di Anna Maria MAZZIOTTI
Visioni del terremoto di Lisbona
Il sisma che, nel 1755, colpì la città di Lisbona, causando il crollo di metà degli edifici e circa 30000 vittime, fu la prima catastrofe dell’era moderna a provocare una vasta reazione nell’opinione pubblica europea; la notizia del terremoto non arrivò in tempi brevi in tutte le capitali, ma immediata, dopo la diffusione delle informazioni sulla tragedia, fu la nascita di un appassionato dibattito culturale. Tra le reazioni “filosofiche” alla notizia emergono il Poème sur le désastre de Lisbonne di Voltaire e la lettera con cui Rousseau rispose alle osservazioni di Voltaire.
Voltaire, nel suo poemetto, intese attaccare sia la teodicea secondo cui le calamità naturali sono una manifestazione dell’ira di Dio, sia l’ottimismo delle filosofie di Leibniz e di Pope;[1] mentre Rousseau negava che la realtà del sisma fosse inconciliabile con quella fiducia nella provvidenza su cui si fonda l’agire umano, individuale e sociale: il terremoto, notava, è un fenomeno naturale che diventa micidiale solo per la presenza di strutture e edifici nati non dalla necessità, ma dalle artificiose esigenze del progresso.
Rousseau, pur ridimensionando il significato dell’evento sul piano esistenziale e filosofico, riconosceva che, al di là delle indagini con cui gli scienziati cercavano di individuare le cause del disastro e i filosofi di ricavarne qualche riflessione sul destino umano, l’evento stesso era così touchant da suscitare in modo inevitabile l’interesse sia degli scrittori sia dell’ampio pubblico; e, in effetti, sia immediatamente dopo la catastrofe, sia negli anni successivi l’Europa fu invasa da una colluvie di commenti, opuscoli, testimonianze autentiche e apocrife, che spingevano tutte sul pedale del sensazionalismo, del pathos e, più raramente, tenevano conto degli interrogativi filosofici e scientifici posti dall’evento.[2]
Alla discussione sulla collocazione di una sciagura immane come il sisma nel “migliore dei mondi possibili” e a chi si impegnava a cercarne, con poco successo, le cause naturali, si oppose, con un certo seguito soprattutto popolare, l’opinione di coloro che vedevano nell’evento una manifestazione dell’ira divina: ebbe buon gioco il padre Gabriele Malagrida, celebre gesuita nato a Menaggio alla fine del XVII secolo, famoso per la sua brillante oratoria, protagonista di eventi straordinari e, si diceva, di miracoli, quando, dopo il sisma, in un testo di una trentina di pagine, derise le elucubrazioni degli scienziati: “não são Cometas; não são Estrelas; não são vapores, ou exalações, não são Fenômenos, não são contingenciais ou causas naturais”, afferma Malagrida “mas são unicamente os nossos intoleráveis pecados”. (fig. 1)
L’attacco di Malagrida si rivolgeva proprio a quei credenti che si ostinavano ad attribuire una causa naturale al terremoto, ignorando che il mondo non è una casa, ma “un dono” del Creatore, e che, come tale, può trasformarsi in strumento del suo giusto sdegno. Per asseverare che il terremoto fosse una manifestazione dell’ira divina, il gesuita naturalmente richiamava i modelli biblici, come la distruzione di Ninive e di altre città peccatrici, le parole dei profeti e alcuni passi dell’ Apocalisse. [3]
È in questo variegato e vastissimo intrecciarsi di motivi, di emozioni e di istanze che si inserisce la VII Visione di Alfonso Varano da Camerino, audace e originale tentativo di narrare, in diretta, per così dire, l’evento. Ferrarese, nato agli albori del XVIII secolo, nobile di antica stirpe, il Varano da giovane fa parte dell’Arcadia, pubblica poesie amorose di stampo petrarchesco, componimenti d’occasione ed encomiastici. Aderisce poi, in età più avanzata, a un modello di arcadia severo, a una spiritualità ancorata alla cultura gesuitica, un ambito letterario ampiamente esplorato, nel quale si addensa una folta schiera di cultori del “grave” e del sublime”, emuli del Tasso e degli oratori sacri, ancorati al culto barocco del meraviglioso, ma sensibili al fascino della Bibbia e di Dante, lettori di Ossian e di Milton; tutti riconoscendosi nella critica del cardinale Pallavicino che, già nel Seicento, ravvisava nei poeti barocchi l’assenza di “una profondità di discorso e di filosofia” [4], e nella teoria estetica del Gravina, favorevole a una poesia fondata sulla comunicazione di valori morali attraverso la rappresentazione del verosimile.
