di Rita RANDOLFI
É davvero sorprendente constatare come un brano del Vangelo possa aver costituito più di altri una fonte di ispirazione per artisti e committenti, ancora più incredibile quando il testo si presenta come affatto descrittivo, ma talmente ricco di significato da accendere la più fervida immaginazione per essere trasformato in immagini, che devono necessariamente essere incisive, immediate, come lo scritto da cui sono tratte.
Il brano a cui mi riferisco è quello della vocazione di san Matteo, raccontata in primis dal protagonista al capitolo 9, versetti 9–13, ma che si trova anche nei sinottici Marco, capitolo 2, versetti, 13–17 e Luca, capitolo 5, versetti 27–28.
In poche parole Matteo spiega il suo cambiamento radicale di vita, affidando la narrazione a tre azioni di Gesù che esce, vede, e invita, seguite da due reazioni: Matteo si alza e si pone alla sua sequela. Questo il testo:
«Passando per la via, Gesù vide un uomo, un certo Matteo, il quale stava seduto dietro il banco dove si pagavano le tasse. Gesù disse: ‘Seguimi!’. Quello si alzò e cominciò a seguirlo».
Già prima di Caravaggio altri pittori avevano illustrato tale episodio, da Giusto de’ Menabuoi nel battistero di Padova a Vittore Carpaccio nella scuola degli Schiavoni a Venezia, a Girolamo Muziano nella cappella Mattei dell’Aracoeli a Roma, ma è con la versione del Merisi che la cultura figurativa se ne appropria definitivamente, considerando quella tela un imprescindibile punto di riferimento, sia stilistico che compositivo.
Persino la carriera di un pittore come Niccolò Tornioli, su cui sta per uscire la monografia di chi scrive, deve molto del suo successo futuro alla trattazione di questo argomento[1]. Fu il padre dell’artista, Lorenzo Tornioli, ad ottenere, il 23 novembre del 1634, l’allogazione del quadro dalla dogana di Siena, presso la quale lavorava. Il motivo di tale necessaria intermediazione trova una plausibile giustificazione nei precedenti insuccessi di Niccolò, i cui esordi furono tutt’altro che facili. Infatti lo stendardo processionale che l’artista avrebbe dovuto eseguire per la Compagnia dei Santi Giovannino e Gennaro, forse rappresentante la Predica di san Giovanni Battista, fu completamente ridipinto da Rutilio e Domenco Manetti, e ancora al concorso del 1626 per la realizzazione di una tela con san Carlo per la chiesa di San Rocco, Niccolò si vide scavalcato dal vincitore Ilario Casolani e nel 1633 la pala con l’Estasi del beato Gioacchino Piccolomini, per la basilica di Santa Maria dei Servi, venne eseguita da Rutilio Manetti, di Tornioli resta soltanto un bozzetto.
Lorenzo Tornioli già dal 1627 aveva cominciato a supplicare il magistrato Alfonso Landi, al fine di ottenere la commissione di un quadro per suo figlio. L’incarico non arrivò immediatamente, ma il 23 novembre del 1634, lo stesso Landi propose il tema dell’opera, la Vocazione di san Matteo.
Il Landi era un intenditore d’arte, aveva dato alle stampe la Descrizione del Duomo di Siena, ma doveva essere stato spronato, almeno sulla scelta dell’argomento dell’opera, anche da Francesco Rustici, di cui era zio, in quanto figlio della sorella Pompilia, sposata con Vincenzo Rustici. Il Rustichino è ritenuto il primo maestro del Tornioli, ed Alfonso doveva aver ricevuto garanzie dal nipote. Senza dilungarmi sui diversi pagamenti effettuati al pittore in virtù delle pressanti sollecitazioni del padre, il 22 ottobre del 1637 il quadro era stato finalmente ultimato.
