di Chiara GRAZIANI
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Un accostamento suggestivo accende un collegamento. Un indizio. Forse il riemergere di un messaggio, consegnato ad un’allegoria barocca quattro secoli fa dalla mano di un pittore ricco e affermato che presentiva, però, il capovolgersi delle sue sorti.
L’allestimento alle scuderie del Quirinale della Mostra “Arte a Genova da Rubens a Magnasco”è anche l’occasione di osservare con occhi non assuefatti la Cuoca, il celebre dipinto di Bernardo Strozzi, dominus di una delle principali botteghe d’arte finanziate dalla potenza economica genovese secentesca. In quel 1625 in cui Strozzi metteva mano alla Cuoca, però, la fortuna mandava all’artista inequivocabili segnali di rovesci imminenti, di tradimenti in corso, di necessità di nuovi protettori in altre città.
L’opera che ne uscì, fra le sue massime, è stata fino ad ora interpretata come allegoria dei quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco. Si esce, però, dalla mostra alle Scuderie con la sensazione di averne colto un ulteriore segreto. Di aver sentito un messaggio dello Strozzi, e di avere mosso con lui qualche passo nel “secolo genovese” dell’argento americano, delle banche, e di un abbacinante barocco, irrotto nella Repubblica al seguito di Pieter Paul Rubens che vent’anni prima, nel 1606, ritraeva con attributi reali il potentissimo mecenate Giovan Carlo Doria. Lo stesso Doria che, morendo nel 1625, aveva chiuso le ali sulla bottega e sulle fortune del genovese Strozzi, artista impregnato delle influenze fiamminghe e caravaggesche che plasmavano il volto pubblico della Repubblica. Un uomo al quale Genova non perdonò successo, ricchezza e favori.
La Cuoca potrebbe essere stata la possibilità per lo Strozzi vacillante, di parlar chiaro alla superba Genova, la città che “divorava il mondo” convinta si sarebbe lasciato divorare in eterno. Un’allegoria che potrebbe rappresentare la realtà autentica e demitizzata di quel potere che lo abbandonava dopo tanta, prolifica e remunerata, fedeltà artistica; una confutazione della narrazione fulgida ed ufficiale del barocco, arruolato al servizio di una simbologia divinizzatrice dello status quo e – per la nostra sensibilità contemporanea – colonizzatrice e rapace.
Un messaggio nascosto che pensiamo Strozzi possa avere affidato, una pennellata dopo l’altra, all’enigmatica cuoca, dal sorriso compiaciuto nell’atto di spogliare, a tocchi chirurgici delle lunghe dita dalle unghie consumate, un’oca morta. Il vento del barocco soffiava, allora, dal Vecchio al Nuovo Mondo, dalle chiese europee alle ridotte gesuite del Paraguay, seguendo le rotte della potenza coloniale spagnola, finanziate anche dall’aristocrazia genovese in un rapporto di controllo reciproco che non era certo subalternità. Il cappuccino esonerato dalla vita claustrale Strozzi, artista mondano retribuito ed attivissimo, lo sapeva bene. Padrone del linguaggio dei simboli, conosceva anche il vero volto della Superba, dietro il sontuoso sipario barocco che l’avvolse per un secolo e che aveva tessuto anche lui.
Era questo l’uomo che, nel 1625, si mise all’opera su un soggetto apparentemente di genere, una florida plebea di età quasi matura che, sorridendo fra sé e sé, spenna pollame in un’aristocratica cucina, seduta fra vasellame ricco e un solido focolare avviato. Il visitatore della mostra se la trova davanti nella seconda sala.
Enigmatica, nel suo essere popolo fra tanti splendori della mostra, estasi, martiri, ratti di dee e regine, dame coperte d’oro, sigillate in abiti monumentali “da parata” e servite da schiavi neri, cavalli bianchi imperiali che balzano fuori dalla tela quasi oscurando il cavaliere che ha pagato per essere ritratto.
