di Silvia CERIO
Qualche mese fa, Herwarth Röttgen (Weimar, 1931) ha felicemente toccato la soglia dei 90 anni.
Con ritardo ma con la consapevolezza di dover comunque esprimere quei sentimenti di gratitudine per gli eventi e le pubblicazioni che il professore di Weimar ha realizzato nel corso di una lunga carriera ricca di soddisfazioni e che hanno segnato gli studi storici artistici a livello internazionale, About Art propone ai suoi lettori e a tutti gli amanti delle belle arti, queste note di Silvia Cerio che, fianco a fianco col grande studioso e con altre straordinarie personalità, visse un’epoca d’oro per l’arte, quando Roma, come nei tempi antichi, era di nuovo il centro focale di ogni attività artistica, e le figure dei più importanti studiosi, mercanti, operatori culturali internazionali incrociavano di continuo i loro cammini dando vita a vicende davvero degne di un libro d’avventure. E’ quindi con vero piacere che pubblichiamo questo contributo che illumina in modo davvero efficace uno scorcio non breve della vita artistica del paese.
Ad Serpentes
Era il 1973 quando, a casa di Italo Faldi, incontrai per la prima volta il Professor Roettgen che, da quel momento in poi, per me sarebbe diventato semplicemente Herwarth. Avevo vent’anni e vivevo il magico momento in cui la gioventù permette il massimo grado di libertà prima dell’inevitabile insorgere dei vincoli dell’età adulta.
Con incosciente baldanza giovanile, accettai l’offerta di tradurre dal tedesco il testo introduttivo al catalogo della mostra sul Cavalier d’Arpino, Giuseppe Cesari, in programma da lì a poco, ad Arpino prima e poi a Roma, nelle sale di Palazzo Venezia.
L’incoscienza e la baldanza devo dire che furono anche quelle di Herwarth il quale, con una di quelle sue tipiche sonore risate, mi affidò un testo che in gran parte era solo nella sua mente e non ancora fermato su un foglio. Fu uno straordinario work in progress: in una camera Herwarth scriveva e la pagina, fresca di composizione, attraversava un corridoio per finire sulla scrivania dove battevo a macchina la traduzione. Visto con gli occhi odierni un lavoro quasi preistorico assuefatti come siamo a ben altri dispositivi tecnologici. Quanto ci siamo divertiti nella fretta, nell’agitazione, nel meraviglioso gioco della cultura, lungamente sedimentata in seri studi la sua, acerba e curiosa la mia. Alla fine riuscimmo nell’intento nonostante buffi scontri tra me e la paludata prosa di Italo Faldi che cercava di volgere il mio italiano sessantottino in una lingua più aulica.
La nostra amicizia si inseriva nel variopinto mondo storico-artistico romano di quel periodo: il ricordo ammanta di melanconico fascino quei primi anni settanta che ci sembrano oggi molto più felici e liberi di quanto lo fossero in realtà pur mantenendo, nel ricordo, un sorriso simile a quello del gatto del Cheshire.
Durante l’inaugurazione della mostra, ad Arpino, giunse un telegramma di felicitazioni indirizzato al “Maestro Giuseppe Cesari” da parte di chissà quale sprovveduto funzionario del ministero: su questo episodio ridemmo a lungo ironizzando sulla longevità della sua fama. Eppure, una notte di quel luglio, di ritorno da una cena da Herwarth, rientravo a casa con il mio compagno Luciano Maranzi quando ci venne incontro un signore sconosciuto dall’accento spagnolo chiedendoci: ”Vive aqui Giuseppe Cesari?” mostrandoci a conferma un foglietto a quadretti con l’indirizzo ed il nome. Ci guardammo allibiti senza avere, però, la prontezza di rispondere che era morto nel 1640… Così come era apparso scomparve girando l’angolo verso piazza Madonna de’ Monti, in una leggera nebbiolina sciroccosa.
Ci venne, allora, in mente che era il 3 luglio e che “Die 3 julii 1640, Josep Caesar Arpinas Eques S.ti Michaelis, pictor aegregius… animam deo reddidit. Degebat ad Serpentes…”.
Noi abitavamo a Via de’ Serpenti, nel palazzo comprato dal nostro pittore nel 1636 come si può ancora vedere dallo stemma sormontato dall’elmo piumato da cavaliere che sovrasta la cornice del portone. Questo episodio “magico” rimase per noi sempre un grande interrogativo, un caso, uno scherzo improbabile, chissà.
