di Nica FIORI
“Wem Gott will rechte Gunst erweisen, / Den schickt er in die weite Welt, / Dem will er seine Wunder weisen / In Berg und Wald und Strom und Feld …” (A chi Dio vuole mostrare una giusta benevolenza, / Quelli lui manda nel vasto mondo, / A quelli lui vuole far conoscere le sue meraviglie / Nelle montagne e nei boschi e nell’acqua e nei campi …”).
Questi versi del tedesco Joseph von Eichendorff, tratti dal primo capitolo del suo romanzo “Aus dem Leben eines Taugenichts” (“Vita di un perdigiorno”, 1826), sembrano voler esaltare l’importanza della natura e del rapporto che l’uomo, e in particolare un artista, deve avere con essa. Mi sono venuti in mente osservando alcuni paesaggi dipinti da Guido Reni (Bologna 1575 – Bologna 1642), che è citato nel romanzo insieme a Leonardo da Vinci, nella grande mostra “Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura”, ospitata nella Galleria Borghese fino al 22 maggio 2022.
Tutt’altro che un perdigiorno doveva essere il Reni che, irritato dai commenti sull’apparente mancanza di ogni fatica nella sua pittura, avrebbe detto, secondo il suo biografo Carlo Cesare Malvasia:
“Che virtù infusa? Con incessante studio, e con ostinata fatica si acquistano questi doni, non si trovano già a sorte, né si ereditano dormendo (…) Ho studiato più che quanto altri mai s’abbia fatto, negandosi sino alla stanchezza il notturno e necessario riposo”.
Ce lo ricorda Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese e curatrice di questa mostra romana, che è la prima di una serie di esposizioni internazionali dedicate all’importante Maestro del Seicento italiano. Un pittore che, osannato per secoli per l’idea di perfezione che trasmetteva, tanto da essere chiamato col solo nome di battesimo e da essere definito “divino”, ha avuto poi un calo di fortuna a partire dalla stroncatura, nel 1844, da parte di John Ruskin, che mal sopportava la pittura classica e devozionale fatta “alla Reni”.
Le ragioni della mostra sono da ricercare nel desiderio di ricostruire i primi anni del soggiorno romano di Guido Reni dopo la monumentale pubblicazione dell’edizione critica dell’opera di Carlo Cesare Malvasia “Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi” (1678), e soprattutto dopo l’acquisizione nel 2020 del dipinto “Danza campestre”, del quale si erano perse le tracce e che è comparso sul mercato antiquario londinese nel 2008 come opera di anonimo bolognese.
Da allora gli studi hanno riassegnato l’opera all’artista, datandola al periodo romano tra il 1601 e il 1614, ed è stata acquistata dalla Galleria Borghese grazie all’ex direttrice Anna Coliva, che aveva precedentemente dimostrato la sua appartenenza alle collezioni del cardinale Scipione Borghese. Il suo è quindi un rientro nella dimora che per prima l’accolse e dove appare perfettamente a suo agio nel contesto che vide nascere l’arte barocca, che si sarebbe diffusa in tutta l’Europa.
Si tratta di
“una singolare scena di ballo tra contadini e signori ambientata in una radura sotto le montagne, in cui l’orizzonte si apre in una spettacolare fusione di blu e di azzurri”,
come scrive Francesca Cappelletti nel catalogo, ed è importante per inquadrare il pittore nel primo Seicento a Roma, dove si incontravano tanti pittori diversi e dove cominciavano ad avere successo alcuni paesaggisti, come il fiammingo Paul Bril, ma anche i bolognesi Annibale Carracci e Domenichino, che iniziarono a praticare la pittura paesaggistica, senza le scene di mitologia che prima abbondavano. Un’altra novità nel percorso di Reni è stata la riscoperta di un altro suo dipinto di paesaggio, con motivi all’antica, che era attribuito a un pittore della cerchia di Francesco Albani: il Paesaggio con scherzi di amorini, proveniente dalla collezione Farnese.
La produzione di paesaggi, intesi non solo come scorci naturali di sfondo alle storie, era totalmente ignota al catalogo dell’artista fino a pochi anni fa ed è quindi quanto mai apprezzabile la loro visione, accostata in mostra a paesaggi di pittori per lo più coevi.
Ma, prima di immergerci negli scenari naturali e bucolici che costituiscono la seconda parte della mostra, nel salone d’ingresso al piano terra della Galleria ci accolgono quattro imponenti pale d’altare, che evidenziano la grande capacità di Guido di affrontare i temi del sacro, particolarmente apprezzata dai suoi importanti committenti.
Quando egli arrivò a Roma, all’età di 26 anni, era un artista già formato (a Bologna aveva studiato con il fiammingo Denijs Calvaert ed era poi entrato nell’Accademia degli Incamminati fondata dai Carracci), ma indubbiamente nell’Urbe ebbe modo di misurarsi con la presenza massiccia della scultura antica, che tanto avrebbe influito sul suo classicismo, con il naturalismo drammatico di Caravaggio e con l’amato Raffaello, del quale aveva già copiato l’Estasi di Santa Cecilia per il cardinale Paolo Emilio Sfondrati, che aveva conosciuto a Bologna nel 1598.
