di Maria Cristina CHIUSA
La Vestale Tuccia come allegoria della Castità
Una figura femminile nuda e il putto che l’accompagna, immersi nella semioscurità, sono protagonisti di questa composizione di collezione privata (olio su tela, diametro cm 40 x 30) di grande seduzione e mistero. (Fig. 1) Ma chi è l’affascinante fanciulla che campeggia nella teletta: una dea, un’effigie allegorica, oppure una sacerdotessa?
Il dipinto in esame, ad oggi considerato una raffigurazione della Vestale Tuccia, offre un’iconografia complessa che accomuna indizi riconducibili a tradizioni differenti e in apparente contrasto fra loro.
Nel brano la giovane, in un allungamento verticale assai dinamico che accompagna il ritmo stondato della tela di forma ovale, è ritratta entro un paesaggio notturno del quale è lecito cogliere gli elementi naturalistici e qualche tratto, pur tenue, di un’architettura, un tempio probabilmente. Accanto a lei un putto dall’aria solenne, emblema, forse, della divinità, reca fra le mani uno strumento: si tratta del fatidico setaccio di Tuccia?
Mollemente seduta, quasi semi-sdraiata su di un drappo dorato, ignuda, coperta soltanto da un velo candido e trasparente che le scivola dalla spalla, assume una posa disinibita. Il rametto, di cinnamomo o verbena,[1] si ritiene, che reca nella mano sinistra potrebbe essere indizio utile a confermare che il rituale dell’acqua compiuto da Tuccia si sia concluso felicemente; ma non è del tutto chiaro se l’artista abbia qui inteso ritrarre l’avvio piuttosto che il termine della procedura ordalica.
L’atmosfera notturna, illuminata da quei bagliori iridescenti, quasi filamenti che nel cielo e nelle note paesistiche compongono risentiti chiaroscuri e, ancora, gli oggetti che la circondano, dal tessuto dorato su cui siede alla sfera ove poggia con disinvoltura il piede sinistro, concorrono nel persuadere che la vergine, conclusa da poco la prova dell’acqua, sia in attesa della punizione prevista. Entrano qui in gioco gli strumenti rituali che risulta difficile interpretare, stante una vicenda storico-mitologica che, come questa, si compone di mille sfaccettature derivate da tradizioni differenti: particolare rilievo acquisisce il globo terrestre, simbolo della vanità terrena, che la vestale calpesta con il piede.
La raffigurazione, in una libera interpretazione, dichiara una fruizione specifica dell’antico, ascrivibile ai registri di una tradizione dotta. La civiltà di Roma antica, oggetto nei secoli di un interesse crescente, veniva eletta ad emporio iconografico privilegiato nei vari ambiti artistici; dalla statuaria alla pittura pochi furono gli artisti, italiani e forestieri che non si cimentarono in capitoli di storia, battaglie, dei o eroi dell’universo latino.
Nel quadro dell’arte cinquecentesca il fenomeno conobbe un incremento senza pari, favorito dagli scambi fra i vari artisti nazionali e sovrannazionali, e dai relativi passaggi di cartoni, disegni e dipinti ispirati ai moduli antichi. Il fatidico viaggio a Roma di artefici e conoscitori, alla ricerca delle origini della classicità non fece che assecondare, anche grazie al collezionismo, la diffusione degli episodi della civiltà latina meno conosciuti ai più.
E’ certo il caso della Vestale Tuccia, figura che, un po’ defilata rispetto ai repertori dei viri illustri o delle divinità e degli ordini sacerdotali più noti e frequentati, sembra proposta nel nostro dipinto in una redazione desueta e di rara diffusione. Ma è proprio lei la vergine ritratta? La curiosa iconografia, che si discosta sensibilmente dalle raffigurazioni della vestale, tradizionalmente presentata in un abito degno del suo rango, velata e con un setaccio fra le mani, indurrebbe a qualche dubbio; considerazione valevole per tutte le Vestali.
Tre sono gli elementi che destano sorpresa nel brano: la nudità della protagonista, il putto serioso munito di un setaccio, e il notturno entro il quale si svolge la scena. Plutarco,[2] tuttavia, racconta che era prevista per le vestali incolpevoli una punizione meno grave, la fustigazione, così: “…Talvolta lo stesso pontefice massimo [la] punisce, nuda dietro un velo disteso in un luogo oscuro”.
