Uno Stenterello per gli emigranti di Chicago: Baldassino Mazzoni (Prato 1882-Chicago 1919)

di Elena TAMBURINI

Uno Stenterello per gli emigranti di Chicago: Baldassino Mazzoni (Prato 1882-Chicago 1919)

Il recente Convegno Internazionale MIGRAZIONI ARTISTICHE TRA EUROPA E AMERICA (Università di Bergamo e Department of Italian Studies-Georgetown University, a cura di Gianni Cicali, Elena Mazzoleni, Anna Maria Testaverde, 26-27 maggio 2022) è stato l’occasione per ricordare la vita e l’attività di Baldassino Mazzoni, mio nonno, emigrato negli USA all’inizio del secolo passato e divenuto a Chicago, oltre che un agiato ristoratore, anche un popolare Stenterello. Raccolgo qui alcuni dati, fedelmente annotati dai racconti della mia prozia Cordelia (sua sorella, unica sopravvissuta), fin da quando, ancora ragazzina, ero affascinata dalle memorie  della mia famiglia e in particolare dalla sua avventura americana. L’unica farsa  rimasta, Stenterello poliziotto, che è a tutt’oggi anche l’unica conservata di tutte quelle scritte (se ve ne furono) dagli italiani emigranti negli USA, sarà pubblicata negli Atti del Convegno insieme a un ampliamento del testo pubblicato qui di seguito.

Baldassarre Mazzoni, comunemente detto Baldassino, era figlio di un avventuroso pratese, Vittorio, proprietario di una piccola filanda. Fu Vittorio ad andare per primo in America (1889): dotato di temperamento energico e di inventiva imprenditoriale, riuscì in breve tempo a creare un’azienda di importazione di prodotti alimentari italiani (formaggi, vino e altro), aprendo a Hoboken (nella città metropolitana di New York), uno dopo l’altro, ben nove negozi di alimentari. Nel 1904 chiamò ad aiutarlo il figlio Baldassino, che, allora ventunenne, era troppo utile al suo lavoro d’imprenditore; due anni più tardi lo raggiunsero anche la moglie Virginia e la figlia Cordelia.

Le memorie familiari riferiscono di un ragazzo pieno di allegria e di interessi, che non aveva potuto frequentare scuole regolari, ma che, pur impegnatissimo nelle iniziative paterne, di notte, nascondendosi al padre, leggeva al lume di candela ogni testo possibile. Fisicamente, oltre alle fotografie che di lui ci restano, lui stesso mette in bocca a Stenterello una sorta di autoritratto nell’unica farsa rimasta:

un coso…sempre rosso…con due occhi da furetto…che sembra ser Boccaccio e invece si chiama Baldassino…che tipo! La vuol sempre ragione [sic],  ma in fondo è un buon tipo! Gli debbo non so più quanti dollari, e se gli ricordo Firenze, o gli recito dei versi, si commuove, dimentica il conto, e ordina da bere”.
Baldassino Mazzoni. Foto dei Fratelli Cannata di Chicago.

Dunque occhi lunghi e furbi  e una certa somiglianza con i ritratti del Boccaccio[1] come note fisiche caratteristiche; e al fondo, buon cuore, gusto della poesia e… del vino e tanta nostalgia della sua città. E buono era davvero a detta di sua sorella, la quale non mancava mai di rilevare come in lui non vi fosse traccia di quella mentalità autoritaria e maschilista che era invece il tratto caratteristico del padre e anche del nonno.

Un po’ perché Baldassino non aveva un vero interesse al lavoro del padre e molto perché quest’ultimo aveva da tempo iniziato una doppia vita, legandosi a una francese (la “puppona” la chiamava Cordelia, che non era davvero seconda al fratello sul versante della simpatia …) da cui aveva anche avuto figli, i due fratelli ruppero con lui e si trasferirono con la madre a Chicago, dove dovettero affrontare, questa volta da soli, il faticoso problema dell’inserimento lavorativo.

Se “Baldassino Mazzini” fosse una deformazione del suo nome, allora gestì dapprima un Little Italy Café per il quale, vendendo liquori senza licenza, nel 1916 fu arrestato[2].  Di qui  all’apertura di un ristorante italiano vicino al primo teatro d’opera di Chicago, un ristorante che portava il suo nome, il Baldassino’s Grand Opera Restaurant, il passaggio sembra per la verità un po’ brusco; ma nel frattempo erano forse passati tre anni e probabilmente, se peccato vi fu, non era di quelli che i suoi conterranei non potessero perdonare.

2. Pagina pubblicitaria con la segnalazione del Baldassino’s Grand Opera Restaurant, ricorrente su “Chicago Eagle” dal maggio fino alla fine del 1919.

