di Nica FIORI
Nel Parco Archeologico del Colosseo già da qualche giorno un pallone aerostatico posizionato davanti alla Basilica di Massenzio vuole ricordare il grande archeologo Giacomo Boni (1859-1925), veneziano di nascita e romano d’adozione, protagonista della mostra “Giacomo Boni. L’alba della modernità” (fino al 30 aprile 2022).
La mostra, a cura di Alfonsina Russo, Roberta Alteri, Andrea Paribeni con Patrizia Fortini, Alessio De Cristofaro e Anna De Santis, racconta attraverso quattro sezioni il suo operato tra tradizione e innovazione e ricostruisce il contesto storico in cui operò.
Boni è noto soprattutto per le sue straordinarie scoperte archeologiche a Roma, dove non ancora trentenne si trasferì per entrare nei quadri del Ministero della Pubblica Istruzione e dove nel 1898 gli fu affidata dal ministro Guido Baccelli la direzione degli scavi nel Foro Romano. In precedenza era stato ispettore per i monumenti (in particolare per l’Italia meridionale) per conto del Ministero, e ancora prima, a Venezia, assistente disegnatore nel cantiere di Palazzo Ducale. Si era formato come autodidatta nei cantieri edili e poi come architetto presso l’Accademia di Belle Arti della sua città, dove rientrò solo brevemente in seguito al crollo del campanile di San Marco nel 1902.
Fu a Roma che, per quanto neofita dell’archeologia, mise in pratica metodi innovativi di scavo (basandosi sulle prime esperienze stratigrafiche maturate nel nord Italia), di restauro, di documentazione e di valorizzazione delle scoperte che hanno ridisegnato l’aspetto del Foro Romano prima e in seguito del Palatino. Il tutto condividendo con il grande pubblico il valore di quei risultati sulla stampa, ricorrendo a un linguaggio semplice e alla fotografia, compresa quella aerea ottenuta grazie alle sue ascensioni in mongolfiera.
La sua immersione nel mondo che stava riportando alla luce deve essere stata molto coinvolgente, a giudicare da queste sue parole:
“Vivendo nel Foro, sentii nascere in me l’intimità colle pietre che a prima vista paiono mute e indifferenti”.
Proprio partendo da quelle pietre, “cataste di marmi come reliquie marine dopo la risacca”, e procedendo negli scavi, riuscì a riportare alla luce il Tempio di Vesta, la Fonte di Giuturna, la chiesa medievale di Santa Maria Antiqua, come pure il sepolcreto arcaico lungo la via Sacra, il Lacus Curtius e il sito detto Lapis niger (pietra nera), attribuito alla saga di Romolo, che egli trovò dopo un sogno rivelatore, suscitando qualche perplessità tra gli accademici, che non lo amavano, tanto che Boni scrisse:
“Per giungere alla ‘Tomba di Romolo’ parmi di aver navigato cinque mesi in alto mare, senz’altra bussola che quella della fede. (…) Qualificavano la mia fede come un’allucinazione, mi dileggiavano come il medium archeologico del Foro romano, hanno tentato di farmi allontanare dai monumenti, che amo più di me stesso”.
Per il Palatino, la cui direzione venne accorpata a quella del Foro nel 1907, si ricordano le sue nuove acquisizioni sulla Casa dei Grifi, già individuata in precedenti scavi settecenteschi, il ritrovamento di una cisterna a tholos, in cui credette di riconoscere il Mundus, centro augurale dell’Urbe, e soprattutto i suoi studi sulla flora del colle, interesse che lo accompagnò tutta la vita e di cui resta traccia nell’ordinamento del giardino degli Horti Farnesiani, e in quel roseto dove è sepolto.
Nonostante le importanti acquisizioni scientifiche del suo operato, la fortuna critica di Boni ha avuto alterne vicende e solo dagli anni Settanta del Novecento la sua figura è stata riscoperta e liberata da alcuni stereotipi: pensiamo in particolare al rapporto con Mussolini, per il quale aveva disegnato i fasci e al quale aveva offerto una ritualità che si ricollegava alla sacralità della fondazione di Roma. A poco meno di 100 anni dalla sua morte questa mostra gli rende omaggio collocandolo nello spaccato culturale e politico più ampio dell’Italia unita, dove si discuteva con vis polemica sulle caratteristiche e sulle modalità della conservazione di antichità e monumenti, che oggi chiamiamo “beni culturali”.
