di Natale MAFFIOLI
IL SANTUARIO DELLA MADONNA DELLE QUAGLIE A LURANO[1]
Leggermente decentrato rispetto al centro abitato di Lurano, un paese della bassa pianura bergamasca, sorge il piccolo santuario intitolato alla Madonna delle Quaglie.
Il nome del volatile è legato ad un fatto prodigioso, capitato verso il 1430[2]. La storia edificante è tramandata dalla memoria collettiva: in quel tempo il piccolo paese era sotto l’egida della casata dei Secco Suardo, il vicino paese di Castel Rozzone era invece dominato dai conti Rozzone. Tra le due famiglie probabilmente non correva buon sangue; un giorno i due capifamiglia decidono indipendentemente di andare a caccia, entrambi sparano un colpo colpiscono e uccidono un’inoffensiva quaglia, sorgono contrasti perché entrambi rivendicano la preda e la discussione raggiunge l’acme, ma poco prima che le spade facciano la loro comparsa, una Signora, accompagnata da un fanciullino si intromette tra i due, e rivela la sua identità, è la Vergine Maria con il piccolo Gesù che dirime la questione in altro modo del tutto inusitato: i due contendenti di fronte alla bontà che emana il personaggio, superano gli antichi contrasti familiari e obbediscono all’invito della Bella Signora di portare la quaglia al convento dei Cappuccini del vicino paese di Castel Rozzone. Il frate superiore rimane perplesso al racconto dei due signori, certamente era a conoscenza dell’ostilità tra le due famiglie, ma fu la stessa quaglia che rese giustizia e liberò il superiore del convento da una questione apparentemente irrisolvibile e i due dalla vecchia ruggine famigliare, riprendendo vita e volando altrove.
Non si conoscono le ragioni del sito della fabbrica, verosimilmente è legato al luogo dell’abbattimento del volatile. Non passò molto tempo, ma di certo fu subito dopo l’evento straordinario, che si diede inizio alla costruzione del santuario[3], di sicuro fu dovuta al munifico intervento delle due famiglie e in breve lasso di tempo la struttura in muratura fu completata. L’edificio primitivo doveva essere di forme semplici, come ne esistevano diversi esempi sulla pianura bergamasca: un robusto organismo in opera cementizia, non molto alto, con un’unica navata, forse era preceduto da un semplice protiro e aveva una copertura a doppio spiovente con travi a vista, l’angusto presbiterio era probabilmente munito di un altare in stucco appoggiato alla parete di fondo. L’interno era spoglio e non aveva l’importante decorazione ad affresco successiva. Deve essere stata una particolare contingenza quella che ha spinto un nobile luranese a commissionare l’importante ciclo di affreschi sulle due pareti laterali interne (fig. 1)[4].
Gli affreschi
Le pitture della breve navata del santuario, sono fortemente ammalorate e le parti superstiti sono state picchiettate a colpi di martello, perché durante la pestilenza del 1630 qui furono accolti i colpiti dal morbo. Terminata l’epidemia, per risanarlo le pareti furono intonacate e per far aderire meglio il nuovo rinzaffo si provvide alla picchiettatura[5].
Il ciclo pittorico è problematico per diversi motivi: chi è il suo autore? In che periodo è stato eseguito? Chi lo ha commissionato? Non si sono conservati documenti che rimandino ad una data precisa della loro esecuzione né, tantomeno, al nome di uno specifico affreschista, ma dopo un attento esame si possono formulare delle ipotesi plausibili almeno fino a quando non si avrà la ventura di rinvenire attestazioni più pertinenti; pertanto, si possono attribuire le pitture ad un buon artista, con una conoscenza non superficiale della pittura veneta del XV secolo ed esperto nella tecnica del ‘buon fresco’; in considerazione della presenza del manufatto in un territorio sotto il potere della ‘Dominante’, si può supporre che il pittore fosse bergamasco e, in considerazione dei numerosi riferimenti ‘colti’, fosse a conoscenza delle opere di pittori veneti quali Giovanni Bellini, Bartolomeo e Antonio Vivarini e Cima da Conegliano o il vicentino Bartolomeo Montagna oppure, l’ipotesi più plausibile, è che avesse appreso l’arte del dipingere presso una buona bottega veneziana e in quel contesto abbia approfondito il rapporto non con uno specifico artista, ma con la cultura figurativa veneziana. Come sia finito a lavorare in un luogo così decentrato della bassa pianura bergamasca è tutto da scoprire, anche perché non sono stati trovati in altro luogo interventi a lui riconducibili.
Ancora per via di ipotesi si può avvalorare un suo servizio presso i Secco Suardo, nobili abbienti al punto da coinvolgere un pittore che, pur non essendo di ‘prima grandezza’, aveva dato, in qualche modo, buona prova di sé oppure che, tornato in patria, si sia messo sul mercato offrendo prestazioni qualificate come affreschista, ma ripeto: prescindendo dagli affreschi di Lurano non si sono trovati altrove lavori suoi.
