P d L
Non dovette essere nient’affatto serena e men che meno felice la permanenza romana di Guido Reni se è vero quello che racconta uno dei sui maggiori biografi, Cesare Malvasia. Inizialmente dovette far conto dell’avversione che gli dimostrarono tanto Annibale Carracci che Caravaggio per il fatto che si fosse trasferito a Roma. Così scrive Malvasia:“Ma se non piacque ad Annibale, tanto più spiacque al Caravaggio che temette assai di una nuova maniera, totalmente alla sua opposta, ed altrettanto quanto la sua gradita”. E seppure trascuriamo – in quanto mai avvenuta- la vicenda delle minacce ricevute dal lombardo che lo accusava di avergli sottratto la committenza della nota Crocifissione di San Pietro, è invece appurato che Guido ebbe sovente a lamentarsi (e non fu il solo) per la pressione cui era costantemente sottoposto dai Borghese: “ … dolevasi – scrive il biografo felsineo- di non poter resistere a tal fatica, e protestava lo strapazzo necessario dell’opra … “. Malvasia riferisce anche dei limti culturali di Reni che non amava leggere ed anche meno studiare, che scriveva in modo errato e che, in poche parole “amava la conversazione d’idioti più tosto, semplici, ridicolosi; di novellisti e giocatori”. Quest’ultima notazione illumina sul vizio che conosciamo e che attanagliò l’artista bolognese e non solo alla fine della sua carriera; come infatti ha chiarito Richard Spear :”La dipendenza di Reni era iniziata molto prima, già nel 1612, quando un avvocato coinvolto in un procedimento civile contro dei bari con Reni che era stato truffato per 200 scudi, dichiarò riferendosi all’artista, “che faceva male a giochare; et che lì non haverebbe mai vinto.” Fuggito a Bologna nel maggio 1612, Reni, di cui Malvasia riporta anche l’affermazione secondo la quale “ponendo a sbaraglio la mia salute, ho fatto più del possibile, non che del dovere”, tornò a Roma brevemente, e solo sotto il peso delle minacce, nel 1614 per dipingere la famosa Aurora per Scipione Caffarelli Borghese, in pratica l’ulteriore sviluppo del cosiddetto “periodo ellenico”, inaugurato a partire dal 1611 con la Strage degli Innocenti e durato per i successivi 15 anni, allorquando -secondo Stephen Pepper- fu proprio Reni in questo frangente a stabilire quei principi di coerenza e integrazione nella decorazione che poi sarebbero sfociati nello stile barocco. ( P d L)
Una particolare importanza dunque ha assunto il restauro del capolavoro dipinto a Palazzo Pallavicini, come d’altra parte ci confermano le due protagoniste dell’evento, Fabiola Jatta e Laura Cibrario, non nuove a confrontarsi con l’opera del “divino” Guido, che hanno cortesemente accettato di rispondere alle nostre domande.
1)-E’ stato presentato con il dovuto rilievo all’opinione pubblica il restauro dell’Aurora Pallavicini lo scorso 8 febbraio; potete darci intanto delle informazioni su come è nato il progetto, quando e con chi è stato elaborato e discusso e quando lo avete preso in carico tu e Laura Cibrario ?
R: L’idea di verificare lo stato di conservazione in cui si trovava l’Aurora di Guido Reni è partita dalla Committente, la Principessa Maria Camilla Pallavicini che avendo fatto realizzare un pronto intervento sugli stucchi della cornice da alcune restauratrici, è stata da loro avvisata della presenza di probabili cadute di pellicola pittorica sulla superficie affrescata. La Principessa ci ha quindi chiamato, forse insieme ad altri restauratori, e ci ha messo a disposizione un trabattello per consentirci di verificare le reali condizioni del dipinto. Da questi sopralluoghi ravvicinati e ripetuti, è nata la nostra relazione sullo stato di conservazione del dipinto murale e la nostra proposta di intervento, cui è seguito, su richiesta della Committenza, un primo preventivo, comprensivo dei costi della documentazione grafica, fotografica e di una serie di indagini scientifiche.