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Le estati di quegli anni erano scandite da lunghe passeggiate serali e notturne attraverso un centro storico ancora silenzioso, ombroso ed un po’ fatiscente, con pigre soste nelle vecchie osterie dalle tovaglie di carta di giornale su cui il più artistico di noi abborracciava qualche disegno. In quei mesi caldi migravano a Roma, dai posti più disparati, gli amici stagionali – Tony Clark e Pompeo Batoni, Richard Spear e Domenichino, Steve Pepper e Guido Reni, Erich Schleier e Lanfranco, e quella che mi colpiva in modo particolare, Jennifer Montagu sempre più simile, sigaro compreso, al ritratto di Sylvia von Harden, dipinto da Otto Dix assieme al suo inseparabile Algardi. Gli amici erano gemellarmente uniti agli artisti oggetto dei loro studi: nelle conversazioni, così, si mescolavano le storie personali – mogli, figli, carriere, viaggi – e le novità sulle loro ricerche storiche. Abitavamo con nonchalance epoche differenti in una continua altalena temporale.
Gli storici provenienti dagli Stati Uniti, dalla Germania e dall’Ighilterra si mescolavano agli studiosi con sede a Roma – i privilegiati borsisti dell’Hertziana di cui facevano parte Herwarth e sua moglie Steffi – i riservati storici francesi rintanati nella biblioteca di Palazzo Farnese di cui era nume tutelare Olivier Michel – e gli storici dell’arte italiani alle prese con carriere dal difficile decollo.
Negli anni settanta erano ancora in piena attività meravigliosi personaggi di straordinaria grazia come Giuliano Briganti o cupamente luciferini come Federico Zeri o di alessandrina decadenza come Bruno Mantura. Al contempo, però, si affacciavano alla ribalta raffinati studiosi come Stefano Susinno, Gabriele Borghini o Gigi Spezzaferro, persi ahimé troppo presto, oppure puntigliosi ricercatori quali Valentino Pace e sua moglie Ursula oppure Antonella Pampalone. Tutti disponibili ad un allegro scambio di battute davanti ad un piatto da “Pierluigi” a Piazza de’ Ricci o da “Polda” in Piazza della Quercia.
Poi lentamente l’estate è scivolata nell’autunno e tutti noi ci siamo un po’ persi: la giovinezza è diventata maturità ed è iniziata una diaspora verso impegni universitari o direzionali in musei: insomma la vita “seria”.
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Con la fine della sua borsa di studio all’Hertziana e con il suo ritorno in Germania all’università, ho perso di vista Herwarth per molti anni: abbiamo cambiato compagni di vita – non senza scossoni- ma il ricordo giocoso del passato ci ha fatto reincontrare come se il tempo non avesse scalfito l’affetto di allora.
Marion la moglie di Herwarth e Bruno, mio marito, sono stati i pacificatori delle nostre anime inquiete e ci hanno traghettato fino ad oggi.
Dopo quindici anni, una telefonata rutilante di erre germanicamente arrotolate mi annunciava una sua lunga permanenza sabbatica a Roma: abbiamo, così, avuto modo, in nome dei ricordi, di creare nuove consuetudini davanti ad una fondamentale bottiglia di vino. Partecipe di tali incontri è stato, anche, Mario Bigetti, antiquario fuori dagli schemi, visionario giocoliere dalle intuizioni folgoranti e, soprattutto, fraterno amico di tutti noi. La comune passione per la trouvaille ci ha immerso in lunghe diatribe attribuzionistiche – un gioco sopraffino… Forse gli attuali “puristi.” storcerebbero il naso, ma non eravamo animati dalla presunzione di detenere verità assolute, pensavamo solo di avere la capacità di saper ascoltare quanto la materia, la pennellata ed il colore hanno ancora da raccontarci.
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Ormai siamo in inverno, ma siamo arricchiti da tutto il nostro passato cui possiamo applicare una massima di mio padre: “ Bisogna essere molto seri per divertirsi!”. Noi lo siamo stati, ognuno nella sua professione, ma ci siamo, per questo, anche divertiti molto
Con tanto affetto
Ad Serpentes
Silvia CERIO Roma 19 dicembre 2021