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Anna Coliva certamente ha lasciato un segno profondo nel corso degli oltre 25 anni passati alla Direzione della Galleria Borghese, conferendo altresì uno straordinario rilievo internazionale a quello che è riconosciuto come uno dei maggiori siti museali del nostro paese, in forza delle ricerche promosse, delle esposizioni realizzate, delle conferenze e dei convegni organizzati, nonché delle campagne di conservazione, studio e promozione messe in atto. Tra i numerosi straordinari capolavori, orgoglio della collezione, s’inserisce da qualche mese il dipinto raffigurante la Danza Campestre, da cui l’attuale Direttrice, Francesca Cappelletti, ha intelligentemente preso spunto per mettere finalmente sotto i riflettori un geniale artista, Guido Reni, che non era considerato come uno dei protagonisti del genere paesaggistico. Su questo argomento, sui retroscena e sul valore dell’acquisto, sulla mostra, Anna Coliva ci ha rilasciato una importante intervista.
-L’esposizione che si è aperta lo scorso 1° marzo alla Galleria Borgese dal titolo Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura, presenta un dipinto –tra tanti capolavori- molto significativo e ormai famoso, cioè la Danza campestre, un olio su tela, 81 x 99 cm, comparso sul mercato antiquario londinese nel 2008 come opera di anonimo bolognese e poi acquistato dalla Galleria grazie a te che ne avevi dimostrato l’appartenenza alle collezioni del cardinale Scipione Borghese; se ne è scritto e parlato moltissimo, ma alla fine possiamo dire che è stata la degna conclusione della tua opera di Direttrice?
R: È una acquisizione alla collezione Borghese che mi è particolarmente cara per molti motivi. Il primo in quanto studiosa, perché il quadro mi apparve subito la prova di quanto avevo intuito nei miei studi sulla pittura di paesaggio tra Bologna e Roma alla fine del Cinquecento. È un dipinto all’interno della tradizione emiliana di passaggio riconducibile per tutti a Nicolò dell’Abate e dominata dalla rivoluzionaria innovazione portata dai Carracci alla fine degli anni Ottanta che culminarono nelle straordinarie invenzioni di Annibale nelle tele con Caccia e Pesca del Louvre. Già prima che venisse conosciuto un unicum come la Danza campestre avevo ipotizzato che anche Reni avesse avuto un ruolo nel passaggio fondamentale per la nascita della pittura di paesaggio. Lo deducevo dagli inserti paesistici dei suoi dipinti di figura, magari visibili negli sfondi; e lo inducevo dalla eccezionale capacità di ramificazione dell’influenza di Guido fin dai suoi esordi. Questo quadro è apparso proprio come l’anello mancante. È un’opera cruciale per l’originale capacità di espressione del sentimento della natura che in esso si rivela.
Il secondo motivo fu di aver riportato nella Villa un’opera che apparteneva dall’origine alla sua collezione. Infine perché ho potuto concludere l’acquisto a un prezzo molto vantaggioso per lo Stato e credo che questo sia doveroso. Infatti, con l’autonomia dei musei voluta dalla riforma Franceschini, la responsabilità degli acquisti è del Direttore in prima persona che se ne fa carico con il proprio bilancio di cui deve rispondere. Non è delegata al Ministero e alla sua approvazione e non si avvale di fondi erogati dal centro.
Parlando di nuove acquisizioni per il Museo, una soddisfazione analoga, e forse maggiore, era stata di ricevere la donazione del Ritratto di Giulio Sacchetti di Pietro da Cortona dalla marchesa Giovanna Sacchetti a nome della sua Fondazione, impegnata in una attiva azione di sostegno alle istituzioni culturali italiane. Si tratta di un’opera davvero insigne per il museo. O quella del corredo da scrittura di Paolina Borghese da una discendente. Sono tutte donazioni che considero riconoscimenti personali.
–Il tema del paesaggio in effetti per quanto concerne Guido Reni è tornato in auge proprio in forza del ritrovamento di questa Danza Campestre; sei d’accordo con la scelta fatta di inserire a corredo della mostra altre tele di altri pittori di paesaggio dell’epoca ? ce ne potevano essere altri oltre a quelli in esposizione ? e a questo punto non ritieni debba essere approfondita se non riscritta l’intera questione della nascita e dell’affermazione del genere paesaggistico, solitamente ascritta a pittori oltremontani?