2) Una delle caratteristiche che mi paiono tipiche della vostra metodologia di lavoro è che date molta importanza al contesto e alle fonti storiche; nel caso dell’affresco sono molte (ma mi pare che vi siete basate soprattutto sul Malvasia), vi chiedo se in questo caso vi hanno potuto supportare nell’individuare non tanto la precisa realizzazione del lavoro (potete confermare che risale al gennaio 1614 ?) quanto piuttosto come nacque la scelta iconografica.
R: Il nostro modo di avvicinarci a un intervento di restauro, soprattutto se di questa importanza, parte sempre dalla ricerca delle fonti disponibili, siano esse fotografiche, storiche o archivistiche. Nel caso dell’Aurora del Reni, ciò ha voluto dire leggere oltre alle fonti storiche più ovvie (Malvasia, ma anche Passeri, Bellori e in genere i trattatisti che riprendono il racconto della vita dell’artista), gli studi più o meno recenti, partiti dall’analisi dei documenti di archivio coevi, conservati principalmente nell’archivio Borghese in Vaticano o, se posteriori, nell’archivio Pallavicini. Naturalmente, essendo noi restauratrici, la ricerca di archivio è per noi un mezzo e non un fine. Dalle carte studiate e pubblicate da Hibbard, della Pergola, Angela Negro e altri più recenti studiosi, che hanno scandagliato a fondo i documenti disponibili, tre sono le date importanti che consentono di inquadrare l’intervento di Reni tra gennaio e agosto 1614: una lettera del dicembre 1614, scritta dal conte Andrea Barbazzi a Ferdinando Gonzaga, Duca di Mantova di cui il Barbazzi è ambasciatore a Bologna, in cui si dice che all’inizio dell’anno Guido ha dovuto rinunciare al progettato viaggio a Venezia, perché richiamato a Roma dal pontefice per completare i lavori a Montecavallo ; una lettera del febbraio del 1614, in cui lo stesso Reni scrive a Maffeo Barberini, legato pontificio a Bologna, di essere stato richiamato a Roma da Scipione Borghese e il documento di pagamento a Guido Reni per il saldo dei lavori dell’8 agosto 1614.
Dallo studio delle fonti non siamo arrivate a individuare la genesi della scelta iconografica dell’affresco, che forse fu affidata da Scipione al pittore già nel 1612, prima dell’improvvisa partenza dell’artista da Roma. Sebbene la Negro, nel suo volume dedicato, proponga una interessante lettura iconologica che interessa e lega tutti i cicli di affreschi presenti in questa proprietà oggi Pallavicini ma all’epoca Borghese. Percorso che si conclude proprio con l’affresco dell’Aurora che doveva rappresentare il trionfo intellettuale del Cardinal Nepote.
3) Durante la presentazione del restauro, i vostri interventi hanno fatta luce tanto su quelle che erano le condizioni dell’opera dal punto di vista conservativo, quanto sulla tecnica esecutiva di Reni; puoi riassumere brevemente le due cose per i lettori di About Art?
R: Dal punto di vista tecnico le indagini hanno rilevato una tavolozza costituita principalmente di pigmenti compatibili con la calce, la maggior parte di essi sono terre, se si escludono i due blu, del mare (azzurrite) e del vestito della bellissima Ora di schiena (lapislazzuli), un giallo utilizzato per le lumeggiature della veste rossa e giallo cangiante di una delle Ore ( giallolino) e del bianco di piombo utilizzato sul cielo.
Quindi Guido dipinge l’intera opera, realizzata in 25 giornate, con una stesura a fresco, spesso impasta le terre nella calce e applica il colore sull’intonaco ancora fresco; questo espediente gli permette di ottenere dei colori brillanti, quasi lucidi, forse proprio per ottenere quell’effetto di dipinto da cavalletto che gli serviva per inserire a tutti gli effetti un “quadro riportato” nella bella cornice in stucco dorato del Bonvicino. Per rifinire ulteriormente l’opera, che se osservata a 50 cm di distanza è assolutamente perfetta, dettagliatissima e rifinitissima, Guido Reni torna quando l’intonaco è ormai asciutto, con sottili colpi di pennello intinto in un colore legato con un legante crea le ombreggiature sugli incarnati e realizza delle velature sui panneggi e sul paesaggio.
