Dalla mostra di Palazzo Strozzi, riflessioni su Donatello “che in la scalptura a iudicio di molti, ancora non have avuto superiore”.

Ivo BOMBA

Materialità energica e vitale”.

Karl Friedrich von Rumohr, Italienische Forschungen

fig. 1 – Attis-Amorino (dettaglio), 1435-40, Museo del Bargello, Firenze

Esaltato fino al parossismo, impertinente come Krishna bambino, Atys-Cupido o Aion il polimorfo, ha la coda di Pan, le ali di Eros sulle spalle e quelle di Mercurio ai piedi.

Eone in aspetto di fanciullo giocoso che getta i dadi, secondo Erwin Panofski, ha sotto il piede destro un serpente agatodemone che lo collega ad Ercole bambino.

FIG 2

fig. 2 – Donatello, Attis-Amorino, 1435-40, Museo del Bargello, Firenze

Mercurio, Perseo, Lucifero addirittura. Del dio frigio Atys ha solo i pantaloni anassiridi, che qui, trovandoci in Toscana, fanno pensare a quelli dei butteri, quei gambali di pelle indossati dai vaccari mitici, dalla Maremma al Marlboro Country. Donatello li ha allacciati al cinturone di cuoio decorato con le capsule di papavero che sono attributo di Hypnos. “Angiolo-mostro”, Eros Pantheos, questo Cupido polimorfo venne pensato per un circolo di eruditi fiorentini esperti di sincretismo religioso, cultori di esoterismo, lettori appassionati degli Hieroglyphica e dell’Hypnerotomachia affascinati dai miti ambivalenti. Nei secoli interpretato come Amore libero dalle pene (Semper), come Arpocrate (Weber), Mithra alato (Picard), genio del vino (Janson), Amor-Hercules (Siren), questo bronzo alto un metro troneggia nella terza sala di palazzo Strozzi.

fig. 3 – Sala degli ‘spiritelli’ a palazzo Strozzi ©photoElaBialkowska

Esso non chiede di essere nuovamente interpretato. Che rimanga “il portentoso indovinello, formato di bellezza puerile e ferina”, di cui parla Emilio Cecchi, e sia per noi forma esemplare di quel paganesimo antico che rinacque nella nostra terra colta e contadina, feconda di novità legate misteriosamente all’antico, in quella ineguagliabile stagione della cultura d’occidente. Qui “pagano” deve aderire all’origine etimologica della parola, ‘proprio dell’abitante del villaggio (pagus)’, per i primi cristiani ‘arretrato’ rispetto alla conversione alla nuova religione che si diffondeva nelle grandi città, a cominciare da Roma. Ancora legato (e perché non avrebbe dovuto esserlo?) alle antiche credenze, a quei rituali che ancora oggi sopravvivono sopratutto nelle campagne.

Il radicamento nella simbologia e nei rituali precristiani, laddove il sincretismo religioso degli antichi crea un sublime turbamento, caratterizza l’arcaismo di Donatello, artista cristianissimo che ha veramente messo in croce un contadino. La perfetta commistione di rozzezza e raffinatezza caratterizza tutta la sua opera e la sua persona: Pietro Summonte scriverà di lui

omo rozo e simplicissimo in ogni altra cosa, excepto che in la scalptura, in la quale, a iudicio di molti, ancora non have avuto superiore”.

Un arcaismo primario e una modernità spinta fino alla più coraggiosa delle avanguardie, l’arte sua è lì dove gli estremi si toccano, su quel limite dove nasce il sublime.

La bella mostra fiorentina curata da Francesco Caglioti ci permette di ripercorrere la strada aperta con colpi decisi da questo artista coraggioso, libero e prodigioso.

La sala 3B a palazzo Strozzi è dedicata al ritorno  degli ‘spiritelli’, come venivano chiamati in quel secolo i putti della tradizione antica. In mostra quello proveniente dal Bargello, primo esperimento di fusione scartato dall’autore, forse il primo vero “bronzetto” all’antica del Rinascimento, e che probabilmente, come lo Spiritello di Berlino, fu realizzato per il Battistero senese; i due Spiritelli portacero del Jacquemart-André, quasi uccelli inusitatamente grandi che stavano appollaiati, sempre pronti a riprendere il volo per il Paradiso, agli angoli della balaustra della Cantoria di Luca della Robbia.

fig. 4 – Donatello, Due spiritelli (dalla Cantoria di Luca della Robbia), 1439, (Musée Jacquemart-André, Parigi

Il genietto-cherubino, proveniente dal Metropolitan Museum, probabilmente era una delle protomi che decoravano in origine i riquadri inferiori della Cantoria di Donatello in Duomo. La sala collegata è dominata dalle realizzazioni per Prato: due delle grandi formelle della balaustra con gli spiritelli danzanti sul fondo di mosaico vitreo, il capitello bronzeo inventato come base del pergamo e fuso da Michelozzo nel ’33 e il prezioso reliquiario del Sacro Cingolo realizzato da Maso di Bartolomeo nel ’46 ispirandosi alla Cantoria fiorentina del Maestro rivisitazione, forse su suo suggerimento, dei cofanetti eburnei bizantini.