L’iconografia del dipinto
Il pittore della tela sembra descrivere la vestale del testo di Plutarco, insolitamente ignuda e in attesa della punizione ‘in luogo oscuro’. La composizione, ispirata agli specimini antichi della storia romana e dei relativi risvolti mitologici, è eseguita in una redazione contaminata da ulteriori riferimenti all’universo degli antichi, assai rivisitato in area rinascimentale e tardo rinascimentale.
Ricordiamo come nei secoli la mediazione fra storia e paganesimo e fra paganesimo e cristianesimo favorì la diffusione di una larga schiera di immagini allegoriche, sacerdotesse talvolta, che assumevano un ruolo duplice: uscivano dall’agone fra i Vizi e le Virtù e dalla personificazione delle forze dell’anima rappresentati da Prudenzio nella Psychomachìa. Grande impulso a tale filone veniva reso alla fine del Cinquecento dall’Iconologia di Cesare Ripa,[3] grazie alla quale era possibile comprendere la maggior parte delle allegorie che adornavano chiese e palazzi romani.[4] E come innumerevoli furono le applicazioni di emblemi e di imprese a scopo decorativo, allo stesso modo si moltiplicava l’universo iconologico illustrato da Ripa e dai suoi seguaci.[5]
Lo studioso, (1560?-1625), in ossequio alla teoria dell’Ut pictura poesis dell’Ars poetica di Orazio e di un detto di Simonide di Ceo, riferito da Plutarco, che la pittura è poesia muta e la poesia è pittura parlante, definisce così, ad vocem, la Castità:
‘Donna, vestita di bianco si appoggi ad una Colonna, sopra la quale vi sarà un Crivello pieno d’acqua. In una mano tiene un ramo di Cinnamomo, nell’altra un vaso pieno d’Anella. Sotto alli piedi un Serpente morto, e per terra vi saranno danari, e gioie. Vestesi questa donna di bianco per rappresentare la purità dell’animo, che mantiene questa virtù, e s’appoggia alla colonna, perché non è finto, e apparente, ma durabile e vero. Il Crivello sopra detta colonna per lo gran caso, che successe alla Vergine Vestale è indicio, o simbolo di castità. Il Cinnamomo odorifero, e pretioso dimostra, che non è cosa più pretiosa, e soave; e, nascendo quest’albero nelle rupi, e frà le spine, mostra, che frà le spine della mortificazione di noi stessi, nasce la castità, e particolarmente la verginale. Le Anella sono indicio della castità matrimoniale. Il serpente è la concupiscenza, che continuamente ci stimola per mezzo d’amore. Le Monete, che si tiene sotto a’ piedi danno segno, che il fuggir l’avarizia è conveniente mezzo per conservar la castità…’[6]
Ripa descrive poi la personificazione della Castità nelle singole, mutevoli tipologie. Innegabili e suggestivi , i dettagli del bianco velo, del crivello e del cinnamomo, simboli di castità, ritornano, sia pure con qualche variante, nel nostro dipinto, sovrapponendo alla figura della sacerdotessa romana la personificazione della Castità, qui incarnata da una vergine. Gli attributi infatti delle ‘anella’ e del serpente, evocatori della castità coniugale, sono assenti. Se ne può desumere che l’autore del dipinto accoglie il testo di Cesare Ripa, combinandolo con la storia della Vestale Tuccia.
La Vestale punita: un prototipo trasversale nei secoli
La leggenda di Tuccia, simbolo di pudicizia, ricorre con frequenza, ormai ben fuori dall’età romana, nelle opere letterarie, come conferma un’estesa campionatura,[7] dai Triomphi[8] di Francesco Petrarca che la rende emblema per antonomasia della castità, ai Capitoli amorosi[9] dell’Ariosto.
La sacerdotessa comunemente ‘velata’ fa inoltre capolino in area umanistico-rinascimentale in diverse prove pittoriche, che possiamo dichiarare di nicchia, di artisti italiani oppure no, da Mantegna, a Polidoro da Caravaggio, Maratti e molti altri; frequenti pure i brani scultorei come quello di un allievo di Bandinelli, Giovanni Bandini, che la ritraeva nel corso del quinto decennio del Cinquecento.