Il 17 novembre del 1637 il governatore di Siena, Leopoldo de’ Medici, ne chiese la perizia a Volumnio Bandinelli, futuro cardinale dell’entourage chigiano, ricordato più tardi da Salvator Rosa come un mecenate ed un raffinato collezionista, e a Giovanni Battista Orlandi, fratello di Benedetto, il più famoso architetto del momento. I due gli risposero il 23 gennaio del 1638, fissandone il prezzo a 150 scudi, costo molto elevato, mai stabilito per un dipinto senese.
Interessante notare come la valutazione comprendesse il lavoro del pittore, ma non le spese per il telaio, la tela, e tanto meno per il prezioso colore oltremare. Tornioli dunque godeva in quel momento di un’alta considerazione, e fu valorizzato per la sua arte ritenuta liberale, dato che le cifre per i materiali furono calcolate a parte.
L’opera, ricordata in primis dal Pecci, fu dettagliatamente descritta dal Gori Gandellini, sul quale si tornerà in seguito, e citata nel 1786 dal Della Valle, nella lettera spedita a don Felice Durando di Villa, consigliere delle Reali Finanze di Torino. Il Lanzi più tardi dichiarò confermandone l’importanza:
«In patria non lasciò quasi al pubblico altra pittura che una Vocazione di San Matteo che vedesi tuttora in dogana».
Il riconoscimento della qualità del dipinto si ebbe nel 1812, quando fu incluso nella lista di opere che dovevano costituire l’erigenda Galleria dell’Accademia di Siena.
Ma per la ricostruzione delle successive vicende che interessarono il quadro, un posto d’onore spetta ad Ettore Romagnoli: questi, infatti, raccontò del furto della tela, avvenuto nel 1808, da parte del ministro superiore della Dogana, il francese Collin de Sussy, il quale:
«Senza dir nulla a persona fece la grand’opera inoltrare e spedire a Livorno, ov’egli abitava; Niuno né allora né dopo fece di tal furto rimostranza, e se io qui non facesse di tal ruberia gallica menzione tra pochi anni dagli amatori si crederebbe, che o la lode data a tal opera dal Della Valle fosse esagerata, o non avesse forse mai esistito l’opera rammentata però da altri scrittori ancora».
Si percepisce da queste righe tutto l’astio dell’autore nei confronti dei francesi, che sottrassero a Siena quello che egli considerava il capolavoro del Tornioli. Inoltre il biografo dimostra di essere perfettamente cosciente della propria responsabilità di storico: non solo era stato un testimone dei fatti accaduti, ma restituì il quadro, che altrimenti sarebbe stato dimenticato o attribuito ad altri, al suo artefice. Dopo aver proposto un paragone tra la situazione di decadenza della pittura senese e quella di Roma al tempo di Diocleziano, Romagnoli si soffermò ad esaltare la Vocazione definita
«Eccellentissima (…) disegnata da gran maestro con molta sveltezza e grandiosità. Il colorito è sul fare di quello di Rutilio, ma più sfumato: nel panneggio è naturale e moderato. Da una banda da un Guerriero, che sembra dipinto dal Rustichino tanto è vivo, e significante: finalmente non vi è parte pittorica in questa grandiosa storia che non sia degnissima di lode, e di ammirazione».
L’entusiasmo del biografo si evince anche dall’aver inserito il dipinto nella terza fase di produzione dell’artista, quella della maturità.
Nonostante i sotterfugi per far partire di nascosto il quadro per la Francia, Collin non lo tenne a lungo per sé, infatti nel 1828 lo donò al marchese de Martainville, in cambio di un ritratto di un suo avo dipinto da Jacques Jean Bigot. Nel 1830 il marchese de Martainville cedette la tela, creduta erroneamente del Valentin, al Musée des Beaux Arts di Rouen, dove si trova tuttora. Soltanto nel 1956 Andor Pigler la restituì al Tornioli, riscuotendo l’approvazione del Rosemberg e degli studiosi successivi.
