di Claudio LISTANTI
Tra gli avvenimenti più interessanti di queste ultime settimane c’è stata la riproposta di uno dei capolavori più importanti dell’intera produzione operistica di Giuseppe Verdi: Ernani.
L’iniziativa è nata grazie alla collaborazione di tre importanti città emiliane, Piacenza, Ferrara e Reggio Emilia, centri emblematici per una zona dell’Italia nella quale la passione per l’opera e il melodramma nazionale è tra gli elementi fondamentali della loro tradizione e del loro sviluppo culturale.
Questa proposta ha racchiuso in sé molti punti di interesse, come è emerso nella recita alla quale abbiamo assistito lo scorso 4 febbraio presso il Teatro Comunale di Ferrara e che, in estrema sintesi, si può riassumere non solo come la riproposta di un grande capolavoro che ha vinto tutte le sfide alle quali il passare del tempo lo ha sottoposto ma, anche, valida ribalta per uno dei tenori più grandi e appezzati di oggi, Gregory Kunde, attorno al quale è stato costruito uno spettacolo che, grazie anche all’abbinamento di una valida compagnia di canto, ha focalizzato con forza le caratteristiche del personaggio di Ernani, simbolo del romanticismo in musica. Nel contempo sono state affiancate scelte di carattere esecutivo messe in atto dal direttore Alvise Casellati, che poi analizzeremo, che ne hanno rafforzato la valenza dell’interpretazione assieme ad un allestimento teatrale affidato al regista Gianmaria Aliverta che è riuscito a dare all’azione scenica quei caratteri ‘romantici’ necessari alla riuscita della rappresentazione. Uno spettacolo certamente riuscito che dimostra ancora una volta la validità del ‘teatro lirico di provincia’ termine che noi non usiamo in senso dispregiativo ma, al contrario, conferma di una modalità di proporre l’Opera come fenomeno di carattere popolare che ne esalta le sue radici ‘sociali’ ed essere, incontrovertibilmente, una delle eccellenze italiane.
Ernani di Giuseppe Verdi è una delle opere ‘cardine’ del percorso creativo del musicista con la quale inaugura la sua cifra stilistica che, con inesauribile progressione, lo condurrà fino ai capolavori della vecchiaia. Siamo nel 1844. Verdi dopo I lombardi alla Prima Crociata, che segna il limite della sua prima parte della carriera, era alla ricerca di nuove strade da percorrere che portassero ad una innovazione del suo stile. Le prime quattro opere erano, per lo più, ispirate a moduli compositivi dei primi anni dell’800 che avevano in Rossini, Bellini e Donizetti i rappresentanti più illustri. Si rendeva, quindi, necessario un cambiamento. Infatti è proprio in quegli anni che Verdi pensò a Re Lear, un progetto a cui perseguì per tutta la vita senza giungere però ad una finalizzazione.
Nel 1830 Victor Hugo rappresentò Hernani, un dramma rivoluzionario nato come contrasto alle convenzioni accademiche francesi fino ad allora in uso, tramite l’adozione di un verso libero che racconti fatti basati su fonti storiche ritornando sulle tracce di genii come Shakespeare e Schiller. Verdi fu colpito da questo testo teatrale e si convinse sempre di più ad adottarlo. Una convinzione ottenuta, anche, grazie ad Alvise Francesco Mocenigo che allora guidava La Fenice di Venezia, teatro nella quale fu rappresentato il cui soggetto, con adeguati adattamenti, non ebbe particolari difficoltà ad essere approvato dalla censura.
Questa circostanza permise il primo vero cambiamento nella vita artistica del musicista: la separazione dal Teatro alla Scala la cui organizzazione interna e i cantanti disponibili erano giudicati da Verdi inadeguati alle sue esigenze di compositore. Se togliamo la Giovanna d’Arco del 1845 solo 42 anni dopo, nel 1887 con Otello, il teatro milanese tornò ad ospitare prime assolute del musicista bussetano ad eccezione di alcune ‘prime italiane’ di opere prodotte per teatri esteri (Aida, Forza del Destino). Un aspetto questo che stride con il sentire comune che vuole Verdi indiscutibilmente legato alla Scala.