Lavorò sicuramente nel piccolo santuario tra la fine del Quattrocento o l’inizio del secolo successivo. L’artista, da parte sua, benché indulga su un tipo di pittura passatista, con immagini rigide, specialmente nelle figure dei santi di contorno, impiega per le Madonne un piglio più disinvolto, una pittura più sciolta, quasi a evidenziare l’importanza delle effigi che rappresentano le ragioni del suo operato, con tutte le peculiarità degli ex voto: figure sostanzialmente isolate con tematiche circoscritte. È comunque una pittura ad affresco che si direbbe eseguita di getto (essendo arduo distinguere le ‘giornate’) che non ammette finezze frutto di ripensamento, tipiche del modo di lavorare di un pittore che operi a tempera su tavola. È tuttavia interessante notare che tutte le immagini sacre sono nimbate e le aureole sono a rilievo eseguite con pastiglia dipinta a imitazione dell’oro.
Osservando i riquadri siamo colti da una sensazione che non è immediatamente positiva, la soverchia teoria di Madonne con Bambino (ventuno immagini) crea un po’ di disagio. Ma una più attenta osservazione chiarisce la motivazione che ha spinto il committente a questa scelta: le Madonne sono tutte sedute su magnifici troni con un impianto prospettico di chiara matrice rinascimentale, con una grande varietà di elementi ornamentali: fiaccole, delfini e sfere; gli schienali sono intagliati oppure imitano il marmo e rivestimenti tessili importanti, elementi tutti indicatori della cultura dell’artista.
Le Madonne sono accompagnate dal Bambino e tutte hanno delle caratteristiche che le differenziano, è certo che le singole Madonne, più che ubbidire ad un intento devozionale, dovessero ribadire delle peculiarità di Maria.
L’attenzione è subito attratta da una particolare ‘tipologia’ di Madonna che, per antica tradizione, è denominata ’Madonna del Latte’[6] (presente nel santuario in tre versioni) (fig. 2), è raffigurata col seno scoperto, nell’atto di allattare il Figlio. Il viso di Maria è un ovale, quasi perfetto e non è affatto sommario, è un sembiante amabile e i tratti fisiognomici richiamano i visi di Madonna della pittura veneta, è un peccato che un particolare sia scomparso durante l’opera di picchiettatura, pare quasi che uno dei lavoranti lo abbia ritagliato e trattenuto per sé; la visione, in tutti i casi, è frontale a sottolineare una sua specifica caratteristica, quella di Madre di Dio e di patrona delle puerpere: l’immagine ha carattere materno ed esprime la duplice natura del Figlio, l’umana assieme a quella divina.
Un’altra raffigurazione coinvolgente è una “Madonna che adora il Figlio dormiente” (fig. 03), richiama un’opera di Giovanni Bellini, realizzato tra il 1473 e il 1475, lo stesso Bartolomeo Vivarini ha prodotto nello stesso giro di anni una immagine in tutto simile.
Nell’affresco di Lurano, Maria è raccolta in preghiera ed il suo sguardo è rivolto pensieroso sul piccolo Gesù, steso sulle sue ginocchia, pare quasi sia assorta in una duplice inquietudine: la consapevolezza di avere tra le braccia il Figlio di Dio e il pensiero della tragica fine di quel Figlio. Il pittore ha reso, con realismo convincente, il fantolino addormentato, adagiato su un bianco cuscino. Nell’analoga tavola di Bellini è messo in evidenza questo secondo aspetto, il braccio destro, pendulo, rimanda ad una pathosformel denominato il ‘braccio della morte’, perché ricorrente in molte delle raffigurazioni di Cristo morto deposto dalla croce e della Pietà.
Sulla parete destra, assieme alle diverse Madonne in trono, è presente una curiosa immagine del Bambino che sgambetta ai piedi della Mamma trattenuto a stento dalla sua mano forte, lei è intenta nella lettura di un libro, pare che non si curi del piccolo, una rottura dell’intonaco dipinto ci priva di un dettaglio che sarebbe stato curioso conoscere, è una immagine di familiare dimestichezza, chissà quante ne avrà viste il pittore a Lurano e altrove di scene simili, il piccolo è agghindato con una corta vestina e con l’immancabile girocollo di grani di corallo, la testa è circondata da una aureola crociata ravvivata da borchie similoro. È una ulteriore attenzione del pittore al dato che emerge in tante opere del santuario, l’umanità del piccolo Gesù.
Certamente l’immagine più interessante del ciclo si trova al centro degli affreschi sulla parete sinistra: una Madonna che sorregge il piccolo Gesù (fig. 04).
Il Bambino si drizza sulle ginocchia della Madre ed è realizzato con notevole accuratezza anatomica, con la destra traccia un segno di benedizione mentre la sinistra offre alla Madre un giglio, simbolo di purezza (una ulteriore conferma dell’ipotesi di filiazione della cultura veneta del nostro pittore si veda la cosiddetta Madonna di Brera di Giovanni Bellini del 1510); il suo sguardo è rivolto al fedele in preghiera di fronte a lui. Il piccolo ha attorno al collo una collanina fatta con grani di corallo, al centro è addirittura appeso un pezzo di questo prodotto marino. Nell’iconografia sacra del XIV e del XV secolo sono presenti ornamenti di corallo al collo del piccolo Gesù come segno di protezione e sono allusivi della sua futura e cruenta passione. Il corallo è un frutto marino e deve la sua notorietà alla mitologia classica. Perseo dopo aver decapitato Medusa corse in aiuto di Andromeda, legata ad una roccia a causa della madre, la liberò e il sangue della testa di Medusa chiusa in un sacco, colando sulla roccia si trasformò in corallo. Nelle pitture di Lurano sono numerose le raffigurazioni del piccolo Gesù ornato da siffatti talismani, non solo piccole collane ma anche braccialetti.