Lo stato di conservazione dell’opera prima del nostro intervento, era discreto; dal punto di vista statico decisamente migliore, infatti la maggior parte dei danni coincidevano con delle interferenze visive provocate da vecchie ridipinture alterate, cadute di pellicola pittorica e fissativi invecchiati stesi nel corso di precedenti interventi di restauro. Abbiamo potuto identificare, sia direttamente sulla superficie del dipinto, che attraverso fonti di archivio, fotografie storiche e memorie di colleghi restauratori, che il dipinto aveva subito almeno tre importanti restauri, realizzati ad una distanza di circa 50 anni tra di loro a partire dal primo del 1849 che si ipotizza possa essere stato eseguito dopo la nota palla di cannone, sparata dall’artiglieria Francese, che colpì il tetto dell’Aurora. Forse fu a seguito di questo evento accidentale che si manifestarono importanti lesioni e danni al supporto murario, danni che resero necessario l’inserimento di 125 grappe in bronzo sotto la superficie dipinta. Nel corso de due interventi successivi venne ulteriormente consolidato il supporto, con nuove grappe e con consolidamenti di profondità. Le 125 stuccature, realizzate sulle altrettante grappe sono state ridipinte più volte, ad ogni intervento la ridipintura si allargava sulla pellicola pittorica originale, venendo a creare degli importanti disturbi alla corretta fruizione dell’opera. I fissativi Alterati e i depositi superficiali hanno fatto il resto, contribuendo ad attutire e appiattire la meravigliosa tavolozza brillante di Guido Reni.
4) Parlando del modo di procedere dell’artista nella stesura dell’affresco mi pare significativo il rilievo che avete giustamente dato all’esempio del torso di Apollo dove scrivete –cito- come “l’artista sia partito dallo studio dal vero della figura umana o dalla rielaborazione di un modello classico”; posso chiedervi intanto se ci sono da sottolineare altri esempi del genere e se ora a lavoro finito quale delle due ipotesi vi sembra prevalente, e semmai perché? Perchè nel caso dell’Aurora a parer vostro è il disegno su cartone che costituisce la vera elaborazione artistica.
R: La sovrapposizione di due fonti di ispirazione diverse, ossia la rielaborazione di un modello classico e lo studio della figura umana sono sicuramente da mettere in relazione con l’apprendistato del giovane Reni, iniziato sotto Calvaert e proseguito, sempre a Bologna, all’Accademia dei Carracci. Certamente l’arrivo a Roma negli anni del Giubileo del 1600 o subito dopo, è per l’artista bolognese deflagrante: l’abbondanza di modelli e fonti di ispirazione derivate dalla statuaria, dai bassorilievi e dalla glittica ecc. ce lo confermano e così va colto il preciso recupero che Reni fa del Fregio delle Danzatrici Borghese, un tempo appartenuto a Scipione ed ora al Louvre. Ma oltre a questo, sono numerosi i lacci che legano, ad esempio, le fisionomie di molti visi reniani con le statue delle Niobidi o con altri bassorilievi.
Il disegno preparatorio, come quello dell’Albertina o quello del Louvre, sono certamente il vero momento creativo per l’artista, che poi integra e procede sviluppando l’idea iniziale e definendola compiutamente nei dettagli, prima di arrivare alla sua trasposizione su muro.
5) Mi chiedo se questo non potrebbe portare a ritenere che in forza proprio dell’uso di cartoni disegnati ci potrebbe essere stato l’intervento di aiuti che invece secondo voi forse proprio non c’è stato o comunque è fortemente ridimensionato.
R: Guido in questo cantiere ha la necessità di dimostrare al committente e a se stesso la propria capacità nel coniugare la testa e la mano, proprio in virtù “dell’inciampo professionale” che ha rappresentato per lui l’episodio, raccontatoci da Malvasia, della critica mossagli per la sua assenza dai ponteggi durante il cantiere della Cappella dell’Annunziata nel Palazzo del Quirinale. L’accusa è di essere lento, caro e poco presente … Quell’episodio che molto probabilmente è quello che spinge il pittore all’abbandono della piazza romana, ha certamente colpito Guido Reni nel profondo ed in questo senso il Casino dell’Aurora rappresenta per lui una occasione di riscatto. Ecco perché secondo noi, il suo impegno è qui in prima persona ed egli si impegna al massimo. Questo non vuol dire che Guido non abbia avuto assistenti, per preparare i colori, stendere la malta e pulire i pennelli, ma la mano che dipinge è sempre e solo una.