All’impegno morale questi autori spesso coniugano istanze di tipo nazionale, di cui è traccia anche nel Varano; ragione per cui l’autore delle Visioni conoscerà degli estimatori anche in personalità laiche come Luigi Settembrini, che rese onore alla serietà della sua ispirazione, e fu oggetto di straordinario apprezzamento da parte di Giacomo Leopardi.[5] (fig.2)
Le Visioni di Alfonso Varano da Camerino, pubblicate dal 1740 circa al 1770, nacquero come reazione dell’autore all’affermazione di Voltaire secondo cui il cristianesimo non presenterebbe elementi in grado di stimolare la fantasia dei poeti, come l’apparato delle religioni classiche; il Varano contesta a Voltaire la riduzione della poesia a “nemica dichiarata del vero”, fatta di “finzioni e falsità” rivestite di versi armoniosi e di belle frasi. Con le sue visioni egli intende invece rappresentare “il vero e il sacro” sotto “il velame delli versi strani, come dice il nostro Dante”. [6]
Non vi sono prove che il Varano conoscesse il poemetto di Voltaire sul disastro di Lisbona, ma è probabile che anche la settima visione prosegua quella polemica col filosofo illuminista, da cui scaturiva l’istanza stessa dell’opera varaniana. Egli aveva già affrontato il tema della fragilità umana (il vocabolo “frale” è una cifra del suo lessico) nella V Visione, dedicata alla peste di Messina, ma in quel testo, mentre affermava il collegamento tra empietà e sciagura collettiva, aveva inserito anche un momento celebrativo, l’apparizione della sua ava, Battista Varano, clarissa morta in fama di santità. [7] La VII Visione presenta invece una struttura complessa, ma lineare, che si svolge dall’alba della giornata del 1° novembre al tramonto, intrecciando echi letterari, suggestioni misteriose e particolari realistici in un clima onirico e angoscioso: all’inizio c’è un naufragio (il topos è proprio della narrativa epica, ma forse corrisponde a qualche notizia secondo cui il mare sarebbe stato sconvolto nell’imminenza della scossa). La descrizione, come sempre nel Varano, è particolareggiata: la nave affonda e il protagonista si trova sulla riva del Tago dove gli viene incontro una Guida che racconta una vicenda di ordinaria conversione: dopo essersi dedicato ad arricchirsi, in Brasile (terra dove i portoghesi avevano ampie occasioni di sfruttamento del territorio e della popolazione) si è convertito, è diventato sacerdote e poi eremita lasciando con disgusto l’”ampia cittade”, cioè Lisbona. Questa Guida, pur avendo una sua autorità, partecipa dello sgomento del protagonista, e in qualche modo accresce, con la propria, la sua angoscia.
