di Francesca SARACENO
Partiamo da una premessa: Ranuccio Tomassoni da Terni non era affatto quel “giovane di molto garbo” descritto da Giovanni Baglione. Anzi, era un bullo di quartiere col vizio del gioco e un gran giro di prostitute sulle quali guadagnava e che considerava di sua proprietà.
Ultimo dei figli del capitano di lungo corso, Lucantonio Tomassoni, da sempre al servizio delle milizie papali e suddito devoto dei Farnese, Ranuccio era l’unico della famiglia a non aver mai maneggiato armi per mestiere, ma imperversava funesto per le strade di Campo Marzio, forte della carica di “caporione” ricoperta dal fratello maggiore Giovan Francesco. Quest’ultimo, invece, come il padre, aveva intrapreso la carriera militare al comando di diverse guarnigioni, combattendo anche nella guerra d’Ungheria. L’ultima impresa lo aveva visto protagonista nel 1598 quando l’esercito di Clemente VIII aveva riportato il ducato di Ferrara sotto il controllo dello Stato Pontificio.
Tornato a Roma, insieme a un’orda di reduci ingovernabili che scorrazzavano turbolenti e rissosi per le strade dell’Urbe, senza che i “bandi” papali riuscissero a porre un argine alle loro intemperanze, Giovan Francesco doveva rappresentare, per il fratello minore, una specie di “supereroe”; e i suoi compiti di polizia territoriale, con deleghe giudiziali, come caporione, permettevano certamente ai fratelli Tomassoni e ai loro affini, di compiere le loro incursioni squadriste per le strade di Campo Marzio, con una certa libertà e a spalle abbondantemente coperte. Ecco: questo fascistello di quartiere era il “garbato” Ranuccio che cadde ferito a morte il 28 maggio del 1606 sotto la spada di Michelangelo da Caravaggio.
Ai giorni nostri qualcuno commenterebbe che “se l’era cercata”, ma in realtà, la vicenda dell’omicidio Tomassoni resta a tutt’oggi irrisolta, sia per quanto concerne la dinamica dei fatti sia per il movente. Le carte d’archivio nel tempo rinvenute non forniscono, a tal proposito, indicazioni utili a stabilire con certezza come e perché lo spadone del Merisi, a un certo punto di quel pomeriggio di maggio, si trovò infilzato “nella banda per dentro nella coscia” di Tomassoni causandone il repentino decesso, “a mala pena confessato”.
Quello che sappiamo è che tra Ranuccio e Caravaggio non correva buon sangue; e questo già da tempo, ovvero da quando, con l’ingresso alla corte del cardinal del Monte, l’artista aveva iniziato ad affermarsi nella professione e a godere di una buona disponibilità economica nonché del permesso di andare in giro armato. Anche la sua vita sociale aveva subito una virata in questo senso, e il suo nome aveva iniziato a imporsi in ambienti e gruppi di diversa estrazione.
Non sappiamo a quando risalga precisamente la conoscenza tra Tomassoni e Caravaggio ma è molto probabile che, vivendo e operando entrambi nella stessa zona di Roma, avessero avuto modo di incontrarsi ben presto e che l’ostilità tra i due fosse stata evidente fin da subito, fomentata anche dall’opposta affiliazione politica, che vedeva i Tomassoni sostenere la fazione filospagnola, mentre Caravaggio e la sua cerchia, quella filofrancese.
Dunque, dall’antagonismo politico, a un possibile affair di donne e postriboli, passando per l’assidua frequentazione di taverne, osterie e tavoli da gioco, i rapporti tra il pittore e Ranuccio di certo dovettero andarsi via via sempre più deteriorando, e trattandosi di due personaggi turbolenti, era fisiologico che, prima o poi, i due sarebbero pervenuti allo scontro diretto.
Cosa sappiamo, dunque di quel fatidico pomeriggio romano?
Sappiamo anzitutto che era il 28 maggio e che era una domenica, proprio come oggi. Roma, quel giorno, iniziava a festeggiare il primo anno di pontificato di Papa Paolo V Borghese; lo sappiamo perché, come spesso accadeva in quegli anni di frammentazione territoriale e di stati e repubbliche satelliti, orbitanti intorno allo Stato Pontificio, personaggi di rilievo, residenti oltre le mura dell’Urbe, venivano informati dai loro agenti a Roma di ciò che accadeva in città, attraverso degli “avvisi”.