6- Quali sono state le parti che hanno comportato le maggiori difficoltà nel lavoro di restauro?; tra queste mi pare le stuccature che coprivano le grappe metalliche; potete riassumere come avete affrontato la questione?
R: Tra le maggiori criticità che abbiamo affrontato nel corso dell’intervento, dopo l’identificazione delle stesure realizzate a secco, che hanno comportato una differente metodologia nella pulitura, sono state quelle legate alla decisione se rimuovere o meno le stuccature di gesso con cui erano ammorsate le grappe e le modalità migliori per la pulitura di un vecchio fissativo alterato, divenuto ormai quasi irreversibile.
Per risolvere questi ostacoli, oltre ad aver richiesto ulteriori indagini scientifiche, mirate a caratterizzare più a fondo i prodotti di alterazione, ci siamo confrontate con i colleghi che, nel caso delle grappe, avevano dovuto fare scelte analoghe sui due grandi cantieri di restauro della Galleria dei Carracci a Palazzo Farnese e sugli affreschi di Raffaello nella Loggia di Psiche alla Farnesina, mentre per il fissativo alterato abbiamo consultato i colleghi dell’ICR e del laboratorio di restauro dei Musei Vaticani. Grazie a questa sinergia siamo riuscite a mettere a punto una metodologia che riteniamo corretta e che ha portato ai migliori risultati possibili con le tecnologie oggi a nostra disposizione. Dopo l’attenta pulitura, che ha permesso di recuperare tante porzioni di pellicola pittorica originale, mascherate sotto strati di ritocchi o di stuccature “allargate”, il grosso impegno è stato dedicato ad un’attenta e puntuale reintegrazione pittorica, realizzata ad acquarello nel totale rispetto di ogni singola pennellata di Guido.
8-Alla fine vi chiedo un giudizio, rifacendomi – mutatis mutandis- a quanto si disse dopo il famoso restauro della Cappella Sistina; com’è noto, per alcuni studiosi di allora il risultato avrebbe comportato una lettura completamente nuova della storia dell’arte, per altri invece il restauro, ‘quel’ restauro, aveva snaturato le vere intenzioni di Michelangelo; ecco vi posso chiedere che giudizio vi aspettate dopo questo importante lavoro?
R: Riteniamo che si tratti di due interventi di restauro molto diversi tra loro, nel caso di Michelangelo, Colalucci, che ha eseguito un intervento egregio e di totale rispetto dell’originale, si trovava di fronte ad un’opera che presentava uno spesso strato di nerofumo dato da anni di illuminazione attraverso le candele, rimosso il quale si sono riscoperti i meravigliosi colori dell’affresco. Eravamo giovani studentesse all’Icr quando andammo in visita sui ponteggi della Sistina e vedemmo con i nostri occhi che la pulitura veniva eseguita con acqua e un tensioattivo. Nel nostro caso la pulitura è stata si importante, ma non così evidente, per il fatto che si trattava di un velo di sporco coerente presente sulla superficie da soli 50 anni. Certamente eliminato il velo grigio, parte del fissativo alterato e le numerosissime ridipinture che andavano ben oltre la lacuna, reintegrate con la massima cura tutte le stuccature presenti sulla superficie, l’opera è tornata ad avere il suo respiro originale. Vogliamo credere che Guido Reni sia soddisfatto di quello che abbiamo fatto ad uno dei suoi più belli e completi dipinti murali romani e che nessuno possa avanzare critiche, perchè quello che si può vedere oggi, dopo il nostro restauro, alzando la testa nel Casino dell’Aurora, si avvicina moltissimo a quello che nel 1614 questo grande artista bolognese realizzava per il Cardinal nepote.
Fabiola JATTA & Laura CIBRARIO Roma 11 febbraio 2022