di Giorgia TERRINONI
Il 23 aprile ha aperto al pubblico la 59^ Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, intitolata The Milk of Dreams.
La curatela è stata affidata a Cecilia Alemani che già nell’edizione del 2017 si era occupata del Padiglione Italia. Alemani si è trovata ad affrontare una situazione anomala dal momento che, a causa della pandemia, non ha potuto incontrare di persona gli artisti coinvolti nella rassegna né vedere dal vivo molte delle opere.
Il titolo The Milk of Dreams è tratto da un libricino illustrato di Leonora Carrington, artista inglese ribellatasi a una famiglia danarosa e parvenu per vivere una vita di scoperte. L’incontro con il Surrealismo e soprattutto con Max Ernst, al quale è legata da un’intensa quanto dolorosa storia d’amore, la catapultano nelle più stimolanti cerchie avanguardiste. Allo scoppio della guerra Carrington lascia Ernst e, a seguito di un crollo psichico che la porta ad essere internata, volge le spalle anche all’Europa rifugiandosi prima negli Stati Uniti poi in Messico, dove trascorrerà la maggior parte della sua vita. Il libro The Milk of Dreams raccoglie una serie di storie illustrate – disegnate da Carrington per i suoi figli inizialmente sui muri di casa – che hanno per oggetto creature mutanti, prese in un vortice d’ibridazione che coinvolge umano, animale e vegetale e che dà origine sempre a qualcosa d’altro.
Sulla scorta di ciò, le riflession di Alemani e degli artisti coinvolti in questa edizione si sono imperniate su alcuni interrogativi:
come sta cambiando la definizione di umano? Quali sono le differenze che separano il vegetale, l’animale, l’umano e il non-umano? Quali sono le nostre responsabilità nei confronti dei nostri simili, delle altre forme di vita e del pianeta che abitiamo? E come sarebbe la vita senza di noi?
A partire da tali interrogativi si sono originate le tre grandi aree tematiche intorno alle quali ruota l’esposizione: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che s’intrecciano tra i corpi e la Terra.
Prima di procedere oltre, occorre precisare che The Milk of Dreams si articola negli spazi del Padiglione Centrale ai Giardini e in quelli delle Corderie, delle Artiglierie, delle Gagiandre e del Giardino delle Vergini nel complesso dell’Arsenale. Alle produzioni contemporanee si alternano cinque capsule o piccole mostre di carattere storico, la prima delle quali si trova in una sala sotterranea del Padiglione Centrale e presenta opere di artiste appartenute alle avanguardie storiche, tra le quali proprio Leonora Carrington, ma anche Claude Cahun, Leonor Fini, Carol Rama e Dorothea Tanning, solo per fare dei nomi.
Ho visitato la Biennale nei tre giorni precedenti l’apertura al pubblico, in una città vitale ma traboccante di statiche file di visitatori; a queste si sono aggiunti il vento e la pioggia che hanno reso la fruizione di parte dell’esposizione davvero complessa. Si sa, Venezia è anche così. Si brama di rivederla perché non c’è un luogo che più di lei si avvicini a un sogno. Poi, però, la si congeda con un certo sollievo.
Ho atteso con desiderio che arrivasse il 20 aprile per scendere i gradini della stazione Santa Lucia e dirigermi con il 4.1 verso l’Arsenale; per respirare quella dimensione internazionale e relazionale che sempre costituisce uno degli elementi di fascino della rassegna. Alla Biennale ci si sente nel mondo e a me romana consente anche di riemergere da quell’asfissia che caratterizza la maggior parte delle iniziative di arte contemporanea che hanno luogo nella mia città. Tuttavia, sono partita con un paio di perplessità relative ad alcune questioni che alimentano il core dell’esposizione e, a dire il vero, con quelle stesse sono tornata.
Una prima perplessità è di natura direi contenutistica e riguarda il fatto che le condizioni ibrida e postumana sulle quali ragionano alcuni degli artisti in mostra sono trattate, senza esserlo, alla stregua di una novità. Pure però, attraverso le ibridazioni della musa Carrington e delle capsule del tempo, viene rintracciato un legame tra queste e l’antica arte della metamorfosi. Ora io credo che ci sia – al livello ontologico – una certa differenza tra metamorfosi, ibridazione e post-human. Togliamoci di torno il postumano che per me resta un anacronismo anni ’90 e diciamo che, per fortuna, in mostra c’è davvero poco a rappresentarlo. E quel che c’è, per quanto l’immaginario tecnologico sia notevolmente progredito, continua a somigliare alla fantascienza cinematografica dei tardi anni ’70, reincarnazione della xenomorfa filamentosa dell’Alien di Ridley Scott.