Uno di questi, anonimo ma vergato a strettissimo giro degli eventi, riferisce:
“1606 maggio 28. Si comenciò la festa per la coronatione del Papa, la quale fu di 29 magio dell’anno passato 1605, l’istesso giorno verso la sera a Ripa grande [del Tevere] facendosi la festa, et combattendosi con le barche, nel festeggio e gara, uno diede uno schiaffo ad un altro, et questo con una ferita lo cavò di vita.”
Dunque in città c’erano già stati dei tafferugli, e le autorità sicuramente erano state allertate; ma il fatto di sangue occorso in Campo Marzio si distinse grandemente dalle goliardate festaiole finite in rissa a Ripa grande, assumendo fin da subito i contorni del “regolamento di conti”.
I biografi del Caravaggio, Giovanni Baglione e Giovan Pietro Bellori, riportando probabilmente le voci che già dalle prime ore avevano iniziato a circolare sull’evento, affermano che l’omicidio si consumò in seguito a una controversia durante una partita di pallacorda. Giulio Mancini, invece, è apparentemente più vago quando riferisce solo di “alcuni eventi”; ma subito dopo aggiunge che il pittore “corse pericolo di vita che, per salvarsi, aiutato da Onorio Longo, ammazzò l’inimico”. Il che ci fornisce un quadro già diverso rispetto alla semplice contesa di gioco: se Caravaggio “corse pericolo di vita” non doveva essersi trattato “solo” di un evento occasionale, di carattere – per così dire – “sportivo”. Peraltro, se nel tempo si è radicata l’idea del fallo durante la partita di pallacorda, tramandato anche dai biografi, probabilmente è in virtù del fatto che il luogo in cui tutto avvenne, fu proprio la strada in cui si trovava allora uno spazio adibito al gioco della pallacorda (ancora oggi la stradina nei pressi di Palazzo Firenze è chiamata appunto Via di Pallacorda, fig. 1).
Ne è sorta perfino l’ispirazione per un dipinto, attribuito di recente a Francesco Boneri (detto Cecco del Caravaggio), che ha come soggetto La morte di Giacinto (fig. 2), nella cui iconografia sono presenti delle racchette al posto del tradizionale disco con cui, la leggenda vuole, Apollo avesse, senza volerlo, colpito mortalmente Giacinto alla tempia durante un allenamento.
E siccome pare che “vox populi” equivalga a “vox Dei”, dobbiamo dare per attendibile – in attesa di conferma – la collocazione dell’evento delittuoso proprio alla pallacorda, così come ne viene data notizia, anche in questo caso, da un “avviso” del 31 maggio 1606, inviato a Modena da Pellegrino Bertacchi, segretario a Roma del cardinale Alessandro d’Este;
dove si legge:
“Due sere sono il Caravaggio pittor celebre accompagnato da un certo capitano Antonio Bolognese affrontò Ranuccio da Terni et dopo breve menar di mano il pittor restò su la testa mortalmente ferito e gli altri due morti. La rissa fu per giudizio dato sopra un fallo mentre si giocava a racchetta verso l’Ambasciator del Gran Duca [di Toscana]”.
L’avviso ci conferma il campo di pallacorda come luogo dello scontro, ci informa che esso si produsse per un fallo di gioco e che, dopo un turbolento ma “breve menar di mano”, il pittore era rimasto gravemente ferito alla testa, mentre Ranuccio e un certo “capitano Antonio bolognese”, compagno del Caravaggio, vengono dati entrambi per morti.
Ovviamente, per quanto possiamo immaginare che il Bertacchi, e come lui gli altri referenti da Roma, fossero in buona fede nel comunicare ciò di cui venivano a conoscenza, bisogna tener conto che, quanto riportato negli “avvisi” era comunque frutto di notizie non sempre di prima mano e spesso acquisite “per sentito dire”; motivo per cui, sarebbe stato utile e opportuno per gli storici e gli studiosi, poter verificare l’attendibilità delle informazioni in essi contenute confrontandola con altre fonti documentali più solide, quali ad esempio, dei verbali di polizia. Ma, in questo caso specifico, non è stato così semplice.
Può sembrare strano che, trattandosi di un omicidio, gli archivi non abbiano restituito una documentazione tale da poter ricostruire la dinamica dei fatti, ma c’è da dire che l’apparato giudiziario romano di quel particolare periodo non era fondato su un sistema unitario; gli amministratori della giustizia godevano di un’ampia discrezionalità, sia interpretativa che applicativa, sulle leggi. D’altra parte, essendosi dati alla fuga quasi tutti i protagonisti della vicenda, di fatto non venne celebrato alcun processo. Non di meno, dal confronto tra i pochi documenti ritrovati è possibile individuare, se non altro, alcuni punti fermi a cui fare riferimento. Intanto: chi si scontrò con chi?
