di confrontarsi con le versioni del soggetto realizzate da Artemisia Gentileschi, che sembra immedesimarsi sia nella figura dell’eroina biblica per trovare la forza per affrontare un destino avverso, che per lei aveva le sembianze di Agostino Tassi, sia in quella di Oloferne in quanto anche lei sedotta e ingannata, ma al contrario dell’assiro mai vinta e anzi pronta al riscatto.
Le vengono prudentemente affiancati un Baglione particolarmente vigoroso e un’interessante aggiunta al catalogo del ruspante caravaggesco faentino Biagio Manzoni; un
confronto quasi edipico accosta la Giuditta di Artemisia a Palazzo Pitti al nitore di quella di Orazio oggi a Oslo.
La pittrice mostra di aver meditato parecchio sul dipinto del padre, rinunciando alla tornitura plastica di quello, in favore di un maggiore risalto conferito alla lettura psicologica dei personaggi.
La copiosa carrellata di teste mozze prosegue con una gustosa selezione di Giuditte che pone molta attenzione a non soggiacere a cali di qualità; detto questo non si può non rimanere affascinati dalla ricchezza pittorica e protobarocca della macabra messa in scena di Johann Liss,
o dal frutto diretto della ‘Manfrediana Methodus’ che si conserva alla Galleria Corsini di Firenze
o ancora dallo stupendo Novelli le cui figure emergono come apparizioni fantasmagoriche dal fondo scuro. Con Mattia Preti e con Cagnacci il naturalismo sta ormai prendendo altre vie, che
forse avrebbe percorso anche Valentin, se fosse vissuto più a lungo, ma così non è stato: lo sembra suggerire la meravigliosa Giuditta di Tolosa, che ammaliò già il Re Sole.
Massimo FRANCUCCI Roma 28 novembre 2021