di Giulio de MARTINO
La sentenza di Orazio: «Come nella pittura così è nella poesia» (Ars Poetica, 361) può illuminare di nitida luce la luminosa pittura di Gonzalo Chillida Juantegui (San Sebastiàn, 1926 – 2008). Pittore spagnolo, fratello dello scultore Eduardo Chillida (1924 – 2002), che si è collocato nel movimento dell’Astrazione lirica della pittura basca.
Come altri pittori del secondo Novecento, Cillida non trasferisce sulle tele, con colori e forme, la realtà o il mondo. Dipinge piuttosto la loro trasfigurazione poetica.
In mostra, a piazza Navona, nella sede dell’Instituto Cervantes, si vedono 34 suoi quadri, 10 litografie, una selezione tra fotografie e collage, provenienti dalla collezione della famiglia e da raccolte private e pubbliche come il San Telmo Museoa e la Colección Kutxa di San Sebastián, il Museo de Bellas Artes di Bilbao e la Fundación Juan March di Madrid. La mostra antologica copre un arco temporale che si sviluppa – con ricerche e cambiamenti progressivi – dal 1950 al 2007.
Cillida è partito dall’osservazione dei grandi maestri spagnoli esposti al Museo del Prado (Francisco de Zurbarán, Francisco de Goya, Juan Sánchez Cotán) ed è poi diventato – riattraversando più momenti della storia dell’arte – un pittore del mutevole e variegato paesaggio castigliano. Il mare, le sabbie, le foreste e il cielo sono stati da lui percepiti attraverso la silenziosa astrazione materica del visibile.
Come spiega il suo amico e poeta Gabriel Celaya, la pittura di Cillida deriva da una intuizione «poetica» della realtà. La poesia – diremmo anche l’«intuizione» – fa sorgere quei sentimenti mentali che il segno e il colore possono trasformare in immagini pittoriche.
«La mar me atrae de una manera especial. Nunca quise vivir sin verla. Esto no quiere decir que sòlo me impressione este paisaje, pues tambien me emociona Castilla, con sus grises, ocras y tierras rojas, sus llanuras como mares»[1],
ha scritto Cillida, imprimendo nelle sue parole i pigmenti e le figurazioni della sua pittura.
La poesia – la percezione intuitiva – ci apre alla comprensione del processo di costruzione delle opere di Cillida e va intesa come una prassi interiore, una lingua di traduzione tra il mondo della materia naturale, lo spazio interiore dell’artista e la tela dipinta.
Ma non bastano questi elementi personali per farci entrare nel mondo pittorico di Gonzalo Cillida. L’artista spagnolo ha condiviso, con molta pittura dei decenni centrali del Novecento, l’esigenza di una rivisitazione sincronica della «storia dell’arte». La sua evoluzione è avvenuta, prima, con l’apprendimento di simboli e di codici di altri pittori, attraverso lo studio della figurazione dal tardo Medioevo al Rinascimento, e poi assimilando molte altre contaminazioni e influenze presenti nella pittura americana e europea degli anni ’50 e ’60.
Si era iscritto nel 1947 all’Accademia di Belle Arti di San Fernando di Madrid e aveva frequentato le classi di disegno del Circolo di Belle Arti. Tra 1951 e 1953 approfondì i suoi studi alla “Scuola di Spagna” a Parigi. Il suo stile era di carattere realista, con influenze del cubismo, e diede origine ad una pittura di struttura geometrica.
Appassionatosi all’archeologia e al mondo antico, in occasione di una mostra collettiva all’Accademia di Spagna a Roma nel 1955, documentò il sito etrusco di Cerveteri, sviluppando curiosità intellettuale per l’arte preistorica basca e per il mondo minerale e dei fossili interpretabili come materiali per il disegno, ma anche come precursori della materia cromatica informale.
A partire dagli anni sessanta la sua pittura sarebbe cambiata per indirizzarsi verso una sempre maggiore astrazione pur partendo da elementi del paesaggio reale com’erano il mare e le spiagge di fronte a San Sebastián, i paesaggi della montagna basca e i panorami della meseta castigliana. La categoria – pur generica – dell’«astrazione lirica» spiega quella linea pittorica divergente rispetto all’avanguardia cubista e surrealista che l’avevano preceduta, come pure rispetto all’astrazione geometrica e alla pittura neorealista del secondo Dopoguerra.
Anche la fotografia svolse una funzione di primaria importanza nella ricerca di Chillida come linguaggio di traduzione: astraeva le forme bidimensionali, i chiari e gli scuri dalla materia fisica per farli diventare segno e traccia cromatica per la tela.
A partire dagli anni ’80, le diramazioni del colore di Chillida avrebbero gradualmente sostituito le partizioni del disegno fino generare fasce e zone cromatiche che fermavano la luce lì dove si raccoglieva, più che illustrare il paesaggio. Gli elementi formali avrebbero generato opere composte secondo principi estetici, piuttosto che attraverso rappresentazioni visuali di realtà sociopolitiche o di teorie filosofiche.
L’evoluzione estetica di Chillida – sintonica con diverse tendenze dell’arte americana dei grandi spazi – ci consente di ripercorrere passaggi psicologici e culturali decisivi dell’arte del Novecento. Vediamo il cambiamento progressivo della lingua pittorica: le forme diventano quasi indefinite, essenziali e minimaliste, il mare, la spiaggia e la montagna scompaiono nella loro vastità e si riducono ad un dettaglio, ad un microcosmo, ad un frattale che possa venir trasferito su di una tela.
La Mostra:
Gonzalo Chillida
Curatrice: Alicia Chillida
Sede: Sala Dalí dell’Instituto Cervantes – Piazza Navona 92, Roma
Date: 19 marzo – 9 luglio 2022
Orario: dal martedì al sabato, dalle ore 16.00 alle ore 20.00
Realizzazione: Instituto Cervantes di Roma, Acción Cultural Española (AC/E), Museo de Bellas Artes de Bilbao e Etxepare Euskal Institutua.
Giulio de MARTINO Roma 20 Marzo 2022
Nota