Le fonti,[10]dal canto loro, Livio, Valerio Massimo, Dionigi d’Alicarnasso, ed ancora Plinio il Vecchio, Tertulliano e Agostino, tramandano la sua storia, privilegiandone i suggestivi aspetti giuridico-sacrali arcaici. Ingiustamente accusata di aver violato il voto di castità (il cosiddetto incestum),[11] una delle due colpe gravi (con lo spegnimento del fuoco sacro) contestate alle sacerdotesse, chiese di poter dimostrare la propria innocenza grazie a una prova che, con l’aiuto della dea Vesta, prevedeva la raccolta dell’acqua del Tevere in un setaccio. Secondo le tradizioni più accreditate la prova riuscì e Tuccia venne ritenuta innocente: Il suo caso, databile al 236 a.C, si concluse con un’assoluzione. La Vestale, superando la prova ordalica menzionata con il miracoloso intervento di Vesta, diede prova della propria innocenza.
Per le infrazioni ordinarie alle regole era generalmente prevista per le sacerdotesse la frusta: in particolare, qualora una Vestale avesse negligentemente lasciato spegnere il fuoco sacro, sarebbe stata sottoposta, salvo pena più dura, alla fustigazione eseguita per ordine del pontefice massimo da un littore, o personalmente dallo stesso sacerdote, come racconta Plutarco.[12]
La colpevole, subita la punizione fisica, avrebbe dovuto provvedere a riaccendere il fuoco con il procedimento della cosiddetta confricazione, ovvero lo sfregamento di un pezzo di legno tratto da un arbor felix:[13] il fuoco ottenuto veniva portato all’interno dell’aedes su di un crivello di bronzo.
La storia della Vestale è tramandata sia da Valerio Massimo[14] che da Dionigi d’Alicarnasso, che la propone all’interno di un’ampia digressione sui collegi sacerdotali legati alle vicende di Numa Pompilio, coincidenti tradizionalmente con l’istituzione dei culti della città. A una trattazione sulle funzioni delle vestali, seguono alcuni approfondimenti sulla loro castità, sull’importanza del fuoco sacro, e circa la punizione causata dalla violazione dell’obbligo di illibatezza o dallo spegnimento del fuoco.
A detta di Dionigi l’impresa di Tuccia si conclude felicemente con il trasporto dell’acqua al foro, dove la vestale l’avrebbe versata ai piedi dei pontefici.
Il caso acquisiva le caratteristiche delle procedure ordaliche,[15]che, di larga diffusione, ebbero particolare risonanza , fin dai primi decenni del Novecento,[16] negli studi di romanistica francese ispirati alla scuola sociologico-etnografica; più in particolare J. Ph. Lévy sosteneva che nel mondo romano le ordalie «complètement défigurées par le temps, demeurent cachées».[17]
L’acqua e il fuoco sembrano evocare il significato simbolico della nostra storia: il recupero dell’acqua con un setaccio per riparare alla violazione dell’obbligo sacerdotale apre uno scenario ricco di suggestioni che si prestano a una variegata simbologia.
Il fuoco di Vesta rappresentava il focolare comune della civitas, simbolo antico, garante dell’esistenza stessa della comunità politica romana. Doveva pertanto rimanere sempre acceso, fatta eccezione per lo spegnimento rituale alla fine dell’anno. Qualsiasi alterazione della cadenza stabilita avrebbe potuto essere funesta per la comunità, per via di una sentita credenza magico-religiosa collettiva che attribuiva allo spegnimento cattivi presagi. La verginità delle Vestali, deputate a preservare il fuoco sia da presenze umane ostili, che dai nemici naturali come l’acqua, era requisito fondamentale.
S’imponeva dunque la distanza dell’acqua dalla casa di Vesta, che veniva solennemente lavata una volta all’anno soltanto, in occasione della celebrazione dei Vestalia, tra il 7 e il 15 giugno.[18] Ma l’acqua era necessaria ogni giorno, e allora, ( almeno nei tempi più antichi) era compito delle sacerdotesse andarla a raccogliere al Tevere, fuori dalla città, attraverso un percorso che sottolineava l’opposizione fra l’acqua e il fuoco cittadino.[19]
L’operazione si svolgeva con l’ausilio di un vaso (futile), a bocca larga ma a fondo stretto: la forma, idonea a portarlo sul capo con sicurezza, scongiurava il pericolo del rovesciamento dell’acqua e del possibile spegnimento del fuoco sacro che avrebbe indotto il Pontefice Massimo alla punizione della Vestale responsabile.[20]
La struttura stessa del setaccio al contrario, inadatta al buon fine dell’operazione prevista dalla precatio, lo rendeva propizio a maturare il miracolo. Se Tuccia avesse mantenuto la promessa con un vaso, lo scarso rischio non avrebbe conferito valore al gesto, né giustificato un intervento divino a suo favore. Il setaccio soltanto, per la sua struttura, avrebbe testimoniato manifestamente il ‘miracolo’ e dunque la prova dell’innocenza della Vestale.