Questo cardinale, nipote di papa Gregorio XIV e titolare della chiesa trasteverina di Santa Cecilia (dove fece eseguire degli scavi che riportarono alla luce il corpo della martire, straordinariamente conservatosi, e del marito Valeriano), fu il primo committente delle opere romane di Reni, delle quali troviamo in mostra la pala con il Martirio di Santa Cecilia (1601).
La santa è raffigurata con gli occhi al cielo e le braccia aperte nell’atteggiamento dell’orante, nel momento in cui il carnefice solleva la spada per decapitarla, mentre in alto nel buio appaiono due luminosi angioletti pronti a incoronarla. Nel naturalismo della figura del carnefice sono preannunciati quegli elementi caravaggeschi che ritroviamo nella pala del Martirio di Santa Caterina (1605-06 ca., Museo diocesano di Albenga), dipinta per il ricco banchiere Ottavio Costa, e, ancora più evidenti, in quella della Crocifissione di San Pietro (1604, Pinacoteca Vaticana), commissionata dal cardinale Pietro Aldobrandini per l’abbazia di San Paolo alle Tre Fontane. Del resto, come è ricordato da una frase di Giovan Pietro Bellori inserita nel bellissimo allestimento al centro del salone:
“Era grandissima allora la fama di Caravaggio; invaghitisi molti di quel nuovo colorito dal naturale, anche Guido volle sperimentarsi nell’istesso modo di dipingere, alterando la sua bella idea per un breve intervallo con fine di mostrare il suo talento (…)”.
L’altra pala in mostra, proveniente da Osimo, raffigura La Trinità con la Madonna di Loreto e il committente cardinale Antonio Maria Gallo (1603-04) ed è accostata allo Stendardo della Confraternita delle Sante Stimmate (1602-12, Museo di Roma), la cui visione fa riaffiorare il ricordo della morte di Reni, avvenuta il 18 agosto 1642 a Bologna, perché il suo corpo venne vestito col saio da cappuccino e sepolto nella cappella del Rosario della basilica di San Domenico.
Proseguendo nell’itinerario espositivo troviamo un solo dipinto per sala, scenograficamente inserito di volta in volta in armonioso confronto con i capolavori della Galleria. Nella prima sala, detta “della Paolina”, il realismo della tela raffigurante San Paolo che rimprovera San Pietro penitente (1609 circa, Milano Pinacoteca di Brera) si misura con quello della scultura canoviana di Venere vincitrice.
Nel dipinto, che un tempo era tra i più ammirati del pittore per quel gioco di sguardi che attraversano in diagonale la scena, si apre sulla destra uno scorcio di paesaggio, con un castello e alti alberi su un cielo nuvoloso, che richiama molto quello della Danza campestre.
Il David con la testa di Golia (II decennio del XVII secolo, Firenze Uffizi) è esposto, giustamente, nella sala del David berniniano e si confronta con quello pittorico di Caravaggio, dal quale si discosta per l’atteggiamento meno violento. Un particolare del dipinto di Reni (e aiuti), che ci rimanda all’artista lombardo, è dato dalla posizione delle gambe, che sembra la stessa della Madonna dei Pellegrini, il capolavoro di Caravaggio conservato nella basilica romana di Sant’Agostino.
La spettacolare Strage degli innocenti (1611), proveniente dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna, è esposta nella sala di Apollo e Dafne, capolavoro berniniano altrettanto straordinario.
Si tratta del dipinto forse più famoso del Reni, che per esso si ispirò, oltre che a Raffaello e a Caravaggio, al gruppo scultoreo di Niobe e dei Niobidi (all’epoca esposto a Villa Medici e in un secondo tempo spostato a Firenze). Niobe è la figura mitologica dolente per eccellenza, in quanto Apollo e Diana le uccisero tutti i figli per punirla del peccato di hybris (tracotanza), essendosi vantata di avere molti più figli della dea Latona (che aveva avuto solo Apollo e Diana).
Il dipinto, che fissa i canoni di una bellezza ideale classica, fu a sua volta fonte d’ispirazione per altri artisti, tra cui Picasso per il suo Guernica.
Dal punto di vista compositivo, ci colpisce il chiasmo delle braccia al centro della scena con un pugnale alzato nel vuoto, come sospeso nell’attimo che precede la violenza. All’orrore della strage dei piccoli martiri innocenti si contrappone la visione celestiale degli angeli nella parte superiore, recanti le palme del martirio. E in effetti i bimbi fatti uccidere da Erode il Grande sono considerati santi dalla chiesa cattolica e festeggiati nel calendario poco dopo Natale.
Decisamente affascinante nella sua monumentalità e astrazione è il grande dipinto Atalanta e Ippomene, proveniente dal Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli (databile al 1615-18; ne esiste un’altra versione al Prado di Madrid) e inserito nella sala del Ratto di Proserpina, altro strepitoso capolavoro scultoreo di Bernini.