Donna di fatica, la Cuoca, e non Vergine di influenza caravaggesca come la dirimpettaia Madonna con il Bambino e San Giovannino, sempre di Strozzi: un’opera, questa, dove il piede nudo della Madonna accanto al cesto del cucito, è sì un richiamo all’umiltà della condizione ma temperato dal libro aperto tenuto mano, la Buona Novella per Lei entrata nel mondo, e dallo sguardo diretto a chi la osserva. Il piede nudo di Maria schiaccerà, alla fine dei tempi, la testa del serpente. La Cuoca, alla parete accanto, è invece puro, terreno, contemporaneo, popolo.
Popolo grasso, seduto accanto alla pentola, con il controllo del mestolo che gli dà influenza sui padroni della cucina, quelli che non si vedono ma si intuiscono da un prezioso versatoio d’argento lavorato a sbalzo. Un popolo fiammingo nei tratti assorti e compiaciuti della cuoca e caravaggesco nelle luci e nei colori che scolpiscono l’ambiente, dal fuoco sotto il pentolone, al bianco spettrale dell’oca morta, alle carni femminili adorne di coralli, fino al nero dei tacchini appesi a testa in giù, in attesa di seguire l’oca nella sua sorte di farsi metodicamente spogliare e sezionare dalle affusolate, pur non pulitissime, dita dell’accorta popolana. La donna, che non è al centro del dipinto, non è però un dettaglio fra i tanti di una qualunque rappresentazione di abbondanza come quella che ci verrà incontro nella terza sala; la Dispensa di Giacomo Legi, ad esempio, dipinta cinque anni più tardi, parrebbe appartenere allo stesso filone della Cuoca. In realtà le due opere non si parlano.
Nella Dispensa di Legi nulla manca; fichi, funghi, pollame, pesche, pane, cacciagione, carni, crostacei ed un fremito di freschezza e di vita, appena stroncata o in procinto di esserlo. Il dispensiere in alto a sinistra è, lui sì a pieno titolo, un dettaglio che completa l’equilibrio generale del trionfo di colori sul fondo nero di un ambiente chiuso, completato dall’effetto cromatico di un mazzo di fiori. L’aragosta viva che l’uomo stringe in mano è coprotagonista dell’azione quanto l’umano, o il gallo che canta a testa ritta, il vitello sgozzato a occhi aperti e ancora umidi.
Nella cucina della Cuoca, invece, ci sono solo carcasse di volatili. Uccisi e da spiumare. Oche e tacchini, questi da poco arrivati in Europa con il nome di pollo d’India. Non rappresentano abbondanza, ma un destino. La spiumatura. Nulla è vivo qui, tranne la cuoca assorta e appagata nel gestire le inerti, polpose, carcasse. La punta dell’indice e del medio destro, il pollice dall’unghia orlata, hanno appena afferrato una piuma bianca e screziata, di quelle minute che stanno sotto la superficie del piumaggio esterno, con la precisione e l’esperienza di un chirurgo. Il collo spezzato dell’oca si adatta al pavimento con una curva innaturale, tipica della morte. Solo le dita della cuoca si muovono vive, sulla scena.
E poi c’è il versatoio. Un’ alta caraffa d’argento decorato, dal manico cesellato e adorno di una testa in rilievo, che sta sul lato sinistro di chi osserva il dipinto, davanti al focolare acceso. Un argento da parata, come si dice del vasellame monumentale prodotto per celebrare ed esibire i fasti di una famiglia repubblicana. Alle Scuderie c’è l’occasione di ammirarne diversi riuniti insieme, tra mastodontici piatti (fino a 60 centimetri di diametro) cesellati con imprese militari e coloniali, e due, bellissimi, versatoi.
E qui si arriva al dettaglio che fa scattare un collegamento interessante.
Proprio accanto alla Cuoca sono in esposizione gli argenti richiamati nel dipinto. E l’impatto, fra lo splendore degli argenti veri ed il dettaglio del quadro, è forte e smuove l’attenzione. Il versatoio d’argento lavorato a sbalzo che ricorda le imprese militari di Giovanni Grimaldi, antenato genovese dei Grimaldi di Monaco, è un capolavoro di un maestro fiammingo, Giovanni Aelboscia Belga. Il fatto di vederne raffigurato subito a fianco uno simile, collocato simbolicamente in scena – l’originale e la sua immagine su tela – è suggestivo. Quel versatoio è l’unico oggetto che non ha uno scopo pratico nella scena dipinta.