I documenti riguardanti la commessa, confermano che quando Niccolò licenziò la Vocazione, si trovava già a Roma, dove era giunto, insieme al cardinale Federico IV Borromeo, già dal mese di settembre del 1635, e frequentava la cerchia intellettuale che ruotava attorno all’allora dignitario ecclesiastico Maurizio di Savoia, attraverso il quale entrerà in contatto con altri committenti importanti, i Barberini, gli Spada, il cardinal Ceva.
Ma l’artista, probabilmente aveva già soggiornato nella città eterna, dove la madre, Maria Cassati, di origine romana, possedeva una casa presso la chiesa dell’Angelo Custode, vicino a quella di Teodoro Ameyden, e dunque la sua cultura figurativa si era sicuramente arricchita delle novità che circolavano nell’Urbe. Dal punto di vista compositivo, infatti, il senese dimostra palesemente che il suo punto di partenza è il Caravaggio di San Luigi dei Francesi. Ma rispetto al modello, il pittore introdusse alcune novità, forse non del tutto comprese dal Gori Gandellini, che, come accennato in precedenza, lasciò una descrizione del quadro.
«La parte sinistra del medesimo mostra un fondaco, dove ci sien ragione di traffico, in mezo a cui vi è una tavola, dove si fan dei conteggi, e dei pagamenti di danaro, ed incontro alla medesima vi sono 4 persone. Nella strada in faccia a detto fondaco, che è la parte destra della pittura vi è il Salvatore in piedi, che chiama Matteo, avendo dietro 4 suoi seguaci. Il campo del dipinto in una sua metà mostra il fondaco suddetto, nel di cui fondo innalzate alla parete vi sono delle tavole, sopra le quali vi sono delle carte scritte, e delle persone nell’altra metà, dov’è Gesù coi suoi seguaci mostra l’app.ta compagnia».
L’autore ha compiuto una svista, come chiaramente si intuisce dal seguito della descrizione, dove viene corretto il tiro, poiché inizialmente ha collocato l’ingresso di Gesù dalla parte destra del quadro, mentre in realtà si trova a sinistra, a meno che non si voglia supporre l’utilizzo iniziale di una stampa, considerando che egli ne era un collezionista appassionato.
In ogni caso in Tornioli la fonte evangelica viene rispettata: Cristo passando per la strada intravede Matteo al banco delle imposte, quindi entra e lo chiama.
In Caravaggio la scena si svolge in un ambiente al chiuso come rivelano alcuni dettagli: lo scuro della finestra sulla parete di fondo, infatti, si poteva serrare soltanto dall’interno come suggerisce il gancio che si intravede dal lato opposto del muro, e il fascio di luce proviene da un’altra apertura nascosta agli occhi dell’osservatore, ubicata nell’angolo destro esterno, inoltre una terza fonte di illuminazione, situata ad un livello più basso, investe la schiena di Pietro, il collo ed il volto di Gesù. Va anche sottolineato che sarebbe stato insolito, ma non del tutto anomalo, sistemare un tavolo e delle sedie lungo una strada, il cui mattonato non corrisponde a quello dipinto.
Tuttavia dalle nuove indagini diagnostiche condotte sulla tela Contarelli da parte di Claudio Falcucci e recentemente rese note nel volume di Rossella Vodret [2], anche Caravaggio aveva inizialmente dipinto un’apertura, una sorta di porta di accesso posta tra Cristo ed i personaggi seduti al tavolo insieme a Matteo. Come sottolinea la Vodret nel contratto di allogazione Matteo Contarelli aveva esplicitamente chiesto che Gesù fosse raffigurato mentre, passando per strada, riconosciuto l’esattore, si fermava per chiamarlo. Dunque anche Caravaggio inizialmente si era dimostrato più fedele al racconto evangelico e può darsi che Niccolò, come del resto altri caravaggeschi, conoscesse anche l’invenzione originaria poi modificata, probabilmente per accentuare la drammatcità del momento in virtù di un contrasto più acceso tra la luce della Grazia portata sa Cristo ed il buio della taverna, simbolo del peccato, un po’ come la “Selva oscura” di Dante.