Tuccia, portando nel setaccio non il fuoco ma l’acqua in un rovesciamento magico del rituale, evoca il rito di restituzione dello stato di purezza. La sua sfida non si limita a rappresentare una scommessa impossibile da vincere secondo le sole leggi di natura, ma legittima, soprattutto agli occhi dei contemporanei, un’inversione dell’atto tipico della Vestale che si reca a prelevare il fuoco direttamente dalla materia naturale solida; ella trasforma in tal modo il cribrum da abituale contenitore di fuoco a provvidenziale raccoglitore d’acqua.
Si riafferma così come in età romana il principio salvifico del fuoco, e la sua conservazione come elemento primordiale di sopravvivenza, si identificasse con il culto di Vesta, nume tutelare del focolare sacro mantenuto perennemente acceso dalle sue sacerdotesse. Le fonti classiche testimoniano come le Vestali fossero considerate una vera e propria emanazione dello Stato, l’emblema politico, in una realtà attenta alla conservazione della specie e dei valori, del nucleo familiare.
Il dipinto invita a prendere in considerazione la fortuna di Vesta e delle Vestali in area cinquecentesca: mettendo a confronto le testimonianze disponibili, l’analisi di alcuni repertori figurativi rinascimentali attesta l’esistenza di numerose sculture denominate Vesta o Vestali all’atto stesso del loro ritrovamento, o all’interno di alcune collezioni. Il censimento di un cospicuo numero di esemplari consente di verificare come molti fossero precedentemente denominati in modo generico ‘divinità sedute’ o ‘figure femminili panneggiate’, oppure Pietas o Pudicitia.
Lo spoglio degli inventari ha consentito di reperire tracce di Vesta e delle Vestali in rilievi, bassorilievi, disegni, incisioni e lastre nelle principali collezioni: la sola Roma ne offriva nel Cinquecento una ricca campionatura,[21] al Belvedere Vaticano, alla Casina di Pio IV, o presso le raccolte degli Altieri, dei Farnese, di Fulvio Orsini, dei Medici e in molte altre; e nel Seicento in quelle dei Ludovisi, Giustiniani, Pamphilj, Chigi etc. E la diffusione va estesa ad altri centri non italiani soltanto.
L’autore del dipinto
Come si è argomentato, il prototipo di Tuccia dai tempi più remoti incontrava nell’Urbe il luogo di maggiore diffusione, ma si trasferiva nei secoli in aree geograficamente lontane che ne importavano gli antichi significati storico-mitologici. Tuttavia, al valore universale della trasmissione dei classici si associa, nel caso presente, lo specimen iconografico ispirato ai princìpi che la Vestale incarna: la pudicizia trionfante, l’autorevolezza delle divinità e del mos maiorum latino, come patrimonio ecumenico e dunque accoglibile in qualsiasi contesto. Prova ne è l’utilizzo di Cesare Ripa che la rende emblema universale della castità: il successo e la grande diffusione delle simbologie da lui proposte ne favorirono l’impiego da parte di una larga schiera di artisti che, come l’autore del dipinto in esame, se ne resero interpreti.
Ciò che potenzia la tenuta qualitativa della nostra teletta è la raffinata soluzione stilistica definita da un sapiente gioco di chiaroscuri che, nel modellare le anatomie, si badi alla muscolatura della Vestale, le esalta con l’utilizzo di un lume radente che scivola con ritmo scaleno dall’alto verso il basso. L’autore del brano dimostra di conoscere da vicino il grande artista che era stato l’interprete primo di tale sapiente dosaggio luministico: il Parmigianino. Una lezione qui filtrata dalle esperienze di altri autori, ma ben viva e presente.
Ancora, l’allungamento sinuoso ed esasperato delle dita delle mani della Vestale, i piedi, quello sinistro in particolare risolto in un ‘non finito’, nel richiamare le peculiarità del maestro di Parma, se ne allontanano poi per affermare la rivisitazione del suo stile, irradiato dalle due generazioni artistiche promotrici della scuola di Fontainebleau.