Per rispondere a questo quesito ci torna utile il succitato avviso del 28 maggio 1606 che, dopo il racconto dei tafferugli a Ripa grande, prosegue:
“In Campo Marzio l’istessa sera Michel Angelo Caravagio pittore ferette et ammazzò con una stoccata nella banda per dentro nella coscia, Ranuccio da Terni, del che a mala pena confessato morì, e seppelito la mattina alla Rotonda; doppo che so fratello Gio: Francesco… capitano, sfodrando la spada ammazzò un altro soldato [già capitano] di castello s. Angelo, et di più della medesima contesa ferì suddetto Gio: Francesco, Michelangelo suddetto et un altro.”
Il racconto, breve ma circostanziato, ci conferma il ferimento del pittore, ma parlando di una ferita da taglio procurato da Giovan Francesco Tomassoni che aveva “sfoderato la spada”; la presenza sul posto di un “soldato [già capitano]”, avvalorando quanto verrà asserito anche nell’avviso del 31 maggio inviato da Bertacchi, specificando, peraltro, che il [già capitano] era di stanza a “castello s. Angelo”; e ci fornisce in più alcuni elementi fondamentali per stabilire che il gruppo del Caravaggio era composto da quattro uomini.
Insieme al pittore erano almeno altre due persone: il capitano di Castel Sant’Angelo e “un altro”. Dunque, con il pittore sono già in tre. Ma, sapendo dal Mancini che il Caravaggio fu aiutato da Onorio Longhi, ecco che quattro risulta essere il numero esatto dei componenti il gruppo del pittore. Dall’altra parte, la banda dei Tomassoni si rivelerà composta da altrettanti membri, tutti facenti capo alla famiglia: Ranuccio, Giovan Francesco suo fratello e i due cognati di Ranuccio, Ignazio e Federico Iugoli. Ce ne dà notizia, ancora una volta, un “avviso”, spedito da Roma a Francesco Maria II della Rovere, duca di Urbino, nel quale si legge:
“31 Maggio 1606. Soccesse in Campo Marzio la suddetta sera di domenica una questione assai notabile di quattro per banda, capo di una un tal Ranuccio da Terani, che vi restò morto subito dopo lungo contrasto, et dall’altra Michelangelo da Caravaggio pittore di qualche fama ai giorni nostri”
La conferma che quattro fossero anche i componenti del gruppo di Ranuccio nonché i loro nomi, ci arriva ufficialmente dai mandati di cattura, emessi dal Tribunale criminale del Governatore di Roma, nei confronti di tutti i fuggiaschi. Tali provvedimenti arrivarono a un mese esatto dall’omicidio, il 28 giugno. Questo perché, probabilmente, prima di procedere, gli inquirenti avevano condotto, con una certa discrezione, una serie di indagini preliminari per avere un quadro della situazione più chiaro possibile.
L’unico degli otto indagati che non riuscì a sottrarsi alla giustizia fu uno dei componenti del gruppo di Caravaggio, ovvero il più volte nominato bolognese, capitano di Castel Sant’Angelo, Petronio Troppa (citato dal Bertacchi come “Antonio” probabilmente per assonanza). Questi venne arrestato e condotto a Tor di Nona nonostante avesse riportato ferite importanti durante lo scontro. Lo si evince, oltre che dall’avviso del 28 maggio, anche da un riporto sul registro delle Relazioni dei chirurghi e dei barbieri, dove gli interventi di primo soccorso operati – per l’appunto – da chirurghi e barbieri, andavano per legge appuntati; una di queste annotazioni riferisce che il barbiere Pompeo Travagna, la sera dell’omicidio, aveva medicato le ferite di Petronio Troppa giudicandole piuttosto serie. Feriti erano rimasti certamente anche Caravaggio e Onorio Longhi, come sappiamo dagli avvisi, sebbene del gruppo del pittore, manchi ancora di conoscere la sorte nonché l’identità del quarto uomo. Ma ci arriveremo.
Troppa fu, quindi, l’unico a subire un’azione legale immediata, e certamente venne interrogato. Proprio dalle indagini sul suo ruolo nella vicenda, sono emersi alcuni elementi importanti; circa tre mesi dopo l’omicidio di Ranuccio e l’arresto di Troppa, andarono a deporre, in favore del capitano bolognese, due testimoni suoi colleghi militari: il vicentino Francesco Pioveni e il lucchese Francesco Ferrari.