Osservando bene il quadro ti accorgi, allora, che è attraversato da un confine, che lo taglia esattamente a metà. Alla sinistra del confine, prospettiva di chi osserva, trovi solo ciò che viene dal nuovo Mondo. Due tacchini uccisi, ed il versatoio da parata fatto di plata, argento. Il preziosissimo metallo per il quale i colonizzatori spagnoli si spingevano nell’ignoto entroterra americano, sfidando il temibile fiume-oceano che prenderà il nome di Rio de La Plata.
Nel 1625 de La Cuoca già da quasi un secolo i sovrani spagnoli attingevano ad una colossale miniera de plata. nelle Americhe. E con la plata del Nuovo Mondo pagava i banchieri genovesi, che con la plata si facevano produrre dai maestri cesellatori fiamminghi quel vasellame tanto prezioso e simbolico. Alla mostra di Roma l’occasione per vederne insieme alcuni pezzi, (bellissimi, come il piatto che ricorda la partenza di Cristoforo Colombo per le Indie o il Ratto delle Sabine, entrambi di Matthias Melijn), è una delle opportunità da cogliere.
E si viene, ora, al lato destro del dipinto, quello dove siede, e non a caso, anche la Cuoca. Qui regna, al contrario che sul versante sinistro, la simbologia del Vecchio Mondo. I volatili da spiumare sono quelli europei, oche e polli no
E, soprattutto, è europea la Spiumatrice. Florida, attenta, compiaciuta delle sue carcasse, locali o esotiche, da ripulire e preparare. A quelle di sempre, sulla destra, si aggiungono quelle che arrivano dalle Indie, raffigurate a sinistra. L’alto vaso d’argento, nel lato sinistro del quadro, trova un senso come immagine del nuovo pilastro economico degli equilibri occidentali.
Verrebbe quasi da dire che si potrebbe, a questo punto, smascherare la Cuoca, e chiamarla con il suo vero nome: Genova, la superba. La Spiumatrice del Vecchio e ora anche del Nuovo Mondo, nostra signora della Cucina: la florida plebea che, e lo vedremo nel seguito della mostra, pretenderà di apparire in panni di dea in allegorie divinizzanti e stereotipate (qui in mostra rappresentate dai bozzetti ascendenti al cielo dei Piola, padre e figlio, con l’apoteosi barocca di Genova); chiederà addirittura alla Madonna di rappresentare la Repubblica – o “monarchia familiare diffusa” – genovese alla tavola delle corti europee, incoronandola Regina di Genova nel 1637.
Sarebbe sempre rimasta, però, la pasciuta, esperta popolana con i coralli al collo, abile a spennare e gestire il mestolo creditizio dal quale dipendevano i padroni del versatoio d’argento, quelli che saltano fuori a cavallo dalle tele di Rubens all’inizio del percorso delle Scuderie. Così verrebbe da dire che la Cuoca potrebbe essere l’allegoria della presa del Nuovo Mondo, da parte del Vecchio. Uno a destra, l’altro a sinistra, uno già spiumato, l’altro in procinto di esserlo e, in primo piano, la leva per sollevarli entrambi: la plata.
Fosse così – e riteniamo proponibile lo sia – Strozzi avrebbe messo in allegoria il suo messaggio a Genova che lo abbandonava. Superba come l’aveva chiamata Petrarca ma mai regale o divina, addirittura eterna, come si voleva nelle raffigurazioni, negli abiti nuovi che commissionava ai suoi artisti, sembra ricordarle Strozzi. Semmai venale e scaltra, come l’abile, compiaciuta cuoca spiumatrice del dipinto. L’abito nuovo che l’artista le donava in allegoria sarebbe stato, dunque, magico come quello della favola: in grado di mostrarla nuda.
Non sappiamo che accoglienza avrebbe avuto la mostra negli Stati Uniti dove non si è potuta tenere a causa della pandemia. Ma il serio dubbio che avrebbe fatto scandalo lo abbiamo. E per i motivi dei quali si è detto fino ad ora.