fig.-5-La sala degli spiritelli alla mostra di Palazzo Strozzi

I fanciullini nudi e alati, accompagnando il soggetto principale dell’opera, avevano una funzione decorativa e simbolica essenziale (del decoro non si può fare a meno!), dapprima legata alla sfera attinente alla morte come nell’antichità ma poi, grazie all’uso di passare il limite proprio di Donatello, associata a fini diversi. Una sorta di coro che accompagnava l’azione o caratterizzava il personaggio ritrattto, essi erano gli “infallibili motori di un’animazione perpetua della scultura”, si pensi ai genietti mesti che reggono la ghirlanda che cinge il sarcofago di Ilaria del Carretto scolpiti da Jacopo della Quercia (1406-8) o a quelli bronzei che festeggiano la celebrazione del sacramento posti a coronamento del fonte battesimale di Donatello a Siena (1429).

fig. 6 – La Cattedrale di Prato con il pulpito di Donatello

Il pergamo per le ostensioni solenni della sacra cinta della Vergine, la venerata reliquia conservata a Prato, venne pensato da Donatello come un gigantesco calice liturgico incastonato nell’angolo destro della facciata della chiesa. Ai tempi del contratto che Michelozzo aveva firmato nel 1428 la balaustra avrebbe dovuto essere decorata con sei coppie di putti a reggere scudi con gli stemmi della città, una per ogni formella, simili a quelle con cui aveva decorato il pastorale di San Ludovico di Tolosa. E’ nota la vicenda del contratto che non venne onorato per ben cinque anni antecedendo i due il viaggio a Roma e gli impegni  presi a Napoli e Siena. Quando finalmente, al ritorno da Roma insieme al “chompagno” nel ’32, si decise ad assolvere l’impegno preso, Donatello cambiò radicalmente idea sulla decorazione del parapetto dando ai putti una libertà di moto e di spirito destinata a mutare definitivamente la loro funzione espressiva: da putti reggistemma a spiritelli danzanti.

fig. 7 – Donatello, Danza di Spiritelli, Prato, Museo dell’Opera del Duomo)

Il pergamo divenne una delle più folgoranti invenzioni architettoniche del primo Rinascimento: una folie, una giostra la cui copertura sembra sollevarsi per la spinta generata in basso dal vorticoso moto circolare della sfrenata danza estatica. Donatello, a Prato, dette agli spiritelli quel ruolo di protagonisti assoluti che culminò nella Cantoria per Santa Maria del Fiore (1433-9). La loro euforia non accompagna più un’azioni rappresentate dall’artista, ma suscita e rispecchia la contentezza reale di chi abita lo spazio antistante l’opera, ha la funzione di esprimere, di esaltare un sentimento reale, che si tratti di quello dei cittadini raccolti sotto al pulpito pratese per la festa della Cintola o quella che fu dei fedeli riuniti a cantare nella Cattedrale fiorentina. Pathos allo stato puro. Gli spiritelli donatelliani sono Pathosformeln accomunate da un sentimento dell’antico che trascende ogni classicismo, che rivela la geniale intuizione del persistere dell’essenza più sacra e più potente dei sentimenti che animano ogni rito collettivo, religioso o culturale.

fig. 8 – Donatello, Cantoria del Duomo, 1433-9, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze

Documentatissima fin dal 1433 la Cantoria per Santa Maria del Fiore, meglio la ‘tribuna da organo’, perché tale fu come quella di Luca della Robbia, venne terminata nel ’39. Come quelli del pergamo di Prato, nella cantoria fiorentina i putti, danzano suonando gioiosamente per accompagnare una celebrazione archetipica che trascende sia i modi di quella dionisiaca che di quella cristiana. Donatello sostituì lo schema decorativo a formelle, adottato da della Robbia, con un fregio continuo, simile a quello dei sarcofagi romani, collocandolo entro una cornice di colonnine abbinate in corrispondenza delle cinque mensole che sopportano tutta la balaustra per sintonizzarsi con il ritmo lineare di quella precedente di Luca.

fig. 9 – Luca della Robbia, Cantoria per il Duomo, 1431-8, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze

La tribuna di Donatello è una delle architetture più riccamente decorate del Rinascimento, trionfo della pietra che reca in se la memoria di Baalbek e di Palmira, magnificamente oberata come gli esempi più sofisticati dell’oriente greco-romano, innestata di stili dall’ellenistico al bizantino, di gusto decisamente eclettico laddove quella di Luca della Robbia era di una misura tutta classica. Mistilinee le mensole, risultato di un assemblaggio di forme eterodosse, tarsie marmoree che diventano aggetti possenti; ricchissime le cornici decorate con antefisse che rivelano l’adesione alla sotterranea corrente neo-etrusca che percorreva quel sottosuolo in quella stagione dell’arte fiorentina.