Se palesi sono i richiami ai bolognesi che avevano dato avvìo, a partire dagli anni Sessanta del Cinquecento, alla straordinaria fioritura della prima école presso la residenza francese al seguito di Francesco I, da Primaticcio, già lì operoso nel 1532, a Prospero Fontana, all’ancora misterioso Roger de Rogery (al secolo Ruggiero de’Ruggieri), altre, differenti suggestioni sollecitano una più attenta revisione.
Il risentito cangiantismo cromatico della tela che sfuma in striature opalescenti di forte impatto visivo, congiunto ad alcuni tratti espressionistici nella declinazione delle morfologie (le mani di Tuccia) sembra citare le modalità pittoriche di Heemskerck, o, più genericamente gli accenti tonali rudolfini e nordici.
Ancora in Italia riconduce il confronto con le testimonianze di Polidoro da Caravaggio, ricordato da Vasari fra i collaboratori di Raffaello. Sempre Vasari[22]nella vita di Polidoro da Caravaggio e Maturino precisa: ‘ Lavorarono in Monte Cavallo vicino a S. Agata una facciata dentrovi infinite e diverse storie, come quando Tuzia vestale porta dal Tevere al tempio l’acqua nel crivello, e quando Claudia tira la nave con la cintura…’.
Se il comune, specifico riferimento iconografico si rivela di interesse, le sigle stilistiche di Polidoro, accertate negli affreschi delle facciate descritte dal biografo aretino, come in altre numerose decorazioni romane, si differenziano da quelle presenti nel nostro dipinto.
In un intenso, tacito eloquio, avvolto nelle tenebre rischiarate da un lume notturnale e dai bagliori rossastri emanati dal piccolo ‘nume’, la Vestale sembra parlare una lingua forestiera, da ricondurre nel milieu della civiltà che si era irradiata a Fontainebleau a partire dagli anni Trenta del XVI secolo. Il pensiero corre a Toussaint Dubreuil, un nuovo Primatice francese,[23] che utilizza i modi di Tibaldi e Nosadella portati in Francia dal suocero, Ruggiero de’Ruggieri, così come Primaticcio, due generazioni innanzi, si era avvalso delle sigle michelangiolesche importate da Antonio Mini.
Gli stilemi compositivi, maggiormente espansi di quelli del maitre di Fontainebleau, la retorica più gonfia e preziosa dei tessuti, ma, soprattutto, il temperamento e le espressioni del carattere degli effigiati del nostro dipinto conducono all’universo grafico e pittorico di Toussaint Dubreuil ( Paris, 1558-1561 – Paris, 1602). Le parole di Antoine de Laval,[24] ‘Invanter e peindre ansamble’, riassumono Il fare di questo artista, primo pittore di Enrico III e poi di Enrico IV.
Dubreuil, ‘exeptionellement intelligent et savant notamment quant au desssin et aux nus’,[25] fu un eccezionale disegnatore: i corpi erano per lui entità fisiche speciali che analizzava nei dettagli esaltandone gli effetti. Data al 1588 il disegno con San Cristoforo,[26] una via di mezzo fra le prove di Michelangelo alla Sistina del 1511 e quelle che Rubens avrebbe svolto fra il primo e il secondo decennio del Seicento.
In un ventennio Dubreuil fece propri gli esiti più significativi dei manieristi attivi in Italia (Michelangelo, Tibaldi, Passerotti) o in Francia (Primaticcio, Niccolò dell’Abate, Antoine Caron) dei quali fu brillante erede, sino a imporsi, su Martin Fréminet et Ambroise Dubois, come incontestato maestro della seconda scuola di Fontainebleau. Alla fine della sua breve carriera, certo influenzata dalla riforma realizzata dai Carracci a Bologna, seppe dar vita a una nuova espressione artistica il cui eloquente nitore avrebbe aperto la strada al classicismo francese di La Hyre, Vouet e Poussin.
Ma ciò che caratterizza il suo stile è una sorprendente passione per l’anatomia e la muscolatura del corpo umano che lo portò a divenire lo specialista del ‘nudo’.