Sulle orme del suo mentore John Ruskin, è stato il primo archeologo in Italia a proporre non solo un programma di attività di ricerca e tutela del patrimonio storico-culturale, ma anche una vera e propria “religione dell’antico”, nella quale il passato, depositario di una sapienza eterna e incorrotta, tornava a ricongiungersi idealmente al presente.
Come dichiara la Direttrice del Parco Archeologico del Colosseo Alfonsina Russo nella presentazione della mostra (catalogo Electa):
“L’idea è stata quella di utilizzare l’intera area del Foro Romano e del Palatino come una sorta di palcoscenico integrato, in cui i contesti monumentali costituiscono una specie di teatro interattivo in cui il visitatore può sentirsi protagonista. La personalità di Boni si manifesta pertanto in questa mostra in tutta la sua straordinaria complessità: una personalità eclettica, contraddittoria, visionaria, profondamente spirituale, che della scienza archeologica seppe fare una missione di vita e un viatico, ma anche una bussola, per la comprensione del mondo contemporaneo”.
La prima sezione espositiva, ospitata nel Tempio di Romolo, ripercorre la vita di Giacomo Boni, dagli anni della formazione a Venezia (1879–1888) dove inizia a rapportarsi con la cultura anglosassone, al periodo fortunato degli scavi, alla sua vita da “eremita del Palatino”, alla nomina a senatore nel 1923 fino alla sua morte nel 1925.
Oltre ad alcune fotografie (tra cui quella che lo ritrae nell’assegnazione della laurea ad honorem a Oxford) e ad opere novecentesche di Giovanni Prini, Duilio Cambellotti e Adolfo De Carolis (con il quale aveva collaborato a Villa Blanc, la bellissima villa liberty progettata da Boni sulla via Nomentana), è esposto il pallone frenato utilizzato con straordinaria intuizione da Boni per effettuare le vedute fotografiche degli scavi dall’alto.
Nel Complesso di Santa Maria Nova, dove ha sede il museo forense (o Antiquarium), che riapre al pubblico dopo più di dieci anni, si sviluppa la seconda sezione della mostra, dedicata all’attività archeologica di Boni al Foro Romano.
Ricordiamo che lo stesso museo fu da lui voluto e inaugurato nel 1908 all’interno del chiostro quattrocentesco del complesso monastico. I restauri di allora, avviati proprio per consentire l’esposizione dei reperti ritrovati negli scavi, portarono alla luce non solo le trasformazioni dal Trecento al Settecento del chiostro stesso, ma anche parte della pavimentazione del pronao della cella dedicata alla dea Roma nel Tempio di Venere e Roma.
Tutti elementi che il percorso di mostra oggi ripropone, grazie anche a un recente intervento di manutenzione del complesso e di ristrutturazione delle sale espositive, dove vengono messi in luce i suoi criteri espositivi e riproposti i contesti di scavo.
Ammiriamo in particolare l’insieme delle sculture che decoravano la Fonte di Giuturna, tra cui i Dioscuri affiancati dai loro cavalli, Apollo, Ercole ed Esculapio, il fregio della Basilica Emilia con scene relative alle origini di Roma, i materiali del Lapis niger e della Regia, il sepolcreto arcaico (rinvenuto nei pressi del Tempio di Antonino e Faustina), del quale aveva fatto realizzare un plastico ed esposto ogni singola tomba.
È evidente il principio fondamentale di rispettare l’integrità di ciò che veniva riportato alla luce, come risulta da questa sua frase:
“Il tutto organico, che ha nome sepolcro, comprende la struttura dello scheletro, il suo collocamento, i residui del pasto funebre, dei parentalia e d’altri riti…”.
L’itinerario espositivo prosegue nella chiesa di Santa Maria Antiqua, alle pendici del Palatino, e nell’attigua Rampa Imperiale di età domizianea.
La chiesa venne scoperta da Boni nel 1900 dopo che il terremoto dell’847 ne aveva cancellato per più di 1000 anni le tracce, ma non la memoria. Egli, convinto di trovare qualcosa d’importante, decise di demolire la chiesa secentesca di Santa Maria Liberatrice, che sorgeva lì, per mettere in luce le strutture sottostanti, non senza le polemiche che accompagnarono questa decisione.