Seguono alcuni eventi premonitori: una immagine della Vergine, nella chiesa dove il protagonista si reca per ringraziare della propria salvezza, versa lacrime (la chiesa può essere il celebre santuario di Santa Maria di Belem, ma il particolare della lacrimazione sorprende, perché è un fenomeno soprannaturale assente nella devozione del tempo. Si tratta tuttavia di un miracolo non destinato alla comunità, ma individuale; come tale, diffuso nell’ambiente gesuitico, dove si tramandava che sant’Ignazio avesse avuto decine di apparizioni di Maria); mentre la Guida, nel breve e tormentato sonno della notte precedente la catastrofe, riceve un esplicito messaggio dal profeta Ezechiele. Come il profeta narra di aver contemplato, per volere divino, i peccati commessi a Gerusalemme (Ez, 11) prima di conoscere la serie di sciagure con cui sarà colpita la Città santa, insieme alla Guida, dall’alto di un colle, il giorno successivo il protagonista contempla la città di Lisbona, ignara del proprio destino.
Nella sua visione Ezechiele assisteva a pratiche idolatriche e profane e la voce divina accusava i principi di Israele di aver versato il sangue innocente, di ingiustizie e di perversioni. La capitale che invece la Guida mostra al pellegrino offre alla vista
“su mille alte…moli pietrose”, “fastose volte di simulacri…onuste”, “ricche di globi d’or le cime auguste”, “palagi e fori ed archi” “flutti carchi d’innumerabil prore”, “su l’altere sponde i tesor di genti estranie”; mentre “…l’ Afre Americane Inde bandiere- E Perse ed Europee nell’aure molli- Volteggiavano pieghevoli e leggere”;
si notano inoltre gli “aggirati colli” coi destrieri adorni d’oro”; secondo una chiosa dell’autore stesso delle Visioni, i peccati dei portoghesi consistevano nello scarso rispetto per le chiese e nell’immodestia delle donne. A leggere il testo però il peccato appare l’eccesso di “delizia e maestade”, dunque la superbia, lo sfarzo, il benessere. Se vogliamo, il progresso. [8]
Fino a questo punto le descrizioni sono realistiche: l’elemento visionario si riduce a poche terzine di grande impatto visivo. Nel cielo appare un angelo che sale verso l’Empireo con un turibolo, nel quale sono raccolte le preghiere degli uomini (“umani incensi”): l’immagine è vivace e sontuosa, bianche sono le mani dell’angelo, “gemmato” il suo vestito, variopinte e luminose le ali, bello il viso. Accede a un altare “folto di lampi” sui siede l’Agnello di Dio, di cui è evocata “l’atroce-morte” redentrice; si sente allora una voce che incita l’angelo a riempire “l’aureo incensiero”, mescolando alle preghiere indegne l’ira suscitata in Cristo da chi schernisce la croce; l’angelo renderà così la degna “mercè…che l’onor mio t’ispira” a questi falsi devoti. Con uno sguardo “che spira strage” ( è una formula tassesca “minacce di morte il volto spira”) l’angelo mescola i lampi all’incenso delle preghiere, e versa tutto in terra, scatenando il terremoto.
È l’ “Agnello, come immolato” , che appare nell’ “Apocalisse” (Ap.5-6) e cui i vegliardi offrono in coppe d’oro le preghiere dei santi e dal cui altare infuocato un angelo con l’incensiere fa scaturire tuoni, fulmini e un terremoto (8,5). Tuttavia, l’interpretazione del tema da parte del Varano è paradossale. L’Agnello si esprime con una sorta di crudele sarcasmo: il terremoto è il giusto “premio” per l’offesa recata alla Croce dai falsi devoti. A parlare sembra non il Redentore, ma un monarca offeso che incarica un subordinato di castigare chi non ha rispettato l’”onore” del suo signore, oltraggiandone l’emblema.