La scena avrebbe potuto essere ulteriormente interessante, perché la Madonna appoggia sul ginocchio un libro, squadernato, con una lunga iscrizione che forse era indicativa dell’immagine stessa ma, purtroppo, è illeggibile perché ampiamente picchiettata, probabilmente si riferiva a qualche testo biblico oppure ad una preghiera popolare.
Non pare un caso che il nastro che le cinge i suoi fianchi formi all’altezza del grembo uno spacco che ricorda un’amigdala, particolare questo che richiama il grembo della Vergine.
La committenza
Sono numerose le raffigurazioni della Madonna con Bambino e in tutte si rappresenta in modo esemplare la profonda relazione esistente tra Madre e Figlio, ma torniamo ad analizzare l’affresco precedente. Nonostante gli aspetti positivi di cui abbiamo fatto cenno, è evidente che quanto è raccontato nella decorazione trae origine da fatti di sangue e sono le pitture stesse a testimoniarlo.
Nel riquadro che abbiamo appena descritto, in posizione centrale, certamente per focalizzare la singolarità dell’episodio, che è, per certi aspetti, inquietante, ed è, con tutta probabilità, il motivo di tutto il ciclo che assurge così al rango di ex voto: ai piedi della Madonna è inginocchiato un uomo (fig. 05), in atteggiamento orante, che pare attempato, ha il sembiante segnato da rughe profonde ed ha i capelli bianchi tagliati a spazzola. È rivestito con un abito importante, la casacca di un colore indefinito tra l’azzurro e il verde che gli scende fino a mezza gamba, indossa delle brache chiare, porta un paio di scarpe eleganti e regge con la destra un cappello raffinato, però non è l’abito che attira l’attenzione ma le numerose ferite sul suo corpo, quella alla sommità del capo, che si palesa come una grave lacerazione del cuoio cappelluto, il sangue sgorga copioso al punto da creare un rivolo che scende fino al collo. Una seconda ferita è nascosta tra le pieghe della giubba, è il risultato di una pugnalata che gli ha lacerato il fianco destro ed è tanto profonda perché ha versato sangue in quantità che continua a colare al punto di imbrattare gli indumenti; la terza lesione gli è stata inferta sulla mano sinistra fatta con un’arma da taglio, che ha sparso tanto sangue che il gocciolamento ha creato a terra una piccola pozza. Il viso, dunque, oltre i segni dell’età, rivela anche gli spasmi di una grande sofferenza. L’accostamento alla ferita pestilenziale di San Rocco non pare casuale, è il segno della protezione accordatagli da questo santo in un momento tragico della sua vita. Non è pertanto la descrizione di una tragedia occorsa ad un popolano, ma la rappresentazione di una vicenda delittuosa che ha coinvolto tragicamente un nobile, certamente un membro della famiglia Secco Suardo, nè avrebbe senso una simile raffigurazione sulla parete del santuario se non fosse per la rilevanza sociale del soggetto. E qui viene spontanea una domanda: l’origine degli affreschi non è forse da ricondurre ad un ringraziamento per l’intervento divino che ha salvato il malcapitato, vittima di un’aggressione oppure di una vendetta o di un duello?
Sulla stessa parete, in prossimità all’anziano ferito, si notano i residui derivanti dallo strappo di un affresco, si tratta di una sinopia[7] (fig. 06), che è apparsa dopo il distacco della figura di un San Sebastiano. L’originale è attualmente appeso su una parete del piccolo androne che conduce in sacrestia[8]. Il martire è descritto come un giovane trafitto dalle frecce scagliate dai militari romani, ma un dettaglio posto in basso a sinistra, ahimè fortemente ammalorato, lo mette in relazione con la figura dell’anziano appena descritta: si tratta di una figura maschile e dai rimasugli di pittura si può arguire che fosse giovane, e dai vestiti e dal portamento, un nobile. È stato aggiunto a secco perché non compare nella sinopia. Probabilmente si tratta di un altro membro della famiglia Secco Suardo accumunato nel gesto di gratitudine alla Vergine.
C’è un’altra figura, che occupa un posto defilato delle pitture e offre altre preziose informazioni. È posta all’estremo limite degli affreschi della parete di sinistra, è l’immagine di un ragazzo; anche questa, come la precedente, non è di un giovane popolano, lo denunciano gli abiti semplici ma curati, la semplice casacca bianca ha degli sbuffi eleganti sulle maniche. Il suo portamento è quello di un orante, è inginocchiato ed ha le mani giunte, il suo sguardo è tutto compreso nella supplica che rivolge alla Madonna con il piccolo Gesù. Con tutta probabilità è un giovane membro della famiglia Secco Suardo che si unisce alla preghiera del presunto parente più anziano e meno fortunato di lui.