Pioveni riferì ben poco agli inquirenti; solo che, tempo prima, aveva impegnato un “giaccho” a Troppa per “trentacinque giulii” e che non era stato presente all’evento delittuoso ma ne aveva sentito parlare al Castello, dove si diceva che Petronio era stato “ammazzato” (termine che può essere letto sia come “ucciso” sia come “ferito”) e che nel fatto era coinvolto il Caravaggio. Il riferimento al “giaccho” impegnato a Troppa, indica che l’inquirente stava indagando anche sulle condizioni economiche del capitano, e ciò induce a pensare che, probabilmente, non credeva al movente del fallo di gioco, benché fosse il più diffuso, ma pensava già a qualcosa di più significativo. A Pioveni venne chiesto, inoltre, se conoscesse un certo “Paulum Aldatum boloniesem”, del quale verosimilmente si era parlato già nell’interrogatorio di Troppa, ma Pioveni affermò di non conoscerlo.
Il secondo testimone, Ferrari, venne invece interrogato in quanto, poco prima dello scontro, aveva visto Troppa proprio nei pressi del luogo dove poi avvenne il delitto. La sua testimonianza è fondamentale perché fornisce alcune conferme e nuove preziose informazioni. Ferrari disse che, quel pomeriggio, aveva visto Troppa “a sedere sopra un sasso incontro l’imbasciatore di Fiorenza, innanti il gioco della palla”, confermando in tal modo che il luogo in cui si svolsero i fatti era proprio la strada in cui si trovava il campo della Pallacorda. Dopo i saluti di circostanza, Ferrari aveva informato il capitano che stava recandosi a casa. Petronio, allora, gli aveva chiesto di trattenersi, precisando che “aspettava di far un servitio” e poi sarebbe andato via anche lui. Ma il soldato lucchese aveva affermato di aver fretta, e per questo, declinato l’invito, aveva ripreso il cammino.
Il capitano Troppa era rimasto al suo posto, mentre invece insieme a Ferrari, era andato un altro uomo che, a quanto pare, stava in quel momento insieme al capitano. Costui, dice Ferrari, era “senza un occhio”, forse si chiamava “Paolo” e si era incamminato con lui perché pare avesse voglia di andare a trovare “una sua puttana”. I due fecero, quindi, un tratto di strada assieme, poi Ferrari e il “guercio” si separarono a Campo Marzio. Successivamente (non è chiaro per quale motivo), Ferrari dovette ripassare nelle vicinanze del campo di Pallacorda, e riferì a chi lo interrogava, che insieme al capitano Petronio Troppa, ora, non c’era il “guercio” ma
“altri appresso a lui, […] che erano armati di spade l’uno e l’altro et non veddi che havessero altr’arme”.
L’uno e l’altro, quindi due persone: evidentemente Caravaggio e Onorio Longhi. Due, come le cose importanti da rilevare in questa deposizione:
1) il possibile quarto uomo nel gruppo di Caravaggio potrebbe essere proprio il “guercio” – che forse si chiamava Paolo – l’uomo di cui riferisce Ferrari, identificabile, verosimilmente, con quel Paolo Aldati (“Paulum Aldatum boloniesem”) del quale l’inquirente aveva parlato con Troppa e aveva chiesto anche a Pioveni. Ferrari non lo vide con Troppa e gli altri due, al suo secondo passaggio nei pressi del luogo dello scontro, ma questo non impedisce che Aldati possa aver raggiunto il gruppo dopo il suo “incontro galante” con la prostituta.
2) Petronio Troppa afferma di dover “far un servitio”; non dice di che servizio si tratti, ma il solo fatto di definirlo “servitio” indica che era stato chiamato a farlo, molto probabilmente sotto compenso. Altro possibile motivo per cui l’investigatore chiedeva informazioni ai testimoni sulla sua situazione economica.
Il capitano bolognese era stato poi raggiunto da due uomini armati di spada … non di racchette, e già questo fa vacillare il movente della contesa sportiva. Peraltro, il fatto che Petronio fosse un militare professionista, fa pensare che fosse stato appositamente ingaggiato, contando sulla sua competenza in combattimento. Il che vuol dire che si presagiva la possibilità di uno scontro potenzialmente pericoloso. Per contro, che Petronio Troppa avesse invitato il Ferrari a trattenersi con l’intenzione di accompagnarlo nel suo tragitto verso casa, subito dopo aver fatto quel “servizio”, lascerebbe supporre si trattasse, secondo il capitano, di una questione che non gli avrebbe portato via molto tempo.