I due personaggi hanno attraversato la città in rovina senza recare soccorsi a chi vi giace ancora vivo (il Malagrida fu accusato di aver avuto questo atteggiamento fra le rovine del sisma). I particolari sono macabri: corpi mutilati, sospesi, schiacciati, sanguinanti. Una tonalità patetica emerge nel caso della madre morente che invoca la salvezza del proprio bambino, dove il Varano sembra sviluppare un’immagine tragica evocata da Voltaire (i bambini innocenti, periti fra le braccia della madre); i due pellegrini si piegano ad assistere il piccolo, ma inutilmente. La madre, abbracciandolo per l’ultima volta, involontariamente lo soffoca; dunque, sembra suggerire il poeta, è la colpa dei genitori, non il volere di Dio, a determinare lo “scandalo” della soppressione degli innocenti. La descrizione del terremoto, ripercorre le fasi del sisma così come fu riferito all’epoca, compreso lo tsunami finale, nel momento in cui i due dall’alto vedono l’Oceano che
“Scorso su i lidi altissimo coll’onda-Divorò il flutto i fuggitivi invano-Dagli agitati colli uomini e belve-Scampo cercando su più fermo piano-E col moto, onde avvien che il mar s’inselve-Gonfio, in secche portò non mai solcate-Le armate navi entro l’opache selve.” (vv.567-574)
La visione si chiude col tramonto della terribile giornata.
L’autore non prende posizione contro la ricerca di una causa naturale del sisma: anzi, è il protagonista stesso, a rivelare alla Guida, quel che la scienza umana sa sui terremoti; come nel grembo della terra ci siano
“atre caverne- Zolfi, e pingui bitumi, e nitro lieve,-Fra cui piomba talor dalle superne- Volte spiccata selce…” (vv.300-303)
Dopo essersi cimentato in una tortuosa disamina delle forze naturali da cui scaturisce il sommovimento tellurico, l’autore riconosce che, quando gli effetti di questo naturale sommovimento travolgono le vite umane, di essi si deve attribuire la responsabilità alle colpe degli uomini che hanno provocato l’ira di Dio e la conseguente rivolta delle forze della natura. Questo avviene quando l’uomo aggredisce il “Tempio” stesso del Signore, in questo caso il castigo è inesorabile.
A parte questi versi argomentativi, l’opera, come molte fra le visioni varaniane, si configura come una serie di quadri, di descrizioni (il naufragio, la visione della Madonna piangente, l’evocazione di Ezechiele, lo spettacolo della città nel suo splendore, la visione dell’angelo vendicatore, la scossa, lo spettacolo dei feriti e lo tsunami), alcune realistiche, altre soprannaturali.
Tuttavia, mentre le prese di posizione, le descrizioni, i resoconti autentici o apocrifi di testimoni della catastrofe invadevano le librerie d’Europa, le arti figurative non presentavano un coinvolgimento così vario, ampio e autorevole. Il terremoto come evento naturale non è un tema frequentato dai pittori. Una di queste rare rappresentazioni si trova proprio non lontano da Ferrara, nella pinacoteca di Cento, dove il pittore Giovanni Battista Tinti (1558-1604) ha dipinto, sullo sfondo di un quadro di genere devozionale, gli effetti di un terremoto avvenuto nella città nel 1570. Sul disastro di Lisbona abbiamo alcune tele, per la maggior parte anonime, e delle incisioni; il tentativo di riprendere il momento del crollo della città era ovviamente un’impresa impossibile destinata a risultati deludenti. Più adatta alla figurazione pittorica, oltre che particolarmente drammatica, era l’onda altissima (tsunami) che venne a completare l’opera devastante del moto tellurico.