fig. 10 – Donatello, Cantoria del Duomo (dettaglio), 1433-9, Museo dell’Opera del Duomo, Firenze

Usando il mosaico vitreo per staccare le figure, Donatello ha onorato Arnolfo, nume tutelare dell’arte fiorentina, ricollegandosi al Monumento funebre del cardinale Annibaldi visto in Laterano durante il soggiorno romano, forse nella forma ipotizzata dalla Romanini con una serie di colonnine anteposte alla processione dei chierici, idea che Donatello riprese nella tribuna fiorentina quando creò il corridoio lungo il quale si rincorrono gli spiritelli danzanti. Mentre i dischetti di pasta vitrea che riflettono e colorano la luce, sono sparsi nello stesso modo sul fondo e sulle colonnine della balaustra, il fondo aureo uniforme esalta il valore emblematico delle due coppie di putti nel registro inferiore. Donatello, come i maestri cosmati, ha distribuito sapientemente tessere vitree sull’intera struttura diversificandone le parti, illuminando i lacunari del registro inferiore e facendo brillare le antefisse etrusche.

Lo stupore, manco fosse arte barocca, è elemento sostanziale dell’arte di Donatello e spesso nasce proprio dalla commistione, delle fonti iconografiche come dei materiali usati: il pagano è commisto al cristiano come il vetro è incluso nel marmo. Si veda in mostra, la Madonna Piot proveniente dal Louvre, la cui attribuzione è ancora dibattuta. Il profilo della Vergine col Bambino, di terracotta una volta dorata, stacca su un fondo costituito da una distesa di medaglioni recanti anfore e cherubini in cera bianca su base rosso scura, incassati entro alveoli predisposti nell’argilla e sigillati da dischetti di vetro mentre le piccole losanghe tra i circoli sono riempite di cera verde. Terra lavorata come fosse oro, come un prezioso gioiello di smalto cloisonné ma realizzato con i materiali più semplici, archetipici; questi oggetti hanno la sacralità degli idoli. Preziosità e rozza materialità, spiritualità e corporeità, cristianesimo colto e paganesimo contadino: nuovamente, il sublime donatelliano è al limite tra gli opposti.

ig. 11 – Sarcofago greco-romano, scene con putti dionisiaci, 150 ca. d.C. Ostia antica, Museo Ostiense

Il Rinascimento, d’altronde, usando la formula molto warburghiana di André Jolles ebbe “come culla una tomba” (abbiamo appena visto come l’euforica vitalità degli spiritelli nascesse dallo studio condotto da Donatello sui sarcofagi antichi e medievali). La polifonia che sottende l’opera del Maestro fiorentino spazia dall’euforia degli spiritelli ai toni tragici delle opere tarde, quelle di Padova e oltre, che hanno interessato Aby Warburg. Nella Tavola 42 del suo Mnemosyne Atlas lo studioso tedesco colloca, accanto alla Sepoltura di Cristo padovana (1447-50), la Deposizione dalla croce e il Seppellimento del corpo di Cristo dal primo pulpito di San Lorenzo (1460 ca.). Come già nella città veneta il suo concittadino Giotto aveva fissato il culmine del pathos nel  Compianto sul Cristo morto agli Scrovegni, Donatello, nella Sepoltura scolpita nella dura pietra di Nanto per l’altare del Santo, ha riaffermato la “inversione energetico-semantica della formula di pathos della sofferenza”.

Quanto più la vitalità abbandona il corpo del defunto tanto più essa cresce nel gruppo dei dolenti. Alla warburghiana “esaltazione orgiastica come modello per la disperazione luttuosa” si può ben associare il Compianto, forse della fine degli anni ’50, fusione di bronzo ridotta a silhouette, proveniente dal Victoria and Albert Museum esposto nella decima sezione della mostra fiorentina. Il corpo senza vita di Cristo è abbracciato dalla madre straziata; le pie donne gridano e piangono mentre Giovanni si chiude in un dolore compresso e la Maddalena, “Menade sotto la Croce”, “stringe convulsamente le ciocche dei capelli strappate in un orgiastico lutto”.

fig. 12 – Donatello, Lamentazione sul Cristo morto, 1455-60, Victoria and Albert Museum, London
Al desiderio di Donatello di liberare il corpo umano dal rigido sfarzo e di farlo parlare nel libero ritmo della sua corporeità non poterono sottrarsi nemmeno i fornitori delle preziose fogge … A partire dai rilievi per l’alare di sant’antonio a Padova, Donatello, e sopratutto i suoi scolari, sono presi da un pathos tragico, ipernervoso, che in taluni di essi porta addirittura a un’orgia della mobilità che tenta di superare in impeto patetico gli stessi rilievi antichi che ne sono il modello”. (Aby Warburg, La rinascita del paganesimo antico e altri scritti, 1889-1914).

Ivo BOMBA, Roma 10 Aprile 2022