Un’immagine della Madonna con il piccolo Gesù che punta i piedi sulle gambe della Madre è iterata in un riquadro vicino alla porta di accesso (fig. 07), sembra posta lì all’inizio della navata a vigilare e pronta ad accogliere il pellegrino;
la coppia è accompagnata da San Rocco, un santo che è di casa nel santuario. Il piccolo Gesù è il gemello del precedente, ma non tiene in mano alcun giglio e neppure accenna ad una benedizione ma è ben stabile sulle ginocchia della Madre e guarda fissamente un ipotetico devoto che si sta avvicinando da sinistra. Anche lui porta al collo e sui polsi i gioielli in corallo segni profetici del suo futuro di morte. Anche questa tipologia di Madonna è consueta nell’arte veneta del XV secolo, è ricorrente nella pittura di Giovanni Bellini e di Bartolomeo Montagna (vedi la pala di san Sebastiano e Girolamo nella chiesa di San Sebastiano a Verona del 1507) e ribadisce la frequentazione del nostro anonimo affreschista di una bottega veneta e la dimestichezza con la produzione pittorica dei maestri dell’epoca, si inserisce, comunque, in una affermata consuetudine iconografica.
Sante e Santi
Il piccolo santuario è anche il luogo delle devozioni particolari, qui si assiepano i ricordi delle traversie della povera gente ma pure il luogo del ringraziamento ed è per questo che sulle pareti si affollano immagini che sono degli ex voto, non in forma di piccole tavolette, con espressa la causa del malanno e la rievocazione del prodigioso intervento taumaturgico del santo (se si eccettua quanto abbiamo appena analizzato) ma sono una memoria collettiva, come è collettiva la presenza delle Madonne e di tanti santi patroni. Ed ecco allora l’iterazione dell’immagine di San Rocco e di San Sebastiano che, a coppie, affiancano le Madonne, quasi ad assecondare, come sostenitori benevoli, le preghiere e le richieste dei fedeli, in primis dei Secco Suardo che, verosimilmente, godevano dello ‘jus patronatus’ sulla cappella e, a seguire, dei paesani che affollavano il santuario nei giorni di festa e accendevano candele propiziatrici.
L’immagine di San Rocco è più volte replicata, e questo determina l’importanza della sua presenza nella devozione e della sua capacita di intercessore; il santo patrono invocato nei periodi di pestilenza, sulle pareti del santuario è descritto come un giovane, aitante con capelli lunghi e una barbetta rossastra, tiene stretto l’inseparabile bastone, suo unico strumento di difesa, è rivestito con l’abito semplice del pellegrino romeo, il grande cappello, il petaso[9], gettato sulle spalle e l’ampia mantella, le brache aderenti con una delle gambe rigirata mentre con un dito indica la piaga pestilenziale. In un riquadro affollato, l’ultimo della parete di sinistra a fianco del presbiterio gli fa compagnia San Sebastiano (fig. 08), descritto come vuole la tradizione, con un perizoma, trafitto da numerosi dardi, e benché la tradizione non tramandi l’età, anche lui è visto con me un giovanotto con fisico da palestrita, il suo sguardo, sofferto, è rivoto verso il centro della chiesetta là dove si assiepano i fedeli. È rappresentato legato ad una pianta con le mani vincolate sul dorso e le trafitture ricordano i morsi della peste ed è per questo che viene invocato contro il temibile morbo.
Altri Santi, come Santa Caterina d’Alessandria, Santa Lucia, Santa Veronica e Sant’Alessandro fanno la loro comparsa sulle pareti, pronti a condividere la devozione dei luranesi. Santa Caterina (fig. 09), un tempo molto venerata nei territori agricoli dell’Italia cristiana, è rappresentata con un abito dalla foggia classica; la ‘Legenda Aurea’ di Jacopo da Varagine la descrive come una principessa, figlia di re: il suo abito è giustamente regale, una lunga tunica bianca in broccato con lo scollo a V, bordato di perle e un mantello rosso, ha dei bei capelli castani, molto lunghi e ondulati. Tra le mani regge gli strumenti del suo martirio: una ruota dentata, primo strumento della sua passione, e la spada che la decapiterà, mentre con la sinistra regge un libro chiuso (allusivo alla sacra scrittura) e la palma del martirio. La teoria delle sante non poteva non contemplare la presenza di Santa Lucia (fig. 10), è rivestita di un elegante abito alla romana, pare davvero che l’anonimo pittore si sia rifatto alla più nobile tradizione classica come nel caso dell’immagine di Santa Caterina d’Alessandria.
La Santa siracusana esibisce uno stilo sul quale sono trafitti i suoi occhi. Ma c’è una figura che non ricorre sovente nella tradizione iconografica cristiana: è Santa Veronica (fig. 11), colei che, secondo la tradizione, vedendo i patimenti di Cristo sulla via del Calvario gli asciugò il volto sporco di sangue e di sudore con un panno sul quale rimase l’impronta del suo sembiante. È indubbiamente la rappresentazione più toccante, la più ricca di pathos, il suo viso è mesto, lo sguardo fissato sull’oggetto che ostende e che sorregge a pugni stretti, il viso impresso sul lino è vero, un ideale ritratto di Gesù e lei lo mostra ai pellegrini come farmaco delle loro sofferenze; la Santa, è vestita in modo semplice, pare quasi che sia portatrice dei paramenti del Venerdì Santo, un velo monacale, viola, il colore della quaresima.