R: Come ho detto questo quadro è il logico risultato della cultura di paesaggio a Bologna, con i suoi retaggi da Parmigianino, Dosso, Nicolò dell’Abate e i nuovi orizzonti che apriva Annibale. Non è stata affatto una sorpresa per me la scoperta che anche Reni avesse prodotto uno di quei paesaggi autonomi, liberati dal vincolo illustrativo di attributo alla scena, in anni in cui tutti i seguaci di Annibale e Agostino vi si misurano -e alcuni vi si specializzano- come Domenichino, Albani, Viola. Questo di Reni è un quadro molto precoce che non può avere una datazione posteriore al 1601-’02, gli anni dell’arrivo di Reni a Roma con ancora ben vivo il suo bagaglio bolognese. È un’opera tipica del naturalismo di derivazione carraccesca che percorreva Bologna e l’Emilia in quel momento. Vedo invece che si tende a spostarlo al 1605 o ’06 addirittura. Non credo che sia una datazione sostenibile, innanzitutto per ragioni stilistiche. Questo dipinto è un’affermazione assolutamente singolare, in una fase di acuta sperimentazione precisabile a quel giro di anni di passaggio al Seicento. Presenta, nelle figure una verticalità ancora di origine ludovichiana e il disarticolato allungamento degli arti che caratterizzò Guido nelle piccole figure eseguite alla fine del ‘500 che lo accomunava a Mastelletta.
La datazione al suo momento di passaggio tra Bologna e Roma è confermata d’altronde dall’altro quadro-novità in mostra, il Paesaggio con scherzi di Amorini, che non può che essergli posteriore di almeno due o tre anni.
Reni non svilupperà oltre la tematica degli Amorini, preferì affidarla ad Albani.
Tra l’altro per le ragioni e i rapporti acutamente espressi da Massimo Pulini proprio su About Art on Line, quando afferma che alcuni generi pur di moda (appunto pittura di paesaggio o di Amorini) in cui aveva “centrato difficili bersagli”, furono abbandonati subito da Reni che non ci ritornò più sopra.
La datazione della Danza campestre è anche completamente svincolata dalle committenze Borghese iniziate al momento dell’elezione di Paolo V al soglio, nel 1605. Per quel pochissimo che posso aver capito delle dinamiche collezionistiche di Scipione Borghese, non credo si sia trattato di una committenza diretta ma piuttosto di un acquisto di un quadro già sul mercato. Che forse fu proposto al Borghese dopo che egli scelse Guido come suo pittore per importanti imprese, cosa che potrebbe aver fatto capire ai numerosissimi intermediari che si aggiravano nelle corti romane che quella era un’opera che lo avrebbe potuto appassionare.
A proposito dell’altro tema ‘occasionale’, il Paesaggio con scherzi di Amorini, credo che l’autografia vada senz’altro rivista. La mano di Guido si limita ai putti in alto a sinistra tra le nuvole e, forse, alla scelta dell’azzurro smaltato del cielo. Tutto il resto, alberi, acque, le altre figure dei putti, è opera di Albani.
Riguardo alla storia della nascita della pittura di paesaggio, non credo fosse lo scopo di questa mostra. Ma è certamente una storia che va ancora scritta e io l’avrei in mente un po’ come la nascita della Natura morta che provai a spiegare a suo tempo in una mostra. Significa l’origine del paesaggio autonomo, non di episodi di pittura di paesaggio in altri contesti e quindi semplici attributi. Così come l’origine della natura morta non va ricercata in episodi di riproduzioni “dal naturale” in antichi quadri fiamminghi. Quello che è da ricercare è la consapevolezza dell’autonomia linguistica del paesaggio in pittura. Una storia della nascita della pittura del paesaggio autonomo non può che prendere il via dalla radicalità poetica di Annibale nel suo approccio naturale al reale, rifiutando l’irrigidimento nei “generi”. Così come l’origine della natura morta non può prescindere dalla radicalità poetica di Caravaggio. La presenza di paesaggi oltramontani -Brill per esempio- è utile proprio per consentire al pubblico di percepire questa netta differenza anche laddove, nelle dinamiche del mercato romano, possano trovarsi a lavorare sugli stessi cantieri, come accadde nell’attuale Casino Pallavicini.
-Che ne pensi dell’allestimento e del fatto che determinati capolavori siano messi a confronto con le sculture straordinarie di alcune sale della Galleria? Tu avresti fatto lo stesso? E a tuo parere questo di allestimento è all’altezza dei grandi capolavori esposti, cioè a dire riesce a fornire al visitatore la piena fruizione delle opere.