Niccolò che, come risulta dal suo inventario dei beni e da quello del suo primo mecenate Federico IV Borromeo, è autore di alcuni paesaggi, e spesso il paesaggio, come già in Elsheimer, è considerato espressione dei sentimenti dell’animo umano, ha qui voluto rappresentare i concetti di grazia e di fede attraverso la luce naturale, simbolo di quella spirituale, portata da Cristo, alle spalle del quale si apre un bellissimo cielo sfumato nei colori del grigio, rosa, arancio e celeste. E dunque dove si trova Cristo con i suoi discepoli è già presente la luce, ossia la verità, dove è Matteo con i suoi colleghi regna ancora il buio. Solo il futuro apostolo ed i suoi amici, infatti, sono collocati nel chiuso di uno studio e disposti intorno ad un tavolo.
Il luogo non sembra una taverna, come quella merisiana, quanto l’ufficio delle imposte, e lo rivelano gli scaffali che si vedono alle spalle dei personaggi, dove sono ammonticchiati, in maniera alquanto disordinata, altri libri contabili. La cesura e contemporaneamente il collegamento tra le due parti del dipinto sono costituiti dallo stipite della porta-finestra e dal giovane con il cappello piumato che si gira a guardare Gesù, mantenendo una mano sulle monete e stringendo avidamente con l’altra un sacchetto, dove, evidentemente, è contenuto altro denaro. La posizione di questo ragazzo è molto interessante, ricorda il Torso del Belvedere, già preso come modello da vari artisti e dal Merisi stesso, e non solo, come già evidenziato più volte anche nella tela Contarelli. Il ragazzo di spalle, seduto infatti riproduce la medesima postura, genialmente ribaltata da Caravaggio.
Niccolò invece riassume nel suo personaggio, visto in controparte, le pose dei due adolescenti merisiani, di uno riprende l’atteggiamento del corpo seduto su uno sgabello più intagliato rispetto al prototipo, dell’altro il viso investito dalla luce, ma anche l’abbigliamento giocato sui colori dell’ocra e del rosso ed il cappello con le piume. Va notata una certa somiglianza tra il braccio del giovane che si protende sul tavolo a proteggere le monete e quello del San Girolamo di Malta del Merisi, cui sembra rinviare anche la fattura del tavolo. Così il Gori Gandellini:
«In faccia a Matteo, ad a Lui laterale a man destra vi è altro bel giovane seduto sopr’uno sgabello, che gli numerava dei danari, ma che avendo udita la chiamata di Gesù si è voltato con qualche sorpresa per veder chi chiamava tenendo con espressivo moto di vigilanza, e di diffidenza mercantile con la man sinistra la borsa de’ denari, e tenendo coperta con la man destra distesavi sopra la somma che di già aveva posta sopra la tavola per contarsi. Costui si vede tutto di faccia dalli spettatori attesa la sua difficile, ma bella e naturalissima voltatura, mostrando le sue gambe nude con bellissime estremità d’un drappo celeste. I capelli, e gli occhi, gli ha neri, ed ha la testa coperta da un cappellino tondo, da cui pendono due penne, una bianca, ed una rossa in una maniera bizzarra».
Entrambi i pittori, seguendo il racconto evangelico, mettono in evidenza come l’iniziativa, e dunque l’azione, parta da Gesù, che posa il suo sguardo amorevole su Matteo, lo invita e lo inserisce in una comunità, rappresentata dai numerosi apostoli nella tela di Tornioli, e da Pietro, simbolo della chiesa intera, in Caravaggio. In quest’ultimo di Gesù si vedono soltanto il viso, l’aureola sottilissima, e la famosa mano, ulteriormente ingrandita dall’autore, per evocare il passo in cui Isaia afferma al capitolo 59, versetto 1:
«La mano di Dio non è mai troppo corta per salvare».