Appena entrati nel santuario si è accolti da una figura maschile, un Santo guerriero e chi potrebbe essere se non Sant’Alessandro (fig. 12), il patrono della città di Bergamo?
Non ci sono cartigli che lo possano individuare, è connotato unicamente dalle vesti militari alla romana e dalla palma del martirio. Ma c’è una variazione: il nostro Santo è tradizionalmente definito dal labaro con la croce rossa su campo bianco, qui invece regge con la destra una mazza da guerra, probabilmente si tratta di una licenza pittorica. L’artista, avendo a che fare con un soldato, ha preferito mettergli tra le mani uno strumento guerresco piuttosto che un labaro pacificatore. È pure interessante che l’immagine raffiguri il Santo con una antica mazza in tutto simile ad una che si conserva al British Museum di Londra, il che dimostra che il nostro artista conosceva gli oggetti che illustrava.
Ciò che attira la nostra attenzione sono gli abiti femminili. Abbiamo visto che il pittore ha tradotto il vestito di Santa Caterina d’Alessandria in broccato su fondo bianco; ancor più ricercata appare la descrizione degli abiti con cui ha rivestito Maria, il tessuto da lui maggiormente rappresentato è il broccato rosso su fondo bianco. La Vergine è coperta del prezioso tessuto (fig. 13) e pare che la perizia del pittore sia stata davvero sorprendente perché le figurazioni sono tutte realizzate senza l’ausilio del cartone a spolvero[10]:
il pittore ha trasferito sull’intonaco già asciutto, e con grande velocità, il disegno del broccato. Tra le immagini fitomorfe, il motivo più ricorrente è il fiore del cardo, le sue foglie arricciate e spinose ricordano i tormenti della passione di Gesù. Pare che abbia utilizzato modelli reali, forse imparando il mestiere di pittore nella città lagunare ha avuto dimestichezza con tessili di lusso e ha voluto trasferire sull’affresco la sua conoscenza raffinata.
Scritte e graffiti
Sui muri si trovano, dipinte o graffite, numerose iscrizioni, sono indicazioni di carattere religioso oppure delle attestazioni di carattere ampiamente storico, la più accattivante, dipinta ai piedi di una Madonna del latte a rimarcare il vincolo della maternità, riporta una citazione dalla Divina Commedia, di Dante e testualmente recita: ” VERZENE MATRE FILIA DEL TUO FILIO” il testo è dall’orazione di San Bernardo alla Vergine Maria ed è tratto dal canto XXXIII, seguita da una prece: “DEH SPORGE AME CONSILIO / […]E MORTE ETERNA ME ZAMAY NO[N] COPRA” (“VERGINE MADRE FIGLIA DEL TUO FIGLIO TI PREGO DAMMI CONSIGLIO PERCHE’ LA MORTE ETERNA GIAMMAI NON MI COPRA”) è scritta in un italiano antiquato misto alla parlata dialettale. Una iscrizione graffita nella fascia bianca che incornicia il primo riquadro a sinistra recita: E FOA DONTO MOIE DE BETI DI DOSE NE ADI I ACO il testo è poco comprensibile e prosegue sotto la scena successiva ma è illeggibile perché eccessivamente abraso.
Gli ampliamenti sei-settecenteschi
Un’analisi anche superficiale della struttura del santuario, rivela che lungo i secoli, è stata sottoposta a interventi diversificati. Ad una fase iniziale, all’indomani del segno prodigioso che ne ha determinato la sua fondazione, è seguito un momento di abbellimento, quando si sono rivestite le pareti di affreschi importanti, l’intervento fu certamente sostenuto finanziariamente da uno o più nobili luranesi, e questo è avvenuto verso la fine del XV secolo. Dovettero passare due secoli prima che si ponesse mano ad un’opera di rinnovamento strutturale e decorativo di parte del santuario. Come si è visto, dopo la pestilenza del 1630, per motivi igienici, la superficie affrescata era stata scialbata, ma l’opera determinante fu intrapresa tra la fine del MDC secolo e l’inizio del successivo.
Di certo all’inizio si è provveduto a coprire l’ambiente con una volta in muratura ma l’intervento decisivo è stato la ricostruzione del presbiterio; l’analisi della struttura esterna rivela che si è rattato di un prolungamento considerevole dello spazio. Il vecchio presbiterio doveva presentarsi angusto, con un semplice altare in stucco, addossato al muro e privo della sacrestia. I committenti (si trattò di una committenza signorile, con tutta probabilità dei Secco Suardo) non badarono a spese.
Non si sono trovati documenti nell’archivio parrocchiale, né, tantomeno, nell’archivio dei nobili Secco Suardo che attestino l’intervento. Per questi motivi ci si dovrà avvalere unicamente di un’indagine storico-formale.