I corpi dei due protagonisti sono resi plasticamente nella loro nudità quasi totale ed emergono da un fondo scuro con il loro incarnato luminoso. Non si percepisce alcun elemento estraneo: solo il vento solleva platealmente le vesti, mentre la mitica cacciatrice Atalanta, velocissima nella corsa, si china a raccogliere i pomi d’oro che il furbo Ippomene ha fatto cadere per distrarla e vincere così la gara di corsa, che lei imponeva ai suoi pretendenti. Anche in questo dipinto si nota il chiasmo che deriva dall’arte ellenistica e romana, e nel caso specifico da una gemma antica.
L’ultimo confronto a tu per tu si ha tra Lot e le figlie (1615-16 ca.), proveniente dalla National Gallery di Londra, e i sei dipinti di Caravaggio conservati nella sala detta del Sileno (in particolare con il San Girolamo, la cui veste ha lo stesso rosso di quella del vecchio Lot). Nel dipinto di Reni il muto dialogo tra i personaggi, reso con un bell’incrocio di sguardi e gesti, si riferisce all’episodio biblico relativo alla decisione delle figlie di Lot, in seguito alla fuga da Sodoma, di concepire un figlio con il padre dopo averlo ubriacato.
A questo punto l’esposizione prosegue al piano superiore, nella Sala di Lanfranco, dove è esposta una lunga sequenza di paesaggi, a partire dall’ultima acquisizione della Galleria Borghese, che è all’origine della mostra: la Danza campestre (1605-1606). La scena, che vede dame e villani riuniti in cerchio per partecipare a una festa da ballo al centro di una radura, accanto a un ruscello, ha come sfondo un idilliaco paesaggio collinare con piccoli borghi e un castello. Mimetizzate in alto nel cielo, ci sono due mosche a grandezza naturale che sembrano voler infastidire l’allegra brigata. Quando il nostro sguardo le scopre, ci ritroviamo a chiederci se la loro presenza sia solo un gioco illusionistico, sul tipo di quello attribuito a Giotto da Vasari e più volte riproposto dagli artisti, o non abbia forse un significato più profondo, addirittura infernale. Poiché Belzebù significa letteralmente “Signore delle mosche”, i due insetti potrebbero forse evidenziare come il Male, con la sua lordura, possa insinuarsi nella danza.
L’altro arioso paesaggio di Reni è il Paesaggio con scherzi di amorini (1603), mentre altri suoi paesaggi sono inseriti come sfondo a piccoli deliziosi oli su rame a tema religioso (San Girolamo con due angeli in un paesaggio, Martirio di Sant’Apollonia, Ritorno dalla fuga in Egitto), provenienti da prestiti internazionali.
Il periodo tra il 1601 e il 1614, che vede Guido attivo a Roma, insieme a moltissimi artisti italiani e stranieri, è quello dell’intenso dibattito sul “naturale” e la pittura di paesaggio, considerata una specializzazione dei nordici, diventa terreno di sperimentazione comune. Troviamo in mostra alcuni quadri del fiammingo Paul Bril (tra cui Paesaggio col tempio della Sibilla di Tivoli), esposti accanto a quelli del veneziano Carlo Saraceni, caratterizzati dalla presenza di figure mitiche (Salmace ed Ermafrodito, Arianna abbandonata); troviamo pure gli emiliani Annibale Carracci, Francesco Albani, Domenichino e inoltre due collaboratori di Annibale, Pietro Paolo Bonzi, detto il Gobbo dei Carracci, e Giovan Battista Viola, tutti autori che contribuiscono al successo della pittura di paesaggio, al servizio dei due grandi promotori e committenti di questo genere, i cardinali Pietro Aldobrandini e Odoardo Farnese.
Di un periodo precedente sono il modenese Niccolò dell’Abate con il suo Paesaggio con dame e cavalieri (1550) e Agostino Carracci (Festa campestre, 1584), mentre Giovan Francesco Grimaldi è decisamente posteriore, datandosi il suo Paesaggio con cascata ai tardi anni Settanta del Seicento.
Come emerge dalla mostra, a Roma Guido Reni ha modo di confrontarsi e scontrarsi con altri artisti suoi contemporanei, tra paesaggio e figura, recependo molti stimoli, ma mantenendo sempre una sua autonomia di pensiero. Il suo periodo romano termina con l’importante affresco dell’Aurora (1613-14), commissionato dal card. Scipione Borghese per il suo casino (divenuto poi Pallavicini Rospigliosi), antitetico rispetto all’altro celebre affresco dell’Aurora del Casino Ludovisi, realizzato dal Guercino nel 1621.
Il catalogo, edito da Marsilio, è a cura di Francesca Cappelletti e sarà in libreria dal 17 marzo 2022. Oltre ai saggi della curatrice, si segnalano i contributi di Daniele Benati, Anna Coliva, Francesco Gatta, Raffaella Morselli e Maria Cristina Terzaghi.
Nica FIORI Roma 6 Maezo 2022
“Guido Reni a Roma. Il sacro e la natura”
Dal 1° marzo al 22 maggio 2022
Orario: da martedì a domenica, ore 9-19 (turni d’ingresso ogni ora, ultimo ingresso alle 17,45), chiuso il lunedì. Prenotazione obbligatoria: +39 06 32810 ; www.galleriaborghese.it