Gesù, dunque, la cui mano è una citazione di quella dell’Adamo michelangiolesco della cappella Sistina, è presentato come l’uomo nuovo, che ripara con la sua vita donata il peccato commesso dal progenitore e contemporaneamente sollecita in Matteo una conversione, con la premura di chi sa di poter regalare la vera felicità, ma senza imporsi. Il il rosso della manica della tunica rinvia al passo di Giovanni al capitolo 19, versetti 23- 24, in cui i soldati romani vedendo che «era senza cuciture, tessuta tutta di un pezzo, … dissero
“Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca».
Molti teologi si sono interrogati sul significato di questo dettaglio riferito dall’evangelista, che ricorda
«Così si adempiva la Scrittura: Si sono divise le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte»,
giungendo alla conclusione che essa rappresenti l’unità dell’umanità per la quale Cristo si immola, interpretando il sogno del Padre, di poter ripristinare lo stato di grazia della creazione. Caravaggio insiste sulla missione salvifica del Nazzareno, che attraversa l’esistenza di tutti, anche quella di un pubblicano, considerato un infimo approfittatore, in quanto riscuoteva le tasse per conto dei romani invasori, sottraendo però delle somme per sé. E questo viaggio di Gesù per le strade del mondo viene sottolineato dai suoi piedi nudi che si intravedono dietro quelli di Pietro, e sono posizionati come se stessero compiendo un passo in avanti, rafforzando il gesto della mano, l’invito a camminare, ma per un’altra via.
Il senese, in modo certamente meno innovativo, conferisce più importanza alla figura del Messia, forse perché l’artista più che ispirarsi alla pala Contarelli guarda al Gesù della Resurrezione di Lazzaro di Messina, da cui riprende la collocazione sulla sinistra della tela, l’atteggiamento con il braccio teso, e persino l’andamento delle pieghe del mantello. La mano di Cristo viene a situarsi quasi al centro del quadro, sottolineato dal bordo del muro del fondaco, lasciando tuttavia un piccolo spazio tra l’indice e la parete, che sta a significare, forse, quel libero arbitrio lasciato all’uomo, quel sottile margine che divide il bene dal male, da cui dipende il futuro di una persona. Qui Tornioli sembra evocare quel piccolo intervallo tra la mano di Adamo e quella di Dio creatore nel celebre affresco della Sistina, attribuendole un significato simile, lì era la scintilla dell’inizio, che il Padre trasmette al figlio neanche sfiorandolo, qui crea una resurrezione spirituale, una nuova vita, che l’uomo può anche non accogliere. Il messaggio viene colto anche dal Gori Gandellini, che scrisse:
«La posizione del Salvatore con la mano distesa, ed alzata al pari della spalla con le dita calanti, e avete con bella naturalezza fuor che nel dito indice per chiamar Matteo anche col cenno è grandiosa, ed augusta, e nel di Lui volto, che è sublime per quanto si veda per profilo vi si vede la nobiltà, la bontà, la magnanimità, e quel non so ché, che non può comunicarsi con le parole, che incute amore, venerazione e timore. Egli è vestito d’un abito lungo a larghe maniche color di vino chiaro legato nei fianchi con una cintola di colore oscuro, che lo cuopre fino ai piedi, ed ha sopra a questo un amplo mantello di color turchino, con cui tiene la macchina coperta anche dalla parte d’avanti dell’incominciamento del corpo fino ai piedi tenendovi perciò distesa sopra la man sinistra perché non cali più abbasso. Ha i capelli tinti d’un color rosso assai scuro sparsi con bella negligenza senza alcun legame sopra le spalle, e gli si vede l’orecchio scoperto».