L’esito degli scavi superò in realtà tutte le aspettative. Sotto la chiesa demolita venne alla luce l’Oratorio dei Quaranta Martiri di Sebaste, che anticamente costituiva l’Aula di accesso dal Foro alla Rampa Imperiale e, proseguendo con gli scavi, furono scoperte le pareti affrescate della chiesa che nella cosiddetta Cappella di Teodato conservava l’iscrizione “Sanctae Dei Genitricis senperque Birgo Maria qui appellatur Antiqua”.
La chiesa aveva dunque un nome, quello della Vergine Maria che è detta Antica. La riproduzione dell’icona della Vergine (ora nella sacrestia della basilica di Santa Francesca Romana (già Santa Maria Nova) ricorda l’immagine del VI secolo che era ritenuta miracolosa e che era qui venerata.
Alcuni sarcofagi rinvenuti sotto il pavimento della chiesa raffigurano scene cristiane, come per esempio quello con le storie di Giona, ma la cosa più spettacolare è la decorazione ad affresco delle pareti: un palinsesto che va dal VI all’VIII secolo. È evidente il legame con Bisanzio, dovuto soprattutto a Giovanni VII (705-707), un papa greco, che spostò la sede dell’Episcopio dal Laterano al Palatino (collegato a S. Maria Antiqua dalla Rampa Imperiale) e morì in questa sede. Una scoperta questa da cui prende avvio un filone neo-bizantino che investe le arti e l’architettura dell’epoca di Boni.
L’ultima sezione è collocata sul Palatino, nelle Uccelliere Farnesiane, dove Giacomo Boni si ritirò a vivere dal 1910: in una di esse è stato ricostruito il suo studio con un allestimento che ripropone gli arredi originali.
È in questa sezione che emerge il ruolo avuto negli ambienti culturali italiani e cosmopoliti degli inizi del Novecento.
Ben introdotto nei circoli mondani e culturali della capitale – si ricordano i rapporti con il socialismo umanitario romano, costanti dopo il primo incontro nella redazione della “Nuova Antologia” con Giovanni Cena, Sibilla Aleramo, Duilio Cambellotti – e con Eleonora Duse, Ugo Ojetti e Benedetto Croce che lo definirono poeta, e profeta, per la capacità di ricostruire il mito delle origini dell’antica Roma, egli aveva trasformato il suo studio in una sorta di accademia-salotto, dove era circondato da carte, libri, piante, strumenti tecnici di restauro, copie in gesso di sculture antiche.
L’approccio al mondo classico fatto di simboli, rievocazioni, allusioni ai miti è evidente nelle creazioni di alcuni artisti dell’epoca, tra cui Umberto Bottazzi, Cambellotti, De Carolis, Edoardo Dalbono, Antonio Discovolo, Federico Maldarelli, Francesco Netti, Giulio Aristide Sartorio. Spicca in particolare tra le opere esposte la tela di Giorgio de Chirico “Gli archeologi” (1927, Museo Carlo Bilotti), raffigurante manichini senza tempo che riportano alla luce i sogni di de Chirico e i ricordi della sua gioventù in Grecia, mitizzata come un’età dell’oro.
A completamento della mostra, sono posizionati nel parco archeologico dei totem nei luoghi di maggior intervento da parte di Boni, che hanno consentito una nuova lettura dell’area e della storia dell’antica Roma.
L’impressione è che la sua lezione a tutto campo resta oggi più che mai valida, essendosi affermata l’importanza di un approccio multidisciplinare ai contesti storico-archeologici, che Boni, nella sua dimensione di “architetto prestato all’archeologia, lettore dei testi classici aperto alle scienze naturali, tecnico d’avanguardia attratto dal fascino della valorizzazione dei ruderi”, come lo ha definito Daniele Manacorda, coltivò con risultati che indubbiamente invitano alla riflessione e all’ammirazione.
Nica FIORI Roma 19 dicembre 2021
“Giacomo Boni. L’alba della modernità”
Foro Romano e Palatino
Orario: 9.00-16.00 (dal 15 dicembre al 26 marzo), 9.00-18.30 (dal 27 marzo al 30 aprile), chiuso il 25 dicembre e il 1°gennaio. Fino al 30 aprile 2022. Informazioni: http://www.parcodelcolosseo.it