All’esterno si assiste ad una variazione del ‘ductus’ della struttura muraria, non più una sequenza di archi ciechi a tutto sesto, ma una parete continua con un doppio cornicione munito di una gola aggettante a mo’ di gronda. Nel contempo si provvide a dotare il piccolo santuario di un avancorpo centrale (fig. 14) (ciò non toglie che già in antico l’edificio fosse dotato di un semplice protiro), la struttura era (ed è tutt’ora) profonda, timpanata e munita di cinque aperture centinate e depresse, tre sulla fronte e due ai lati. La porta centrale, in granito, con profilo mistilineo e con gli angoli superiori smussati, è sormontata da con uno stretto architrave leggermente bombato e da una cornice, è chiusa con due eleganti battenti in legno di noce, è affiancata da due finestre con cornici bordate pure di granito, rettangolari, con l’angolo superiore smussato, con davanzale e sono difese da una inferriata in ferro battuto. Queste due aperture sono sovrastate da affreschi settecenteschi, di autore ignoto, le scene narrate sono coerenti con la storia del santuario: a sinistra l’episodio della quaglia, a destra San Carlo Borromeo che visita gli appestati.
Alla sobrietà dell’esterno non corrisponde una pari semplicità dell’interno; abbiamo già visto gli affreschi su entrambi le pareti della breve navata, ora analizzeremo il presbiterio, separato dal vano principale da una elegante cancellata in ferro battuto, decorata con ricci, borchie sagomate di ottone e corti dissuasori lanceolati. È coperto da una volta a lunette ove sono narrati, ad affresco, episodi della vita della Vergine tratti dal Nuovo Testamento e dai vangeli Apocrifi; il sogno di Gioacchino, l’incontro di Gioacchino e Anna alla Porta Aurea, la natività di Maria, la presentazione di Maria al tempio, il matrimonio di Maria e di Giuseppe, la visita di Maria a Elisabetta la nascita di Gesù (fig. 15);
al centro della volta un riquadro raffigura la gloria di Maria in Paradiso, la parte restante della calotta è ricoperta da decorazioni fitomorfe stilizzate. Allo stadio attuale delle ricerche è impossibile determinare chi sia l’autore o gli autori delle pitture. Certamente i quattro affreschi sulle pareti del vano si possono assegnare a due mani differenti: le immagini di San Lino, il patrono della parrocchia, e di San Carlo Borromeo, il santo degli appestati, rivelano la mano impacciata di un pittore di secondo piano, le due figure dell’Annunciazione, poste ai lati dell’altare maggiore, sono invece opera di un pittore dalla cultura figurativa di un livello decisamente superiore.
L’Angelo (fig. 16), dal gesto maestoso, e la Vergine Annunziata (fig. 17) dimostrano un tardo Seicento veneto maturo, anche se leggermente magniloquente.
L’altare
L’altare maggiore che fa bella mostra di sé al centro del presbiterio è un autentico capolavoro dell’arte plastica, è uno splendido prodotto della famiglia Manni[11], e possiede tutti i requisiti perché sia attribuito a Bartolomeo (16147-1709), figlio di Andrea; questo artista, nativo nel Canton Ticino, nel 1670 emigrò a Gazzaniga ed è il capostipite di una numerosa famiglia di scultori e intarsiatori in marmo. Bartolomeo proseguì nella sua specifica attività utilizzando il marmo nero locale e in quel giro d’anni realizzò la sua prima opera importante in terra bergamasca, l’altare della Cappella Colleoni e fece un incontro importante con Grazioso Fantoni (1630-1693) scultore di Rovetta[12] che assieme avranno un ruolo determinante per l’altare del nostro santuario.
I nobili luranesi che fin dall’inizio avevano avuto a cuore il decoro del santuario, investirono somme ingenti nella struttura dell’altare, nella statua della Madonna con Bambino posta nella grande nicchia che sovrasta la macchina dell’altare. È opera di Grazioso Fantoni il Vecchio ed è stata realizzata, se si presta fede alla tradizione, nel 1692.
È ricavata in un unico blocco di marmo bianco di Carrara ed è alta 120 centimetri; i tratti fisionomici della Madonna sono di una delicatezza straordinaria (fig. 18.) e il bambino che sostiene è di una vitalità senza pari, la destra si appoggia con confidenza alla Madre e gioca con la piega dell’abito, le dita di Maria che si appoggiano alle gambe del piccolo ne esaltano la morbidezza della carne e fanno sì che il fedele dimentichi per un attimo di avere di fronte a sé una scultura in marmo ma una persona reale.
Il panneggio, dalle linee accentuate, sembra scolpito nell’alabastro, l’ultimo tocco di plasticità lo si scopre nella testa di cherubino vicino ai lineamenti morbidi del piede. La statua, poi, poggia su una base a forma di nuvola in marmo grigio bardiglio.
L’altare è l’elemento fondamentale in un edifico di culto cristiano e il nostro rientra nella tipologia di altare alla romana (fig. 19) con la mensa associata ad un paliotto (o contraltare), due gradini a supporto dei candelieri e una nicchia con la statua della patrona. I diversi elementi che lo compongono sono realizzati in differenti qualità di marmo e qui primeggia il marmo nero di Gazzaniga; per gli elementi plastico-decorativi si è usato il bianco di Carrara e per le colonne la breccia di Aleppo.