Le imprese decorative delle residenze reali di sua competenza sono oggi quasi interamente perdute, fatta eccezione per qualche frammento: da quelle di Fontainebleau, nella Galerie des Chevreuils, nel Pavillon des poêles (con le scene della storia di Ercole) e nella Galerie de Diane, con battaglie, ritratti reali e scene mitologiche nel soffitto; alla raffigurazione della Franciade di Pierre Ronsard a Saint-Germain-en-Laye, distrutta nel 1777; sino ai ritratti reali e ai soggetti allegorici affrescati nel soffitto con le sembianze del sovrano, alla Petite Galerie del Louvre, parimenti perduta nel 1661.
Se l’arte di Dubreuil risente dell’ispirazione dei manieristi della prima scuola di Fontainebleau, la meticolosità nella rappresentazione e il gusto per il dettaglio richiamano gli accenti nordici. Egli aveva l’abitudine di realizzare i cartoni delle sue composizioni, affidando alla bottega (formata da artisti nordici) il compito di svolgere l’opera dipinta.
E’ a Fontainebleau che egli inizia ad assimilare la cultura emiliana tramite l’opera di Primaticcio e il contatto stretto con Ruggiero de’ Ruggieri che, erede della bottega del maestro bolognese, possedeva due casse di ritratti di Michelangelo: Dubreuil, marito della figlia di Ruggieri,[27] potè forse esaminare quelle pagine.
Occorre poi chiedersi se Dubreuil, come i colleghi E. Dupérac, P. Biard, J. Bunel e M. Fréminet, avesse visitato l’Italia: fu forse passando per l’Emilia che l’artista seppe cogliere la perspicuità, l’analisi del dettaglio nelle soluzioni espanse delle forme, quel modo di potenziare i corpi, l’utilizzo insistito e flessibile della penna che appartennero a Michelangelo? Effettivamente non c’è traccia di Dubreuil in Francia fra il 1585 e il 1593:[28] e proprio al secondo quinquennio degli anni Novanta è possibile datare la nostra teletta. Risultato che lascia scorgere la mano di un abile disegnatore, avvezzo a consegnare disegni quasi dipinti.
Ad un confronto con la suggestiva serie di disegni dell’artista conservata al Louvre, l’occhio corre al Projet de plafond avec l’histoire de Prométhée, ( Fig. 2), la cui data di esecuzione precede, come precisa Cordellier, l’ingresso a Parigi nel 1594 di Enrico IV:[29]questo disegno, ove Ercole è metafora del re, è stato considerato un progetto per un soffitto piatto, o, diversamente, una prima idea, poi abbandonata, per la volta della Petite Galerie del Louvre.
Se la protagonista del nostro brano non trova posto fra le divinità e le allegorie disegnate nella prova grafica, palesi sono le consonanze morfologiche che la collegano alle figure degli dei olimpici e delle personificazioni delle stagioni del foglio parigino. La bella penna che svolge le figure ignude, dinamiche ed allungate, del concilio divino in una soluzione garbata e di grande fascino sembra appartenere alla mano dell’autore del nostro dipinto.
Ma, scorrendo il ricco repertorio del Louvre, altri fogli dichiarano, nelle morfologie, in quella inconfondibile muscolatura, nell’effetto scenografico del chiaroscuro, e in qualche ‘coup de théâtre’[30] la loro stretta parentela con la nostra Vestale. Sarà sufficiente ricordare, per gli altri, i suggestivi disegni con L’Assemblée des dieux et les quatre Ages ( Fig. 3, 4, 5, 6 )[31]:
Dubreuil dà qui prova di una sensibilità cromatica rara, prima di lui, nei progetti decorativi francesi, e della conoscenza dell’arte della prima scuola di Fontainebleau. Ancora una volta alle figure ignude, pur
minuscole, degli dei e delle diverse Età, derivate dalle Metamorfosi di Ovidio, si rivela lecito accostare la nostra effigiata, allegoria anch’essa del mondo latino. Sono le strette affinità stilistiche a dichiararlo: si badi alla muscolatura dei corpi nudi, che, pure nella redazione miniaturizzata del disegno, è comune a quella della vergine del dipinto in esame.
Sempre della nostra figura allegorica sembra parlare il foglio con un Projet de plafond avec le concert des Muses, (Fig. 7[32]), che, attribuito a Dubreuil da Morel d’Arleux, L. Dimier e D. Cordellier,[33] raffigura nell’ottagono centrale le nove Muse, ispirate alle formule stilistiche sviluppate da Primaticcio nella rappresentazione di Apollo con le Muse nella Galleria di Ulisse a Fontainebleau.