Le numerose incisioni che, in molte copie e riproduzioni, diffusero le immagini del sisma, come quelle conservate nell’ Archivio Nazionale Portoghese, presentano una visione della città dal mare, secondo la prospettiva propria di molte precedenti rappresentazioni di Lisbona (celebrata nella epigrafe di un’incisione come “multarum insularum africaeque et americae emporium nobilissimum”[9] ) e di altre città marittime, diffuse dalla seconda metà del Seicento in poi; ma, mentre le vedute settecentesche, in modo conforme al fine celebrativo, mostrano un mare calmo in cui incrociano i velieri, qui gli autori presentano l’oceano sconvolto da onde fitte e irregolari, in cui le navi lottano per sopravvivere o addirittura affondano: è spesso rappresentato il momento del maremoto, che seguì il terremoto e diede l’ultima scossa alle mura già pericolanti. L’elemento naturale, che nel vedutismo si fonde con gli edifici e l’opera umana in modo pacifico, qui irrompe con la violenza nella forma dell’onda che, dopo un anomalo ritrarsi del mare, che lasciò a secco le navi, si scagliò sulla costa e fu uno degli elementi che apparvero, all’opinione pubblica, più sensazionali. (fig.2)
Una fra le molte riproduzioni di queste incisioni anonime, inserisce, per mezzo di un vivace cromatismo, nella figurazione dello straordinario fenomeno alcuni elementi che proiettano sulla vicenda una luce soprannaturale: il riflesso delle fiamme esplode in un fulgore dorato in contrasto coi riflessi grigiastri che scendono dal cielo. E’ in atto il crollo di una chiesa, ed è imminente l’affondamento di una nave. In primo piano alcuni personaggi assistono all’evento. Nel dipinto non è evidente la presenza delle vittime, e i personaggi rappresentati in primo piano sembrano piuttosto gli spettatori sgomenti di uno fenomeno eccezionale. Nel complesso la rappresentazione oscilla fra il realismo e una interpretazione spettacolare dell’evento. (fig.3)
Su un livello del tutto diverso e tale da ravvicinarlo al testo varaniano si colloca il grande quadro di Joao Glama definito “allegoria del terremoto di Lisbona” e conservato attualmente nel Museo Nazionale di Arte Antica, di Lisbona (fig.4). L’artista, nato nel 1708, si formò con un lungo soggiorno a Roma, frequentando l’Accademia di San Luca, fu in stretto contatto con i pittori romani dell’epoca e sembra sia stato membro dell’Arcadia romana. Tornato a Lisbona, ebbe incarichi dal re Giovanni V e fu testimone della catastrofe del primo novembre.
Sappiamo che la prima opera di Joao Glama, con cui vinse un premio dell’Accademia di San Luca, era il martirio dei fratelli Maccabei: un soggetto non frequente, per i particolari eccessivamente truculenti della vicenda, che tuttavia si inserisce nel genere di poesia biblica e sacra cui si riferisce anche l’opera del Varano, prestandosi a una teatralità drammatica, nella celebrazione del “forte sentire”, di un eroismo che va fino al martirio, di cui i particolari, anche atroci, non sono ignorati.
Nella disposizione dei personaggi si può individuare una ripresa dell’ iconografia dell’ Incendio di Borgo: in fondo la figura del Papa è sostituita con un vescovo, sulla sinistra si notano dei nudi maschili, e in primo piano delle figure, soprattutto femminili, di cui alcune sono vittime del sisma. Mentre nella parte superiore del quadro volteggiano, in figura di angeli, le allegorie della Furia, della Collera e della Giustizia divina, nell’atto di piombare sulla città, la parte inferiore raffigura le conseguenze del sisma. Il tema religioso è anche qui prevalente: la figura dell’ecclesiastico in paramenti festivi (era il giorno di Ognissanti), ha alla sua sinistra un francescano col crocifisso in mano, mentre altri personaggi, atterriti, si abbracciano alla croce. L’artista rappresenta se stesso in due momenti diversi del quadro, in uno come spettatore, nell’altro nell’atto di assistere una donna ferita e il suo bambino. Particolare singolare, che trova un corrispondente nell’atto con cui nella Visione varaniana il protagonista e la guida si chinano sulla donna morente. I personaggi nudi alluderebbero a persone, che, rifugiate in un vicino ostello per miserabili, ne fuggirono al momento della scossa: se l’elemento visionario del quadro è di tipo barocco, nella parte inferiore (si vedano i nudi maschili, alcuni panneggi, la gestualità misurata dei personaggi) emerge una pietas sommessa, una sensibilità neoclassica che esclude i particolari orrorosi e macabri di cui si compiace, invece, la narrazione del Varano. (fig.4)
Rispetto all’interpretazione varaniana quella espressa da Joao Glama appartiene già a un momento successivo alla tragedia: il popolo si rivolge a Dio, si apre alla compassione e all’aiuto verso i colpiti dal disastro: siamo agli albori di quella visione umanitaria e razionalista, con cui il governo portoghese, reprimendo le manifestazioni più scomposte di un terrore foriero di fanatismo e superstizione, in grado di travolgere la classe dirigente del paese, impose e progettò l’aiuto ai sopravvissuti e la ricostruzione della città. Un’atmosfera se non normale almeno ricondotta a una dimensione umana appare in una stampa tedesca del 1755: intorno ai ruderi della città distrutta la popolazione si è adattata a vivere nelle tende, e appare alle prese con le esigenze della vita quotidiana e con alcuni tentativi di ripristino degli edifici danneggiati.