La mensa in nero è preceduta da un paliotto in marmi commessi (fig. 20), un capolavoro dell’arte di Bartolomeo Manni, racchiuso tra due specchiature in arabescato orobico, sormontate da teste alate di cherubini, gli intarsi della lastra sono composti da elementi floreali stilizzati, fatti utilizzando diverse qualità di marmo colorato, dall’alabastro, al bardiglio, al verde Alpi, al rosso di Francia, le ampie foglie di acanto, in marmo giallo di Siena, si aprono su forme che richiamano un giglio e si dischiudono su una specchiatura centrale ovale in alabastro profilata con giallo di Siena. Tra bottoni di madreperla e spighe a leggero rilievo volano due uccelli di specie indefinita ma colorati come lo possono essere solo volatili creati con marmi colorati preziosi, che si possono definire come la ‘firma’ di Bartolomeo Manni (fig. 21);
plinti, rivestiti di arabescato orobico, sempre profilato in nero di i Gazzaniga fanno da base alle due splendide colonne in breccia di Aleppo sormontate da capitelli di ordine composito, in marmo bianco di Carrara parzialmente dorati (fig. 22) la custodia della statua la cui cornice ha diverse profilature degradanti: quella esterna in nero di Gazzaniga, successivamente in alabastro e poi in marmo orobico il tutto bordato in nero. Nei triangoli di risulta della nicchia trova posto una fantasiosa decorazione floreale in commesso sull’immancabile marmo nero, ottenuta con giallo di Siena, rosso di Francia e bottoni di madreperla, al vertice un motivo terminale sempre in giallo di Siena.
La parte apicale
Il coronamento sommitale dell’altare è decisamente complesso ed è contenuto tra i due componenti contrapposti del timpano spezzato, questi, e le cornici di collegamento, sono realizzati con grande perizia in marmo nero di Gazzaniga leggermente venato di grigio; si rimane stupiti per la finezza dell’esecuzione di tutte le modanature aggettanti e anche la perfetta corrispondenza degli elementi a quanto è trasmesso dalle regole della buona architettura. Il centro è occupato da una colomba raggiata (simbolo dello Spirito Santo) in legno dorato, circondata da otto testine alate di cherubini, singole o in coppia, in marmo bianco di Carrara (fig. 23), e adagiate su nubi di marmo bardiglio;
questi elementi sono certamente opera di Bartolomeo Manni, rispondono alla sua poetica che realizza figure di grande dolcezza e delicatezza espressiva con lineamenti morbidi e paciosi, come, d’altra parte, sono sue le due figure angeliche (fig. 24) appollaiate sulle volute terminali del timpano spezzato sempre in bianco carrarino. Il gesto delle mani protese non è casuale: pare presentino una offerta alla Madonna, in questo caso si tratta delle preghiere dei devoti, oppure che le mani protese stiano ad indicare i doni che Maria dispensa ai fedeli[13].
Presenze settecentesche nella nuova chiesa parrocchiale
La nuova chiesa parrocchiale di Lurano[14], edificata nel 1964 su progetto dell’ing. Carlo Merisio, è stata dotata di oggetti importanti, di uso liturgico, provenienti dalla vecchia parrocchiale[15]. Così vi è stato trasferito il paliotto dell’altare maggiore (fig. 25) e la statua della Madonna. Il primo è un pregevole lavoro in marmi commessi, della famiglia Manni.
Si è visto, precedentemente, l’intervento, tra la fine del XVII secolo e l’inizio del successivo, di questi marmorai e segnatamente di Bartolomeo, nel santuario della Madonna delle Quaglie, alcuni anni dopo, sempre alla stessa famiglia di lapicidi fu commissionato questo paliotto. Nel lavoro al santuario non era mancato il supporto economico dei nobili Secco Suardo, con tutta probabilità l’intervento nella parrocchiale fu tutto a carico della comunità luranese, si era creata una sorta di emulazione, i fedeli convinti della bontà dei lavori al santuario commissionarono agli stessi Manni l’esecuzione dell’altare.
La realizzazione della lastra è da far risalire agli anni venti del Settecento ad opera di Andrea Manni e fratelli (Pietro Giacomo, Carlo Antonio, e Giovanni Giacomo) i quali si ‘firmano’, come è loro consuetudine, con quattro volatili sul pianale. Al centro, su un fondo di marmo portoro è scolpita l’immagine di San Lino, il patrono della chiesa e della comunità luranese, la figura del santo, rivestita con i paramenti pontificali e con la tiara (fig. 26), è drammatica, tanto da farla attribuire a Giovanni Giacomo, il più talentuoso dei fratelli.
Il ricchissimo corredo decorativo del paliotto, è compreso tra due pilastrini, leggermente ruotati, profilati in giallo di Siena, che terminano con una voluta abitata da un fiore stilizzato e nella parte superiore sono messe due teste alate di cherubini con pendenti a forma di campanule. Due ricche lesene, sempre profilate con giallo di Siena, racchiudono lo scomparto centrale, queste sono fatte da foglie di acanto sovrapposte e accartocciate, realizzate in bianco di Carrara, giallo di Siena, rosso di Francia, alabastro, con fiori di narciso stilizzati e fili di perle. La figura a rilievo del Santo è racchiusa tra doppie volute di foglie realizzate con diversi tipi di alabastro, con marmo bianco di Carrara e i risvolti in giallo di Siena, da queste volute si diparte una miriade di elementi vegetali, come nuovi rampolli in rosso di Francia che ospitano ulteriori inflorescenze variegate da cui germinano fiori di narciso e gigli di campo. La flora si arricchisce di piccoli fiori realizzati in madreperla, non mancano fili di perle, una nota questa specifica della decorazione dei Manni. In questa sorta di Eden in marmi variegati non mancano variopinti uccelletti appollaiati su rami carichi di frutti, segno distintivo degli intarsiatori. È davvero un trionfo di colori realizzato in una non grande lastra di marmo nero di Gazzaniga.