Dunque, abbiamo: il capitano Troppa che pensa di andarsene di lì a poco, e il “guercio” che, prima di prendere parte allo scontro, va a trovare una prostituta; come se i due non avessero interesse “diretto” nella faccenda, come se la loro presenza, per quanto necessaria e prevista, non avesse uno spessore “primario”. Lo stesso Onorio Longhi, fedele amico del Caravaggio, fuggito a Milano dopo l’omicidio, dove presumibilmente lo raggiunse la “sentenza declaratoria” del 17 luglio 1606, relativa all’azione penale posta in atto nei confronti dei latitanti, nella sua richiesta di revoca dell’esilio affermò di essere stato presente all’evento delittuoso con un ruolo da “paciere”; dunque, nemmeno lui avrebbe avuto interessi propri nella questione e anzi si dichiarò totalmente estraneo all’omicidio. Più o meno le stesse ragioni, allo scopo di ottenere la revoca dell’esilio, furono addotte dai fratelli Iugoli e da Giovan Francesco Tomassoni, il quale ammise di aver preso parte allo scontro ma di aver agito in risposta all’aggressione di Troppa in difesa del Merisi.
Quindi, Giovan Francesco Tomassoni e il capitano Troppa avevano partecipato a supporto ciascuno del proprio uomo di riferimento, e questo evidenzia che i probabili veri protagonisti della contesa, quel pomeriggio, nonostante fossero sul posto ben otto uomini, erano Ranuccio e il Caravaggio.
Si configurerebbero, quindi, gli estremi di un faccia a faccia diretto, che si immaginava già potesse degenerare in un possibile duello. D’altra parte, la presenza di uomini armati di spada, nel tardo pomeriggio di un giorno di festa, in una strada non esattamente “ariosa” e, probabilmente, proprio all’interno del campo di pallacorda, fa presagire i contorni una faccenda personale, da definire rapidamente e al riparo da occhi indiscreti, col solo ausilio di persone fidate pronte a intervenire se necessario.
Lo scontro, presumibilmente – e stando anche alle cronache degli ‘avvisi’ citati – dovette svolgersi in un clima di nervi tesi e adrenalina a fior di pelle, da entrambe le parti. Caravaggio e Tomassoni, di certo non se le mandavano a dire, ed è quindi presumibile che, prima ancora delle stoccate, fossero volati insulti e improperi da una parte e dall’altra. Un diverbio a cui assistevano, vigili, i componenti dei due gruppi in attesa di entrare in azione. E se dovessimo dar credito a quanto riferisce l’avviso inviato da Bertacchi a Modena il 31 maggio, ovvero che prima di arrivare alle armi vi era stato un “breve menar di mano”, si dovrebbe ipotizzare un corpo a corpo piuttosto convulso nel quale i due contendenti si urtavano e spintonavano a vicenda.
Ma allora, come avvenne, materialmente, l’omicidio di Ranuccio?
Ci torna in aiuto, intanto, l’avviso del 28 maggio 1606, quando riferisce che:
“Michel Angelo Caravagio pittore ferette et ammazzò con una stoccata nella banda per dentro nella coscia, Ranuccio da Terni”
Qualche anno dopo Giovanni Baglione scriverà, nella biografia del pittore, che la ferita mortale era stata inferta “nel pesce della coscia”, precisando in tal modo il punto esatto del muscolo in cui la lama era penetrata, verosimilmente tranciando l’arteria femorale di Ranuccio.
Ora: in un duello classico, una ferita alla coscia sarebbe da considerare un evento piuttosto raro; le zone del corpo interessate dalle stoccate di solito erano il torace, le braccia, il collo, i fianchi. Se la spada del Merisi, in qualche modo, raggiunse la coscia di Ranuccio con tale violenza da recidere l’arteria femorale, fu probabilmente in maniera fortuita, forse addirittura involontaria. D’altra parte, nel caso specifico, se davvero le circostanze furono quelle riferite dai vari “avvisi”, non si potrebbe parlare di un duello equilibrato, disciplinato da norme codificate che i due avversari avrebbero dovuto rispettare; Caravaggio e Tomassoni non erano tipi da seguire regole di etica cavalleresca, sebbene sia molto probabile che un certo “accordo” preliminare tra le parti fosse stato definito.