Nel contratto stipulato per Ernani alla Fenice, Verdi ottiene altri elementi indiscutibili di autonomia. In primis quello di scegliere direttamente il librettista sulla base di soggetti da lui stesso proposti e non, come nelle prime opere, accettare un libretto già predisposto sul quale poi doveva costruire una partitura. Appare così un altro personaggio importante per le sue opere, il librettista Francesco Maria Piave, allora molto giovane e alle prime esperienze. Piave scriverà per Verdi ben 9 libretti, più di ogni altro librettista, e sarà la personalità ideale per il musicista che esponeva le sue necessità letterarie e il Piave da abile versificatore sapeva porre in versi quanto richiestogli. Inoltre era disponibile per qualsiasi cambiamento, sostituzione di versi, tagli e inserimenti di scena o di parte di esse. L’opera in gestazione veniva così ‘modellata’ riducendo al minimo le discussioni o le diatribe che spesso nascevano tra poeta e musicista. L’altra libertà era l’autonomia sulla scelta dei cantanti che Verdi, molto esigente sotto questo aspetto, pretendeva affini alla linea vocale immaginata per ‘rappresentare’ la personalità di ogni personaggio. Viene con sé, quindi, che Ernani segna l’inizio di una non molto velata ‘rivoluzione’ che porterà negli anni alla definizione del teatro musicale di Verdi.
L’altra caratteristica importante di Ernani è che Verdi stabilisce, con essa, i modelli dei personaggi maschili che saranno adottati in molte sua creazioni. In Ernani, i tre principali ruoli maschili, possono essere considerati veri e propri prototipi. Il protagonista Ernani è il tenore-eroe-innamorato che avrà poi molti simili nella produzione verdiana così come la parte del baritono, Don Carlo, personaggio nobile d’animo, spesso amante non corrisposto, al quale viene sempre dedicata una linea di canto aristocratica e suadente per finire con il ruolo del basso, Silva, vero ‘precursore’ di parti mitiche come Fiesco, Procida o Banco.
Ernani con la sua azione che bilancia impulsi amorosi a moti d’onore ai quali si aggiungono anche sentimenti di carattere eroico possiede un incontrastato, quanto incontenibile, spirito romantico dovuto non solo ai brani solistici ma anche ai numerosi pezzi d’insieme inseriti come duetti e terzetti per giungere al grandioso atto terzo dove la fusione tra coro e solisti giunge ad una coralità di alto livello di coinvolgimento. Inoltre, con esso, si materializza anche quello stile ‘risorgimentale’ che ha caratterizzato Verdi con riflessi fino a Un Ballo in maschera e che avrà risvolti esaltanti in Attila e Battaglia di Legnano. Racchiuso in una cornice di carattere storico, Ernani, conquistò il pubblico fin dalla prima veneziana del 9 marzo 1844 per rimanere stabilmente in repertorio fino ai nostri giorni; pur appartenendo agli ‘anni di galera’ di Verdi, resistendo anche alle smanie innovative del periodo cosiddetto ‘verista’ non è stato dimenticato e, quindi, non ha avuto la necessità di essere inserito in quel processo di ripescaggio al quale sono stati sottoposti, specialmente nel secondo dopoguerra, molte opere di quel particolare periodo creativo verdiano.
Queste premesse sono utili per giudicare con più efficacia la recita di Ernani ascoltata a Ferrara il 4 febbraio scorso. Il pregio principale di questa esecuzione è stata quella di affidare la parte principale ad un tenore come Gregory Kunde, artista a nostro modo di vedere ideale per rinnovare quell’afflato romantico che caratterizza il personaggio di Ernani. Il tenore statunitense è uno dei più apprezzati al mondo, sempre sulla cresta dell’onda sin dall’inizio negli anni ’80 del 900. Ha avuto la possibilità di ampliare la sua esperienza lavorando con cantanti e direttori d’orchestra di grande fama scegliendo con cautela il repertorio da affrontare per interpretazioni avvenute per gradi senza sovrapposizioni o forzature. Grande interprete del Belcanto, ricordato per le sue interpretazioni rossiniane e belliniane, considerato da parti della critica come erede di un cantante come poteva essere Giovanni Battista Rubini, per la sua limpida voce, per la facilità di emissione e la realizzazione degli abbellimenti, per l’estensione della voce che dal registro acuto riesce a scendere con facilità fino ai gravi. È arrivato a Verdi negli ultimi anni della carriera con risultati spesso entusiasmanti.