Il meraviglioso piatto d’argento da parata, abbacinante, dove è raffigurata a sbalzo la partenza di Cristoforo Colombo, sarebbe stato un dito nell’occhio del movimento iconoclasta americano che rovescia ovunque le statue di Colombo e dei colonizzatori europei. Pochi sono impopolari come Colombo e le sue imprese, di questi tempi negli Usa.
Il doge Agostino Pallavicino, anche lui qui a Roma in effige, ritratto nel 1621 da Antoon van Dyck nella toga rossa da ambasciatore presso il Papa, ne aveva commissionata una serie, dedicata al navigatore della Repubblica. Plata e ceselli, fuoco, pece e modelli a olio, pittori e maestri argentieri, tutto per celebrare l’avvio della grande colonizzazione. Indigesti sarebbero stati, probabilmente, anche i due magnifici ritratti di donna sempre di van Dyck.
Due dame, una giovanissima, l’altra matura, della “monarchia familiare diffusa” genovese. Elena Grimaldi Cavalleroni Cattaneo, in vasto abito nero bordato di rosso, sigillato al collo da una gorgiera, fra i simboli di prestigio familiare ha, alle spalle, uno schiavo nero adorante che regge un ombrello rosso. La ventenne Paola Adorno Brignole-Sale, ritratta nel 1627, è immobile sotto il peso di un abito a strati color pavone (colore del lusso) ricamato e coperto d’oro in ogni millimetro raggiungibile. La gorgiera è ricavata da almeno 7 metri di pizzo. Il simbolo del Nuovo Mondo, e degli orizzonti genovesi, è qui il pappagallo. La ragazza è carica, letteralmente carica, dei simboli del prestigio e del potere di famiglia che, per questo abito di fidanzamento ha speso l’equivalente del costo di una nave. Una nota merita la rosa che tiene in mano.
Paola aveva vent’anni quando posava per van Dyck. In procinto di andare sposa ad un Brignole-Sale, che qui nelle Scuderie del Quirinale la saluta dal ritratto equestre esposto di fronte, porta in mano, a vent’anni, un fiore non più freschissimo. il simbolo della bellezza che sfiorisce, un precoce avvertimento alla sposa, ricca non per sè. Il futuro sposo, Anton Giulio, che di anni ne ha 23, invece, sta rientrando dalla caccia, a cavallo di un – ovviamente regale – destriero bianco. Una figura che arriva al galoppo, salutando, tutta movimento e controllo.
Quanta differenza, poi, fra le due dame di van Dyck, immobili di tre quarti, – in vista solo la pelle di viso e mani – e quelle che si incontreranno ritratte verso la fine del percorso espositivo, nel Settecento in cui dal Sant’Agostino e il bambino del Magnasco (decima sala) già soffiavano venti di Romanticismo più europei che genovesi.
La Dama con servitore moro del Parodi, ritratta quasi un secolo dopo in allegra posa frontale, collo e seno generosamente emancipati dalla gorgiera, la mano in un cesto di rose, più favorita incipriata che sposa, appartiene alla Genova che, nel 1648, aveva subito il micidiale bombardamento dal mare della potenza francese, decisa a strapparla dalla sfera d’influenza spagnola. La grande peste prima e l’attacco di Re Sole poi, avevano dato la svolta al “secolo dei genonesi”. E se qualcuno si è chiesto dove il presidente ucraino Zelensky sia andato a pescare l’idea di paragonare Mariupol sotto il fuoco di Putin proprio a Genova, il richiamo storico era a questa guerra di 4 secoli fa fra sfere di influenza che si contendevano nodi strategici dopo due anni di epidemia di peste.
La Storia si ripete, quasi uguale, forse va solo più in fretta e con strutture sempre più sofisticate. E la guerra nasce, sempre, dalla plata. La magnificenza del secolo barocco genovese, dette l’ennesima prova di come la grande arte, cucendo abiti all’Imperatore, possa servire il potere e legittimarlo, guerra e colonizzazioni incluse. Ma come Strozzi dimostrerebbe, avrebbe anche le armi per denudarlo. Talvolta lo fa, come potrebbe essere per l’allegoria de La Cuoca. Oppure sceglie la via della divinizzazione della plata. Così va spesso il mondo. O meglio. Così andava, a Genova, nel secolo decimosettimo.
Chira GRAZIANI Roma 1° Maggio 2022