Ma, se è chiaro che la questione doveva essere risolta tra i due avversari principali, appare altrettanto evidente che i gregari presenti per ciascun gruppo, più che vigilare sul corretto svolgimento del duello, avrebbero dovuto, piuttosto, tenersi pronti a intervenire. A tal proposito, un “avviso” datato 6 giugno 1606, in cui – peraltro – si continua a motivare la contesa con una “causa di giuoco” alla pallacorda, ci informa che:
“il Tomassoni [era] rimasto morto d’una ferita datali mentre nel ritirarsi era caduto in terra. Onde il capitano Gio: Francesco suo fratello, et il capitano Petronio bolognese compagno del Caravaggio entrarono nella mischia nella quale esso Gio: Francesco ferì a morte il cap.n Petronio et il Caravaggio in testa”
Questo passaggio dell’avviso, ci dice alcune cose importanti: quando la lama della spada del Merisi gli trafisse la coscia, Ranuccio stava indietreggiando ed era poi caduto in terra; inoltre ci conferma che i “capitani”, Giovan Francesco Tomassoni e Petronio Troppa, erano intervenuti a combattimento già iniziato tra Ranuccio e Caravaggio.
Sebbene non ci sia molto per stabilire una dinamica dei fatti precisa e attendibile, né ci sia dato sapere se l’eventuale duello fosse stato previsto all’ultimo sangue, da ciò che sappiamo, si può immaginare che, nella foga dello scontro, che si presume veloce e violento, preceduto da un alterco verbale, spintoni e percosse, entrambi i duellanti abbiano, a un certo punto, perso l’equilibrio; cadere per terra, era il minimo che potesse capitare in quelle circostanze e, trovandosi sbilanciato anche il Caravaggio, è molto probabile che la sua spada abbia finito per infilzare l’avversario nel punto meno prevedibile.
Dev’essere stato in questo frangente che, il capitano Troppa e Giovan Francesco Tomassoni, “entrarono nella mischia”: la circostanza precisa in cui era previsto l’eventuale loro intervento. Giovan Francesco era, come già accennato, caporione di Campo Marzio e, nonostante l’avviso spedito a Urbino riporti che a capo della banda dei Tomassoni fosse Ranuccio, bisogna tener conto che la cronaca dell’altro avviso, quello inviato a Modena, riferisce che fu Giovan Francesco a sfoderare la spada tra gli uomini del proprio gruppo (come lui stesso, poi, ammise nella sua richiesta di revoca dell’esilio) indicando così una certa plausibile “gerarchia”. Sebbene il diretto interessato nella questione fosse Ranuccio, in quanto fratello maggiore e “dignitario” del quartiere, Giovan Francesco si era posto, probabilmente, come elemento di maggiore “autorità” all’interno della propria compagine; e infatti, solo dopo il suo intervento in difesa del fratello atterrato e infilzato, e quello del suo “omologo” Troppa a supporto del Caravaggio, anche gli altri presenti erano entrati in azione. In un duello normale, non all’ultimo sangue, con uno dei contendenti a terra impossibilitato a continuare il combattimento, i “padrini” sarebbero intervenuti per interrompere lo scontro designando di fatto la vittoria per l’avversario; qui, invece, lo scontro si era allargato coinvolgendo dapprima i due uomini di punta dei rispettivi gruppi e poi gli altri a seguire.
Tutto ciò, con buon margine di attendibilità, lascia supporre che, se l’omicidio di Tomassoni alla fine si consumò in maniera preterintenzionale, l’incontro/scontro alla Pallacorda fu, invece, assolutamente premeditato, sebbene non si possa parlare espressamente di un duello nella sua accezione più consueta.
Quello che resta da stabilire, oltre all’esatta dinamica dei fatti, è anche il vero movente. Le fonti biografiche sono piuttosto imprecise e discordanti, in questo senso; infatti, nel tempo, sono fiorite le più varie ipotesi. Ma sembra assodato, a questo punto, che il gioco non c’entrasse nulla; almeno quello di pallacorda, riferito dagli avvisi e riportato dai biografi. Il gioco d’azzardo, invece, potrebbe essere stato il movente più credibile, se fosse vero ciò che riferisce il seguito dell’avviso del 31 maggio inviato alla corte di Urbino, ossia che:
“[…] vogliono la causa sia stato interesse di gioco, et di dieci scudi, che il morto aveva vinto al pittore.”
Non sarebbe inverosimile che Caravaggio avesse contratto un debito nei confronti di Ranuccio e che, non volendo o non potendo pagarlo, i due fossero arrivati a dirimere la questione ricorrendo alle armi. D’altra parte, che il Merisi fosse … diciamo un po’ “incurante” rispetto alle sue finanze, è noto e documentato. Ne parla già Gaspare Celio, nel 1614, scrivendo che il pittore fin dai suoi esordi romani presso Lorenzo Carli, aveva dato segno di non essere tanto avveduto in questo senso, visto che di quelle “teste di santi” che gli pagavano “cinque baiocchi l’una” lui “ne faceva doi et se ne andava a mangiare.” E ne ebbe prova, in seguito, anche Prudenzia Bruni, la sua padrona di casa, che nell’estate del 1605 aveva dovuto sfrattarlo e pignorargli i beni per rientrare dei sei mesi di affitto che il pittore non le aveva pagato. Però, un conto è non pagare la pigione a una locataria, altro è non pagare un debito a un personaggio come Ranuccio Tomassoni: non te ne puoi uscire tirando sassi a una finestra.