Lo spettacolo è stato costruito intorno a lui ed arricchito da una scelta di carattere storico-musicologico, prima accennata, che è stata apprezzata dal pubblico. Si tratta dell’adozione del finale del secondo atto che Verdi scrisse per il tenore Nikolaj Ivanov al quale riservò una scena alternativa che sostituisce il duetto con coro della edizione della prima veneziana. Si tratta dell’aria ‘Odi il voto, o grande Iddio’ che sfocia nella cabaletta ‘Sprezzo la vita: – né più mi alletta’. La scelta di Verdi nacque da una richiesta specifica di Rossini che in vista di una esecuzione al Teatro Ducale di Parma nel novembre del 1844, riuscì a convincere Verdi ad intraprendere l’operazione spendendo al musicista una lettera dalla quale si possono apprendere alcuni dettagli: “A norma del convenuto vi unisco a questa mia la poesia di Piave composta per Ernani, poesia che voi sapete da valente qual siete vestire di bella musica e così far felice il mio buon Ivanoff”. Una prassi, questa, spesso adottata all’epoca anche in presenza di artisti come Verdi, restii a forzature. Prima dell’esecuzione avvenuta a Parma il 26 dicembre del 1844 Ivanov si recò a Milano da Verdi per studiare con l’autore questo brano. Rossini ringraziò Verdi nel gennaio del 1845 con una lunga lettera specificando che Ivanov:
“… si trova beato di avere il possesso di un componimento che le ha valso un brillante successo a Parma” – inviando acclusa una – “… cambialetta di Lire austriache 1500, che aggradirete non già come pagamento del vostro lavoro che troppo meriterebbe, ma come semplice tratto di riconoscenza da parte di Ivanoff, restando a me solo tutta l’obbligazione verso di voi che stimo ed amo”.
Questa scelta ha contributo ad arricchire tutta l’interpretazione di Gregory Kunde in quanto ne ha consentito di mettere in risalto il suo tipo di voce che presenta oggi, nonostante la lunga carriera, una notevole ‘freschezza’ di base che l’ottima tecnica di canto del tenore riesce a plasmare con estrema efficacia, consentendogli di arrivare senza palesi sforzi sulle vette del registro acuto abbinando l’efficace realizzazione di tutti gli abbellimenti contenuti in questa pagina di virtuosismo ottocentesco. Ascoltare Kunde ci regala un senso di sicurezza nelle emissioni, sia nel registro acuto che in quello più grave, esaltata da un volume di grande spessore, una interpretazione resa ancor più avvincente dalla, pressoché, perfetta pronuncia italiana che per uno statunitense è certamente un elemento sorprendente. Questa edizione di Ernani ha ulteriormente arricchito il repertorio di Kunde, aggiungendo un’importante freccia al suo arco, quella di aver interpretato dal vivo, in teatro, quest’opera verdiana con il finale alternativo, un fatto che pochissimi tenori possono vantare. In definitiva un Ernani permeato da un indiscutibile gusto ottocentesco.
Attorno a Kunde è stata allestita una buona compagnia di canto. Nella parte di Don Carlo c’era il baritono Ernesto Petti che ha dato al personaggio la necessaria nobiltà grazie ad un impianto vocale che ci sembra adatto alle caratteristiche del baritono verdiano, esibendo anche appezzabili sfumature come nell’aria ‘Vieni meco, sol di rose’ del secondo atto così come valido è risultato il suo contributo nel resto dell’opera per una interpretazione che, però, mette in evidenza una certa ‘immaturità’ di base. Vista la sua giovane età ed il mezzo vocale di cui dispone, può tranquillamente maturare con la progressiva acquisizione di esperienza.