Più prossime, anche se non coincidenti, sono le condizioni di metamorfosi e ibridazione che risalgono entrambe all’alba delle civiltà. Io non metto in discussione il ricorso a un tema che è a fondamento del tutto – ovvero quello della metamorfosi – ma trovo un po’ forzato il fatto che la mostra lo riconduce quasi esclusivamente all’arte femminile di stampo surrealista!
E qui s’innesta la mia seconda perplessità, questa di natura più formale. È stata ripetutamente sottolineata la massiccia partecipazione di donne e di soggetti non binari a quest’edizione della rassegna. Non voglio addentrarmi in questioni di genere, ma ho la sensazione che l’enfasi sul gender fluid suoni un po’ appiccicaticcia se riferita all’arte. La fluidità potrebbe appartenere agli artisti in quanto individui e/o in quanto attivisti, ma non mi pare che appartenga all’arte in sé. A mio avviso non ha alcuna importanza se Paula Rego è una donna, un uomo o un soggetto non binario. Paula Rego fa della grande arte, perché dalle sue opere emergono il dramma e la vitalità della condizione umana. Infatti, all’interno del Padiglione Centrale viene dedicata un’intera sala al suo lavoro. E credo che questa sala rispecchi essenzialmente una ricerca artistica potente, non un’identità di genere! E qui chiudo sulle mie perplessità, ma mi permetto di dire ancora poche altre cose sulla Biennale.
Due delle riflessioni più interessanti che ho visto sulla metamorfosi/ibridazione esulano dal percorso stretto di The Milk of Dreams e si trovano nei Giardini. La prima prende corpo all’interno del padiglione danese ed è opera di Uffe Isolotto.
L’artista, straordinariamente in linea con la weltanschauung che attraversa la cultura del suo paese, mette in scena un dramma iperrealistico in cui passato/presente/futuro si saldano in un possibile scenario non postumano, bensì transumano. La morte del centauro – creatura dalle infinite risonanze – nell’hic et nunc della Danimarca rurale e la sua eventuale rinascita in un altrove comunque pensabile.
La seconda, Alloro, si trova all’interno del Padiglione Venezia ed è un’opera collettiva che permette al visitatore di viaggiare all’interno di un’installazione multisensoriale che rilegge il mito di Dafne. Eterno ritorno del mito, Dafne da secoli è rappresentazione insuperabile del movimento, della metamorfosi e dell’ibridazione…
Ci sarebbero molte altre cose di cui parlare, inerenti e non alla Biennale, ma rischio di essere qui troppo lunga. Qualche appunto in calce. Mi sarebbe tanto piaciuto vedere il Padiglione Italia di Eugenio Viola e Gian Maria Tosatti, ma se fossi rimasta in fila nei due giorni in cui ho provato a visitarlo non avrei visto altro. Spero di farcela entro novembre!
Molti sono gli eventi collaterali ufficiali e non disseminati per la città. Mi piacerebbe far riferimento a due iniziative non ufficiali: Clean Water, un progetto di Marco Nereo Rotelli all’interno del Museo Storico Navale della Marina Militare e l’esposizione di lavori di Jim Shaw e Marnie Weber all’interno dello Squero Castello, uno spazio magnifico a due passi dal Ponte dei Pensieri.
Infine, benché sia aperta dalla scorsa primavera, la mostra Bruce Nauman: Contrapposto Studies a Punta della Dogana, che sembra essere il contrappunto perfetto alla Biennale. Con la serie Contrapposto Studies – realizzata tra il 2015 e il 2019 – Nauman riprende la sua ricerca storica rileggendola attraverso le possibilità offerte dall’attuale evoluzione tecnologica. Il percorso espositivo offre un’esperienza assolutamente immersiva, invitando il visitatore a a mettersi in gioco attraverso il corpo e l’intelletto in un processo metamorfico potenzialmente infinito.
Per ora da Venezia è tutto!
Giorgia TERRINONI Venezia 24 Aprile 2022