R: È magnifico vedere certi quadri di Guido Reni assieme alle sculture di Bernini. L’Atalana e Ippomene per esempio è il perfetto contrappunto dell’Apollo e Dafne: sono due composizioni impostate sullo stesso ritmo, che nella prima le allontana tra loro e allontana lo spettatore; nella seconda le riunisce e lo spettatore ne è travolto.
Se si osservano accanto, ora che se ne ha la possibilità essendo collocato Reni qualche stanza più in là dell’Apollo e Dafne, si vede come, con una tensione uguale e contraria, Dafne si slanci in alto e Atalanta in basso in una danza che si ricompone eternamente. Ma in entrambe l’azione è solo simulata, in realtà tutte le figure sono bloccate nell’atto e il movimento è evocato solo dai panneggi e dalla traiettoria imposta dalle chiome di Atalanta e di Dafne, di Ippomene e di Apollo, che vivono di vita propria. Cambia però la simulazione dell’azione, il movimento di Atalanta e Ippomene è reso nell’immobilità dell’assoluto, è la più alta intelligenza della miracolosa capacità di Raffaello di riportare il divenire all’assoluto. Basta un confronto col movimento immobile ed eterno della Deposizione di Raffaello collocata al piano di sopra della Galleria, del vento misterioso che agita le chiome del giovane portatore.
L’Apollo e Dafne di Bernini rappresenta l’illusione del movimento, è il suo teatro. L’intento allegorico è comune, in Reni rappresentato in una eternità metafisica, in Bernini nella sensuale immanenza individuale dell’esistere.
Come l’Atalanta e Ippomene, anche l’intera serie delle Fatiche di Ercole per Ferdinando Gonzaga sarebbe direttamente confrontabile con i gruppi borghesiani di Bernini. Reni la stava eseguendo contemporaneamente al Ratto di Proserpina per il tramite di Andrea Barbazza, influente letterato della corte borghesiana ben conosciuto da Bernini e dal Cardinal Scipione Borghese. Pertanto entrambi dovevano essere ben a conoscenza del progetto in cui le tematiche e le soluzioni formali sono così sorprendentemente simili. Vi è la stessa concezione di ampia, melodrammatica esibizione di un’azione agita da una figura monumentale o da una coppia, che rendono tutte queste figure -scolpite o dipinte- possenti immagini corporee. La loro figuratività è ampia, appagante, sono straordinariamente simili nella diametrale differenza che indicavo tra Atalanta e Dafne. Basta confrontare il Ratto di Proserpina con il Nesso e Deianira di Reni; o l’Ercole e Idra con il David.
Sono tutte opere che si richiamano all’attualità di Rubens cui Bernini, nel Ratto, è debitore per la Maddalena in lacrime della Deposizione del 1608 ben più che per La strage degli Innocenti di Reni come normalmente si ripete; ma anche per la composizione della Borea che rapisce Orizia, quadro eseguito da Rubens nel 1615. Ma d’altra parte l’influenza di Rubens su Reni era già evidente nelle figure della cappella Paolina a Santa Maria Maggiore.
L’insieme di questi straordinari capolavori costituisce un vero paradigma della narrazione, essi possono fungere da manifesto figurativo del gusto e delle inclinazioni, delle aspettative e delle ambizioni, della Roma borghesiana. Mi ero ripromessa di raccogliere tutte queste opere assieme nella Villa Borghese. Sarebbe veramente una “mostra di paradiso”.
-E’ noto che Reni non ebbe vita facile a Roma nonostante la grandezza delle sue prove artistiche, se consideriamo che –secondo il Malvasia- né Annibale, né, tanto meno, Caravaggio ne apprezzarono l’arrivo nella città eterna, senza considerare le pressioni dei committenti (si pensi ai Borghese); secondo il tuo parere questo contrasto fu dovuto a motivi di concorrenza o non invece a questioni di carattere artistico?
R: In un mio recente articolo ho provato a spiegare la difficoltà del rapporto di Reni con Roma, non si trattava di concorrenza ma di diversa concezione professionale del ruolo dell’artista, che a Bologna assicurava una condizione di piena dignità professionale, mentre a Roma era subordinato alle logiche e agli arbitri di un potere assoluto, feudale, molto diverso da quella condizione di piena dignità professionale cui Bologna aveva abituato anche Annibale, che ne soffrì nello stesso modo ma senza aver avuto la forza di fuggire. Riguardo alla rivalità con Caravaggio sceneggiata da Malvasia, che d’altra parte egli trae dai racconti raccolti molto più tardi anche dallo stesso Guido, credo che non esistette affatto, Reni lo osservava, ne ammirava i quadri che d’altronde acquistava ma non ne pativa affatto il confronto.