Analogo discorso per il Silva di Giovanni Battista Parodi, penalizzato anche dal fatto di essere stato chiamato qualche giorno prima a sostituire il cantante previsto per la recita, alla quale però ha dato il necessario e incisivo apporto. Chiudiamo con Elvira affidata al soprano Francesca Dotto. Elvira è una delle parti più difficili dell’intero catalogo verdiano. Scritta per il soprano tedesco Sophie Löwe, all’epoca apprezzato soprano drammatico di agilità, anche se Verdi non fu soddisfatto alla prima assoluta della sua Elvira, ebbe comunque un repertorio nel quale figuravano molti personaggi femminili del ‘primo Verdi’ che, contrariamente alle parti maschili, già presentavano i contorni del soprano che Verdi voleva per i suoi personaggi femminili, dalla voce scura che riusciva a raggiungere agevolmente il registro acuto, una vocalità di spessore utile a mettere in risalto quelle donne alle quali il musicista assegnava personaggi straordinari per personalità e temperamento.
Francesca Dotto è un soprano provvisto di un buon impianto vocale, una voce molto ben educata che riesce ad affrontare con facilità il registro acuto trovando però qualche difficoltà nei toni gravi cosa che, purtroppo oggi, la penalizza un po’ per questo genere di repertorio.
È però giovane e, come ci insegna l’esperienza, soprattutto per le scelte interpretative che stanno segnando la sua carriera, può giungere ad un irrobustimento della voce che completerà in maniera positiva il suo stile di canto.
Nelle parti secondarie c’erano il soprano Federica Giansanti Giovanna, il tenore Raffaele Feo Don Riccardo e il basso Alessandro Abis Jago.
L’allestimento scenico è stato affidato al regista Gianmaria Aliverta, che ha realizzato anche le scene insieme a Alice Benazi ricevendo il contributo di Sara Marcucci per i costumi, di Elisabetta Campanelli per le luci, di Luca Attili per le proiezioni video e di Silvia Giordano per alcuni movimenti coreografici. Aliverta ha scelto la strada di puntare ad una realizzazione di stampo tradizionale evitando allo spettatore di trovarsi di fronte ad ambientazioni strampalate come, ad esempio, roulotte dei campi nomadi che oggi vanno molto di moda o, come avviene alle volte, nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Certamente il regista ha dovuto fare i conti con le croniche difficoltà finanziarie che caratterizzano oggi il teatro lirico in Italia, culla dell’Opera, ma è riuscito a creare uno spettacolo nell’insieme piacevole rispettando l’epoca dell’azione il 1520, anno dell’Incoronazione di Carlo V d’Asburgo ad Acquisgrana inserita nel libretto. Le scene erano costituite da semplici elementi ma inerenti a quanto avviene nell’azione con la realizzazione dei fondali realizzata tramite proiezioni video riprodotte su veli di tulle. I movimenti sono stati piuttosto curati rispettosi di quella tradizione antica con il posizionamento dei cantanti al proscenio nei momenti dei rispettivi pezzi di bravura. Il rispetto delle regole del distanziamento anti-covid ha costretto il regista a collocare il coro in modo statico, sullo stile della tragedia greca, ma nel retro delle scene dove la trasparenza del tulle ha comunque garantito la presenza scenica. Forse l’unico punto non condivisibile è stato nella scelta dei colori, orientati piuttosto al bianco e nero piuttosto che a colori più vivi e decisi che avrebbero dato maggior risalto alla felice impronta ottocentesca che è stata uno dei pregi di questa edizione.
Alvise Casellati, al quale va dato il merito di condividere la scelta di riproporre il finale alternativo del secondo atto, ha guidato con sicurezza l’Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini, formazione orchestrale di lunga esperienza assieme al Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati. Una esecuzione certamente valida pur se mancante di quei lampi e quelle fiammate romantiche che contraddistinguono questa partitura.
La recita è stata salutata al termine da lunghi applausi dal pubblico, purtroppo sorprendentemente poco folto considerando la validità della proposta ed il territorio molto incline ai capolavori della lirica (forse uno degli effetti del Festival di Sanremo?).
Comunque il gradimento dei presenti è stato inequivocabile e rivolto particolarmente a Gregory Kunde stella della serata ma, anche, per l’approvazione delle prestazioni di tutti gli altri interpreti: il resto della compagnia di canto, l’orchestra, il coro, il regista Aliverta con i suoi collaboratori e il direttore Casellati.
Claudio LISTANTI Ferrara 13 febbraio 2022