La soluzione grafica delle Muse raffigurate ignude e nelle pose più disinibite nel riquadro ottagonale, così come l’orchestrazione dell’intero impianto decorativo, scandito in forme trapezoidali attorno alla sezione centrale ottagona, consuonano con gli stilemi e l’impaginazione della nostra vestale. Se è da scartare l’ipotesi che la teletta in esame sia un bozzetto direttamente collegato con la prova francese, è tuttavia possibile considerarla una derivazione, liberamente svolta, dal disegno.[34]
Da confrontare con il nostro testo sono inoltre i fogli, sempre del Louvre, con Climène recueillie dans la mer par Ino et Glaucus e Hyante montre à Francḉus le vallon où elle lui révèlerà sa descendance (Fig. 8, 9), parte della
serie dedicata da Dubreuil alla Franciade di P. Ronsard. Presso le Chateau-Neuf di Saint-Germain-en-Laye, il nostro artista, nel medesimo luogo in cui, prima di lui nel 1569, aveva lavorato Ruggiero de’ Ruggieri, portò a compimento settantotto dipinti su tela per la Galleria del re, a nord del corpo centrale, quasi tutti dispersi a seguito della distruzione nel 1777 della dimora, tranne sei ad oggi conservati al Louvre, al castello di Fontainebleau e in collezione privata: diciotto disegni di Dubreuil, al Louvre, all’Ecole des Beaux Arts di Parigi e di Besanḉon, e ad Amsterdam,[35] corrispondono alle descrizioni dei dipinti che costituivano la serie.
E’ interessante rilevare come l’interesse per l’epopea classica, latina soprattutto, occupi il primo posto nelle preferenze del re e delle nobiltà francesi: non a caso,[36] fatta eccezione per qualche composizione ispirata alle Metamorfosi di Ovidio, agli eroi della guerra di Troia o ai soggetti allegorici, le opere di Dubreuil raffiguravano Les Quatres livres de la Franciade di Ronsard.
Nel poema, redatto a partire dal 1555 ca. e pubblicato incompiuto nel 1572, Ronsard, con l’intento di creare un’epopea francese di origine romana, sviluppa per il re, Carlo IX, dedicatario dell’opera, il tema della discendenza troiana dei Franchi; vent’anni dopo la disfatta di Troia, Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, sopravvissuto al disastro, ribattezzato Francus da Ronsard, dietro ordine di Giove, inizia un viaggio travagliato, che, paragonabile a quello di Enea, lo condurrà alla conquista della Gallia e alla fondazione della dinastia dei re di Francia. La suggestiva ripresa in veste francese dell’epopea della civiltà latino-italica è indizio di un sensibile interesse e, non di meno, della tendenza degli artefici francesi a divulgarla come un’illustre origine comune.
Nel disegno con Climène, colta in una scena marina, le affinità morfologiche dei corpi nudi, si badi al rilievo dato alle solide e risentite muscolature, con le studiate anatomie di Tuccia sono palesi: pure l’allungamento dinamico di Hyante[37], l’enfasi del panneggio del manto svolazzante dietro la sua spalla mentre mostra a Francus la valle, origine della sua discendenza, declinano con il vivace chiaroscuro un effetto tonale vicino a quello del dipinto oggetto della trattazione.
Un’aria di famiglia sembra accomunare la nostra protagonista ad Amour et Psyché (Fig. 10) raffigurati nel bel disegno del Louvre,[38] la cui iconografia[39]è desunta dalla tipologia derivata dall’incisione del Maître B au Dé (1512 ca.- Roma, 1570) degli affreschi di Perin del Vaga e della sua bottega a Castel Sant’Angelo, e del frontespizio dell’edizione del 1533 de l’Innamoramento di Cupido e Psiche di Niccolò da Correggio. Il fascino delle figure, l’intelligenza dell’impianto spaziale, il sapiente dosaggio chiaroscurale coniugato alla potente resa muscolare, di Amore soprattutto, sono tutti elementi presenti nel nostro dipinto.
Da accostare infine al testo in esame per le strette consonanze è il dipinto con Angélique et Médor,[40] del Louvre. Si osservi l’adesione agli influssi manieristi della prima scuola di Fontainebleau visibili soprattutto nella figura di Angelica, così come nel ritratto della nostra vestale.
Maria Cristina CHIUSA Parma, il 19 gennaio 2018