Tra le varie ipotesi formulate nel tempo, su quale fosse la famigerata “questione” tra Caravaggio e Tomassoni, la storia che l’artista e il ternano si fossero contesi la stessa donna – la ben nota cortigiana Fillide Melandroni – è forse quella meno verosimile ma certamente quella che “piace” di più come alternativa al debito di gioco. Ci si può favoleggiare sopra a dismisura, assecondando quel gusto della “trasgressione” che rende più avvincente la storia di un pittore. Nulla è da escludere a priori ma, se la contesa avesse davvero riguardato la succitata cortigiana, non è detto che essa dovesse essersi originata per forza da motivi, per così dire, “passionali”; anzi, più verosimilmente, si sarebbe potuto trattare, anche in questo caso, di vile denaro.
Fillide, cortigiana “freelance”, era stata per un periodo intorno al 1600 il “sollazzo” privato di Ranuccio, al quale – come amico fermo (qualcosa di intermedio tra il “protettore” e il “procacciatore di affari”) – aveva affidato la propria reputazione. Ma, in quanto cortigiana “di pertinenza” del Tomassoni, probabilmente l’amico fermo avrebbe potuto esigere un qualche emolumento da parte del pittore, ad esempio nel caso in cui questi se ne fosse servito come modella; e, dal momento che probabilmente Caravaggio eseguì, davvero, un ritratto della Melandroni intorno al 1601 (il Ritratto di Cortigiana per Giulio Strozzi, perduto nell’incendio della Flakturm Friedrichshain di Berlino nel 1945, fig. 3), poco dopo la rottura di Fillide col Tomassoni – avvenuta, questa si, per un “tradimento” da parte del ternano – si potrebbe supporre che Ranuccio avesse a suo tempo preteso, dal Caravaggio, quelle che considerava le proprie “spettanze” senza ottenerle. Ma parliamo di qualcosa che risalirebbe ad almeno cinque anni prima, ed è dunque altamente improbabile che uno come Tomassoni avesse atteso così tanto per esigere il debito.
D’altra parte, i documenti d’archivio, restituiscono un contesto sociale in cui le offese o i crimini subiti, venivano immediatamente denunciati alle autorità; come nel caso dell’aggressione del Caravaggio, nel novembre del 1600, ai danni del giovane studente accademico Girolamo Stampa, che prontamente lo aveva denunciato; o il caso dei libelli diffamatori per i quali Giovanni Baglione lo aveva trascinato in tribunale; o i carciofi in faccia al cameriere per cui l’artista fu querelato; o la denuncia subita per la sassaiola alla finestra di Laura della Vecchia e sua figlia Isabella. La lista è lunga, ma certifica che il “torto” veniva immediatamente denunciato o comunque, in qualche modo, “risolto” in breve tempo. Nel caso specifico di Ranuccio e Caravaggio, quindi, si potrebbe al massimo parlare di “vecchie ruggini” che si sommavano alle nuove.
Invece, se davvero dovessimo pensare che una donna possa essere stata all’origine della contesa, questa forse non era l’amante cortigiana bensì – più probabilmente – la moglie di Ranuccio, che Caravaggio avrebbe in qualche modo “disonorato”. Magari non nel senso più ovvio e intrinseco del termine, ossia commettendo con lei adulterio, quanto invece in maniera più subdola.
In un’intervista rilasciata a Egizio Trombetta nel luglio del 2017, monsignor Sandro Corradini, ricercatore scrupoloso e profondo conoscitore delle vicende del Caravaggio, spiega che:
“C’era una cattiva fama della moglie di Ranuccio Tomassoni, e in qualche modo Caravaggio ha insistito su questo problema. La famiglia di Ranuccio si vuole in qualche modo vendicare per aver sparlato nei confronti di lei. Si tratta di una resa di conti da parte di un gruppo famigliare, infatti sono coinvolti i due fratelli di lei e i due fratelli del Tomassoni. Dai documenti non si sa altro”.