Nel 1757 Jean-Philippe Le Bas (1707-1783), artista che per le sue incisioni di vario genere ebbe a Parigi vasto successo fino a essere nominato nel 1782 incisore del re, nella sua opera Rovine della cattedrale di Lisbona, esclude sia qualsiasi particolare connesso alle cause, fisiche o metafisiche del sisma, sia i riferimenti religiosi; sotto un cielo in cui vagano placide nubi, emergono delle architetture mutilate, sul suolo sono disseminati massi e ruderi fra cui errano personaggi intenti all’osservazione e alla riflessione: ci confrontiamo con un esempio del rovinismo dei primi dell’Ottocento che fonde il culto neoclassico dell’antico con la poetica preromantica della memoria e dell’Ubi sunt. Qui, con singolare contaminazione, i personaggi meditano su una catastrofe avvenuta due anni prima, con lo stesso distacco pensoso col quale si soffermerebbero a meditare sui ruderi secolari della via Appia o su quelli di Pompei.
Nessuna figurazione del disastro di Pompei (fra cui la più drammatica, nell’Ottocento, fu quella di Brjullov) ha la potenza sobria, essenziale e inesorabile dell’evocazione operata da Leopardi nella Ginestra dove egli recupera dal Varano della VII Visione, opera culto della sua giovinezza, il tema della “fralezza” del genere umano, che per Leopardi, oltre a essere fisicamente indifeso, alla mercè delle forze della natura, è così psicologicamente debole e vile da credere di poter conquistare con le proprie forze o per dono di Dio l’immortalità. Il testo fa quindi giustizia del provvidenzialismo spiritualista, così come di qualsiasi ottimismo positivistico.
Rousseau aveva parlato del potenziale “poetico” della catastrofe: adatto a colpire un pubblico di letterati, che egli definiva sedentario, abituato a un’esistenza artificiosa. [10] La sua intuizione era acuta: nella seconda metà del XX secolo la produzione cinematografica con l’aiuto di effetti speciali sempre più potenti, e, dagli anni Novanta in poi, usando gli straordinari effetti della computer graphics, ha offerto il brivido della catastrofe al pubblico cresciuto nella società del benessere, creando un fortunato genere cinematografico con questo soggetto: raramente, tuttavia, la rappresentazione delle calamità, anche nella fiction televisiva più recente, si limita a riprodurre un evento naturale nella sua casualità largamente imprevedibile. Quasi sempre, pur senza ricorrere ad angeli che brandiscano spade o turiboli fumanti, è inserita una colpa umana (avidità, ignoranza, inganno) come aggravante, se non come causa, degli effetti del disastro; una interpretazione che, secondo i casi e la sensibilità, può apparire mistificante, inquietante, o consolatoria.
Anna Maria MAZZIOTTI Roma 20 Marzo 2022
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