La statua della Madonna con Bambino (una scultura in marmo bianco di Carrara alta cm. 175) (fig. 27) occupava originariamente un posto importante nella vecchia parrocchiale, aveva un altare proprio. Con la costruzione del nuovo edifico sacro e con il conseguente trasferimento, l’immagine è stata collocata, dopo spostamenti successivi, nello spazio precedentemente riservato al battistero. La figura della Madonna è stata privata del contesto devozionale tradizionale, a poco è valso il braciere per le candele dei devoti, decontestualizzata è stata ridotta a semplice corredo del nuovo edificio. Ha perso non poco anche dell’imponenza che la scultura aveva di suo. La statua è opera della metà del Settecento (1746) e, con tutta probabilità, realizzata da Grazioso Fantoni il giovane (1713-1798), ciò che permette di avanzare questa attribuzione è innanzitutto il confronto con un’opera di un altro membro della famiglia Fantoni, la Madonna con Bambino nel santuario della Madonna delle Quaglie. Questa scultura ha, certamente, le peculiarità della produzione fantoniana, l’espressione drammatica del volto e il panneggio dalle linee accentuate; anche se l’opera è di un notevole impatto, non presenta le caratteristiche di morbidezza del modellato tipiche della già citata opera luranese.
di Natale MAFFIOLI Torino 6 marzo 2022
NOTE
[1] Un grazie ad Andrea Bugini per il valido aiuto che mi ha prestato nella mia campagna fotografica.
[2] B. BIANCHI, Santuari mariani bergamaschi, Bergamo1958; la vicenda è ampiamente narrata in: L. MINUTI, FERRANDI, Media Pianura lombarda. Luoghi della fede, pp. 72-75, Bergamo 2010, vol. I; M. A. CAMPAGNONI, Il raggio verde. Storie bergamasche di devozione popolare.
[3] Tradizionalmente si fissa la data della costruzione al 1431.
[4] Forse anche la parete di fondo era affrescata, ma le trasformazioni successive hanno distrutto l’eventuale corredo pittorico.
[5] La scoperta degli affreschi risale al 1971, il parroco ‘pro tempore’ volendo riordinare gli ex voto che coprivano le pareti, li tolse e scopri le pitture antiche sotto lo strato degli intonaci seicenteschi.
[6] Questa immagine era ampiamente diffusa presso le chiese orientali. In occidente, nel Trecento la rappresentazione diventa più realistica. Un’opera di Ambrogio Lorenzetti è considerata la più significativa, la Madonna perde la frontalità bizantina ed è raffigurata rivolta al bambino Gesù e lo stesso piccolo volge lo sguardo verso il fedele e questo forniva ai credenti l’assicurazione che il Figlio di Dio attaccato alla mammella di Maria si era fatto uomo. Il culto della Madonna del Latte si diffuse in tutta l’Europa fino al Concilio di Trento, quando l’immagine fu giudicata sconveniente e alcune chiese cambiarono denominazione; mentre l’iconografia ufficiale decadeva la devozione popolare continuò legata al desiderio di maternità. Uno studio ampio sulla Madonna del latte si trova in: P. BERRUTI (a cura di), Madonna del latte, la sacralità umanizzata, Firenze 2006.
[7] Un disegno preparatorio eseguito con terra rossa originariamente proveniente da Sinope, sul Mar Nero.
[8] Dopo essere stato strappato e montato su un supporto rigido, l’affresco è stato riposizionato sul luogo originario, attualmente è collocato nell’anti sacrestia.
[9] Il Petaso era un cappello a larghe falde ed era caratteristico dei contadini e dei viaggiatori, ed era pensato per fornire protezione sia contro il sole che contro la pioggia.
[10] La carta traforata era già praticato dai pittori nella realizzazione degli spolveri per gli affreschi, in questo caso si fa riferimento al metodo in uso per i bordi seriali.
[11] L’attività di questa famiglia è descritta, con un abbondante apparato iconografico, in A. BERTAZA – A. GHISETTI – L RIGON, I Manni, pp. 38-46, Bergamo 2017.
[12] Con il quale collaborò alla realizzazione del pulpito marmoreo della basilica di S. Martino ad Alzano Lombardo.
[13] Le due statue hanno le piccole braccia protese, in fase di realizzazione separate dal resto del corpo.
[14] L. PAGNONI, Chiese parrocchiali bergamasche, Monumenta Bergomensia, Bergamo, 1979, pp. 225-226.
[15] Le fotografie dei due oggetti sono conservate presso: Archivio Fotografico della Diocesi di Bergamo.