Le ricerche di Corradini hanno portato alla luce alcune particolari circostanze che vedrebbero Lavinia Iguoli Tomassoni, consorte si, ma non esattamente “devota” del turbolento ternano, tanto da arrivare a disfarsi addirittura della figlia avuta mentre era sposata con lui, solo una settimana dopo la sua morte, affidandola all’avvocato Cesare Pontoni, amico di famiglia, che pare … “avesse a cuore” la bambina.
Ora, il motivo per il quale un rispettabile avvocato tenesse così tanto alla figlia della fresca vedova di cotanto personaggio da accoglierla nella propria casa, e perché la neo-vedova, pur di essere libera di risposarsi prima possibile, avesse affidato proprio a lui la piccola, potrebbe (il condizionale è d’obbligo) rientrare nella casistica del “disonore” – questa volta “nel senso più ovvio e intrinseco del termine” – in riferimento all’avvocato o a chiunque altro. Anche perché, se la bambina fosse stata di Ranuccio, è lecito supporre che i Tomassoni o la famiglia della donna, sarebbero stati delegati diretti alla sua educazione e, probabilmente, non avrebbero permesso alla vedova di liberarsi della piccola affidandola a un estraneo. Ebbene, se – per ipotesi – della suddetta questione fosse stato a conoscenza il Caravaggio e l’avesse, per così dire, “esplicitata in pubblico” (come già aveva fatto anni prima con i libelli infamanti su Giovanni Baglione) o avesse anche solo minacciato di farlo, magari nel tentativo di dissuadere il Tomassoni dal continuare a pretendere il pagamento del supposto debito di gioco, è logico pensare che il borioso marito della Iugoli non avesse preso benissimo l’idea di poter essere additato come “becco”. E, dal momento che allo scontro alla pallacorda presero parte anche i fratelli della donna, come giustamente notava anche monsignor Corradini, è presumibile che non fossero lì solo come supporto al cognato ma fossero direttamente implicati nella faccenda e che, quindi, lo scontro si possa essere prodotto effettivamente per una questione d’onore. Anzi, di “disonore”. La goccia che avrebbe fatto traboccare un vaso già colmo da anni.
Alla luce di ciò che sappiamo, e tentando di tirare le somme, tutto lascerebbe pensare che la morte di Ranuccio Tomassoni potrebbe essersi verificata come conseguenza di un incontro che avrebbe dovuto essere “risolutore”, in un modo o nell’altro, e che, fin dal suo concepimento, era stato stabilito e organizzato prevedendo anche l’eventualità di un combattimento armato tra due personaggi dall’indole facinorosa che, dopo anni di “conti in sospeso”, giungevano finalmente al dunque.
La struttura “simmetrica” e “gerarchica” dei due opposti gruppi, formati ciascuno dallo stesso numero di componenti, e il poco che è emerso sulla dinamica dei fatti, fanno pensare che i due contendenti avessero predisposto le proprie compagini di supporto, assegnando precisi compiti e regole di ingaggio nel caso in cui si fosse reso necessario il loro intervento; ma, come non è affatto sicuro che il duello fosse l’opzione primaria dell’incontro tra Ranuccio e Caravaggio, bensì un’eventualità secondaria – sebbene prevista – allo steso modo non si può immaginare, tra i due, un combattimento regolare, perché – di fatto – le “regole” le avevano stabilite loro, passando dal diverbio al “breve menar di mani” per poi, solo alla fine, arrivare a impugnare le spade.
E se fosse confermato quanto riporta l’avviso del 6 giugno 1606, sul fatto che Ranuccio indietreggiando, in quegli attimi concitati, fosse caduto, sarebbe lecito supporre che anche il Caravaggio avrebbe potuto perdere l’equilibrio e colpire l’avversario in maniera imprevista infilzandolo “nel pesce della coscia”.
Come andò davvero forse non lo sapremo mai, a meno che non salti fuori qualche nuovo documento che possa far luce chiara sui fatti. Resta il “cold case” di una vicenda che per secoli ha impegnato colti intelletti e nutrito frizzanti leggende, spesso enfatizzando oltremodo un evento che, nella Roma del Seicento, non era affatto inusuale. Ma la vita di Michelangelo Merisi, lo sappiamo, è stata ed è tutt’ora, il fertile canovaccio sul quale si sono intessute fantastiche storie da “cappa e spada” e l’omicidio di Ranuccio Tomassoni, anche a causa delle poche certezze in merito alle circostanze in cui fu commesso, non poteva che diventare l’apice di ogni più estrosa sceneggiatura.
©Francesca SARACENO Catania, 29 Maggio 2022
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