È importantissima la presenza della Crocifissione di Pietro in mostra, poiché da esso risulta evidente come sarebbe banale e profondamente inesatto parlare di un periodo caravaggesco di Guido Reni. La migliore e più attenta storia dell’arte l’ha già detto. Dalla contestualità dei quadri si capisce come Reni voglia adottare un tenebrismo che era nello spirito di quegli anni, grazie a Caravaggio certamente, ma che si era affermato come un’attualità del gusto, potremmo dire una moda. Reni non è mai naturalista, perché la verosimiglianza corporea, il gioco delle luci e delle ombre Reni li ottiene tutti attraverso la sua capacità di disegno anche quando usa il pennello. D’altra parte nei disegni di studio (non schizzi compositivi) si vede perfettamente come Reni raggiunga la consistenza corporea attraverso un uso plasmante del disegno che è intrinsecamente cromatico, connotato in termini cromatici. Ottiene il volume delle sembianze attraverso il colore che, se è così plasmante, è perché ha la stessa capacità costruttiva del suo modo di disegnare. Non basta un’unghia sporca a fare caravaggesco. Soprattutto se l’unghia è alla fine di un dito in una mano che ha una forza plastica sospesa tra Rubens e Bernini.
Padroneggiando come nessuno le gamme coloristiche, Reni insegna che il colore non è fatto solo di tinte celestiali ma anche di colori terreni, scuri. È molto importante che in mostra ci sia un capolavoro come I Santi Pietro e Paolo. Certo, è molto probabile che fosse Caravaggio stesso a proclamare di venire imitato, come racconta Malvasia riferendo di una irascibilità assolutamente verosimile. Ma in quel contesto era Caravaggio a essere prevenuto. Vogliamo essere più teorici? Come dice in maniera definitiva Bellori, Caravaggio si mette di fronte alla natura senza la mediazione del giudizio. Noi, invece che ‘giudizio’ diremmo ‘disegno’. Reni si impossessa della realtà attraverso la sua prodigiosa, profonda, strutturale, capacità di disegnatore. Per cui Reni non ha bisogno di Caravaggio per soddisfare e conquistare un’inclinazione del gusto del momento. Nel Loth e le figlie messo a confronto nella sala di Caravaggio si vede perfettamente: con la straordinaria padronanza spaziale della pittura di chi ha appena trasformato il catino di una cappella (quella dell’Arca di San Domenico) in tre grandi protagonisti: il giallo oro del cielo, il bianco del mantello di Cristo, il blu della Madonna.
Tre colori che fanno figura. Vicino a Caravaggio si rischia di rendere difficilmente comprensibile, per ampiezza barocca, la tragica asprezza del lume caravaggesco.
Non bisogna farsi prendere troppo la mano dalle fonti del Seicento che ricamano a posteriori sulle differenti “maniere”. Appartengono tutte a dei coltissimi semplificatori. Superlativi semplificatori, ma semplificatori che si esprimono sulla pittura ma anche riguardo sul ‘la Ginnastica’, la ‘Musica’, il ‘Modo di governare’. Il Marchese Giustiniani spiega a dei gentiluomini come si balla, si caccia o ci si orienta tra i pittori; l’archiatra Mancini semplifica con le varie “maniere” la sua opera divulgativa, anche se suggestiva e comunque utilissima. Ma la grande vitalità della pittura di quei giorni non può essere ridotta a quello schematismo. Mancini, poi era molto interessato, come ironizzava qualche suo contemporaneo, ad entrare in familiarità con principi e cardinali, cosa che gli riuscì dando loro lezioni d’arte.
La pittura fatta dai pittori in quegli anni è così prodigiosamente avanzata da precedere e sopravanzare la capacità della parola critica. A quel tempo l’arte non aveva ancora generato tale parola.
-Per ultimo vorrei sapere se, considerando il notevole ruolo giocato nell’acquisizione della Danza Campestre, hai avuto un ruolo anche nella progettazione e nell’organizzazione di questa esposizione.
R: L’ho fatto per tanto tempo…qui voglio essere spettatrice.
P d L Roma 31 Marzo 2022