Quest’atmosfera sospesa, intrisa di un sentimento come di ansia, in attesa della risposta di Matteo si percepisce da tutta una serie di dettagli, in primis dai piedi di Cristo che più che un passo in avanti indicano una stasi e sono calzati e poi dalle espressioni degli altri discepoli, tra i quali oltre a Pietro, con il libro delle Sacre Scritture e le chiavi penzolanti dalla cinta, si può riconoscere Giovanni, il più giovane, vestito tradizionalmente di rosso e di verde, mentre solleva una mano come per salutare. L’altro apostolo con la barba sembra rivolgere uno sguardo interrogativo al compagno, di cui si vede solo l’orecchio. Forse anche in questi discepoli preoccupati è da scorgere una lontana eco di quelli ritratti a sinistra della Morte della Vergine del Louvre, ma ancor di più nel Tributo della moneta di Manfredi, agli Uffizi e nel Sinite parvulos di Nicolas Tournier alla Galleria Corsini di Roma, da cui sembra essere ripresa la posizione della testa di san Pietro.
Gori Gandellini evidenziava la perizia tecnica dell’artista, i colori, le distanze tra i personaggi, dimenticando di provare a identificare gli apostoli:
«Dietro al Salvatore vi sono quattro suoi seguaci. Uno di questi e alla stessa di Lui linea, ed è un Vecchio in atto di meditare profondamente i Divini portenti che si operano per mezzo del Divino Figlio Umanato. Questo Santo vecchio si vede tutto di faccia dalli spettatori avendo nella man destra un libro, e tenendo la sinistra al petto. Ha i capelli bianchi, e la barba bianca, che ben decorano la sua bell’indole d’uomo Santo e di Spirito per renderlo anche più rispettabile. È vestito d’un abito verde, che lo cuopre fino a terra ed ha sopra a questo un mantello oscuro d’un fondo che pende in color rosso. Dietro a Lui una linea, ed alla sua destra vi è un giovanetto pieno di Letizia, di 22, ò 24 anni, di bella fisionomia, e di belle fattezze, di cui si vede solo la testa, ed una mano dal gomito in su innalzata fino alla sua gota destra toccandosela con la medesima, vedendosi dal primo incominciamento del gomito fino al collo della mano vestito d’un drappo di color ponzò fino vivacissimo. Dietro una linea al Santo stesso alla sua sinistra si vede altra testa significante di vecchio con barba bianca, e capelli bianchi, e si vede tutta di faccia della distanza che passa fra la sua testa, e quella del Salvatore. E nella distanza che passa tra la sua testa, e quella del giovane, che gli è dietro a man destra si vede d’un altr’uomo Discepolo un orecchio, parte di una gota, e parte di capo coperto da capelli color di castagna, scorgendosi dalla situazion cui sono disposte dette parti, che questo è un discepolo intento ad osservarla prodigiosa scena della chiamata di Matteo per quanto egli resti tutto coperto dalle figure che dipinte sono nei pressi a lui anteriori».
Come il maestro lombardo anche Niccolò gioca con il tempo: Gesù e i suoi sono vestiti con tuniche e mantelli all’antica, viceversa Matteo e colleghi indossano capi moderni, a ribadire che quella chiamata continua ad attraversare i secoli e giunge fino al presente dei due autori e oltre.
Ancora il Gori Gandellini riferiva:
«Di primo peso alla man destra delli spettatori vedesi seduto al tavolino un giovane d’alta statura vestito di nobilissimi panni alla guisa che si vedono adesso vestire i Soldati Svizzeri, avente al fianco una lunga spada, ed in capo un cappellino tondo color di Scandazzo ornato con due penne bianche.(…) Costui ha molti capelli neri, e lunghi, che fanno ornamento al suo bell’esteriore, egli ha sparsi senza alcun legame sopra le spalle avendo il collo contornato da una fittissima biancheria, da cui gli cala per un’altezza di 4 dita facendo pompa alla medesima anche nelle mani. Il suo vestiario è di color bianco perlato a 4 lunghe righe gialle, ed ha sopra una coscia il suo mantello di drappo color [scarlatto] di taftano, sopra cui posa una gran fascia dello stesso color di scarlatto, con cui è tinto il suo cappello».
L’identità di Matteo è incontrovertibile non solo per come viene descritto:
«Matteo,( che) avendo intesa la chiamata fattagli dal Salvatore penetrato nel cuore delle Divine parole si è alzato in piedi, ed ha posta la sua man destra aperta sul petto, e la sinistra sopra il Libro dei conti, che è sulla tavola in atto di domandargli se lo ha chiamato mostrandosi prontissimo all’obbedienza. Questo futuro Santo, in cui già ha incominciato a farsi sentire nel cuore della Divina Grazia guarda con gran’espresion di rispetto il Salvatore mostrando al suo aspetto d’essere un uomo di 50 anni. Ha una fisionomia, e proviene tanto a favor suo, che vi si legge l’uomo degno d’essere scelto dall’Onnipotente umanato per esser uno dei suoi Apostoli e per oprar poi tante meraviglie in suo nome. Le sue vestimenta sono di panno tinto di color turchino, ed ei occupa con la sua persona quasi tutto il lato più lungo della tavola dalla sua parte»
ma anche per come gli altri personaggi lo indicano:
«Sopra a Matteo nel lato più corto del tavolino vi è un bel giovane, che parimente si è alzato in piedi guardando il Divino Maestro, ed accennando al medesimo con una mano Matteo in atto di dirgli l’Uomo che bramate è questo. Di questo giovane si vede la figura poco più che dal petto in su. Ha il capo coperto da un cappellino tondo di color nero ornato d’una penna, ed ha in dosso un vestito color celeste».
Gori Gandellini contribuisce indirettamente a risolvere la querelle concernente l’individuazione del santo anche nella pala merisiana. Matteo è il personaggio in abito scuro che indica se stesso, come ho sostenuto anche in passato, e come ribadisce la Vodret nel suo libro e nell’intervista rilasciata proprio alla redazione di questo giornale. Del resto, la studiosa sottolinea giustamente le parole di Bellori:
«…il Santo [Matteo] lasciando di contar le monete, con una mano al petto, si volge al Signore» e la fisionomia dell’apostolo non solo è evidente nelle altre pale Contarelli, ma costituisce il prototipo per tutti quei pittori che tratteranno questo soggetto, compreso il Tornioli. Niccolò varia tuttavia la postura del santo, in piedi invece che seduto, accentuandone l’espressione di stupore.
Nella riduzione del numero dei personaggi intorno al tavolo il senese sminuisce forse il riferimento alle diverse età dell’uomo che qualche studioso ha voluto leggere nel dipinto di Caravaggio, a ribadire che la chiamata di Gesù è rivolta a tutti.
Concludendo si può affermare che Tornioli si guadagnò la fama a partire da un dipinto che in certo senso può considerarsi una rivisitazione in chiave più elegante di una pala che aveva destato lo stupore e l’ammirazione dell’intera Europa e che dal momento della sua collocazione nella cappella Contarelli verrà considerata un punto di riferimento imprescindibile per generazioni di artisti. Restano aperte le questioni riguardanti la formazione del senese che dimostra di conoscere e rielaborare iconografie desunte anche da altri capolavori merisiani, ma l’ipotesi più plausibile sembrerebbe legata alla possibilità che l’artista abbia studiato copie, stampe, piuttosto che compiere viaggi di formazione. In ogni caso è importante sottolineare come l’artista conoscesse la storia della genesi dell’opera del maestro lombardo e abbia voluto attenersi al racconto evangelico.
La descrizione fornita dal Gori Gandellini inoltre ribadisce l’identità del futuro apostolo, che già Bellori e la cultura pittorica secentesca restituiva senza ombra di dubbio, basti pensare che il concetto di vocazione era espresso con quel gesto di indicare se stessi, come accade nella Chiamata di Pietro e Andrea affrescata dal Domenichino nell’abside di Sant’Andrea della Valle o ancora in un quadro, attribuito da Riccardo Lattuada a Luca Giordano.
La storia rocambolesca della Vocazione di Rouen fornisce quindi piccoli dati preziosi per comprendere meglio come i pittori potevano interpretare i capolavori del Caravaggio, che ancora oggi affascinano il mondo.
Rita RANDOLFI Roma 23 dicembre 2021
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