Dato il clima di ostilità e di diffidenza che si era creato con la polizia americana – ne è documento proprio l’unica sua farsa rimasta – può darsi che anzi Baldassino ne abbia guadagnato in popolarità. A partire dal 24 maggio fino alla fine di dicembre del 1919 (data del definitivo rientro della famiglia in Italia), all’incirca una volta alla settimana sul giornale “Chicago Eagle” compare il relativo annuncio pubblicitario: “The real Italian Restaurant”, con i prezzi del lunch (50 centesimi) e del dinner (1 dollaro), compresi High Class Singing, Music and Dancing, ma, peccato, nulla di più[3].

Il teatro d’opera presso il quale si apriva il ristorante esiste ancora (mentre il ristorante non esiste più): è l’Auditorium Theatre ed è situato vicino al lago Michigan e alla Little Italy, nel cuore di Chicago. Era il primo teatro d’opera della città, eretto nel 1889, che fu subito giudicato uno dei più belli e funzionali del mondo.

2b. Pagina pubblicitaria con la segnalazione (in particolare) del Baldassino’s Grand Opera Restaurant, ricorrente su “Chicago Eagle” dal maggio fino alla fine del 1919..

Che poi fosse l’opera d’esordio del celebre binomio di architetti Adler & Sullivan[4], quest’ultimo in particolare ritenuto il più importante architetto americano del suo tempo, padre del Movimento Moderno negli Usa e addirittura il “profeta dell’architettura moderna” (Bruno Zevi), essendo forse anche il primo progettista di grattacieli e che fosse stato eretto con enorme profusione di mezzi tecnologici e uso dell’elettricità e fosse anche capace di circa 4000 spettatori, ai miei avi forse non importava un granché. Per loro era il luogo magico sempre al centro dei loro pensieri, perché la grande passione di Baldassino e della famiglia era il teatro d’opera.

3. Interno del Chicago Auditorium Theater (progetto degli architetti Adler & Sullivan) inaugurato nel dicembre del 1889 con Roméo et Juliette di Gounod. Foto d’epoca
4. Esterno del Chicago Auditorium Theater. Disegno d’epoca.

Ma il titolo del ristorante va ancora sondato. “Grand Opera” infatti è anche una probabile allusione a una famosa compagnia, la Chicago Grand Opera Company, la mitica prima compagnia stabile d’opera di Chicago, attiva dal 1910 al 1913 e sciolta solo per motivi economici. Può essere che Baldassino la rimpiangesse e intendesse rievocarla.

5. Serata inaugurale del Chicago Auditorium Theater il 9 dicembre 1889. Disegno d’epoca
6.Locandina della Chicago Grand Opera Company, stagione 1910-11.

Il teatro importante, per lui, per il cognato Arturo e anche per la massima parte degli italoamericani, era il teatro d’opera, non il teatro d’attori; tantomeno quello di Stenterello, considerato un semplice divertimento tradizionale a cui si era affezionati; e per nulla erano attratti dal jazz o dal blues americano, di cui Chicago si poteva dire proprio in quegli anni il centro nevralgico.

C’erano tra i due cognati accanitissime discussioni: Arturo, da bravo romagnolo, sosteneva il cantante virtuoso del belcanto, sull’esempio del cesenate Alessandro Bonci, che proprio in quel teatro stava vedendo i suoi principali trionfi; Baldassino invece voleva il cantante soprattutto interprete, stile Enrico Caruso, che furoreggiava al Metropolitan di New York.

7.Enrico Caruso nel ruolo del Duca di Mantova, al suo debutto al Metropolitan di New York con il Rigoletto (1903). Foto di posa Aimé Dupont.

Questa passione spinse Baldassino anche a scrivere e a pubblicare, immagino a sue spese, in data imprecisata, un libretto pensato come una drammaturgia in quattro atti da mettere in musica, La strega di Bastia, una vicenda drammatica fondata su una falsa accusa di stregoneria e ambientata in Corsica: un testo fortemente influenzato dal clima del verismo e della Cavalleria rusticana.

La posizione e il titolo del ristorante dice l’importanza assoluta accordata al melodramma e il melodramma parlava d’Italia, era una gloria italiana apprezzatissima anche dagli americani. Per una comunità il più delle volte disprezzata era una bandiera importante nella quale era un vanto riconoscersi e raccogliersi. Ma proprio all’interno del ristorante[5] le memorie familiari raccontano che si davano spettacoli di gran richiamo – anche se certamente impermeabili fuori della Little Italy – che, oltre a ricordare e a cementare nel divertimento le comuni origini degli italiani di Chicago, servivano anche ad attirare i clienti nel locale.

Spettacoli di dilettanti? Certo, lo erano, perché la principale attività di Baldassino era quella del ristorante; e metto in questo termine anche il suo significato negativo di “poco esperto” connesso all’espressione. In questa sede non vorrei addentrarmi nel complesso e multiforme problema di questo modo di far teatro. Basterà dire che nel nostro caso l’espressione più giusta è piuttosto quella di teatro “amatoriale”[6]: un teatro motivato dall’amore, un teatro che non solo si sostanziava nella vita di relazione della “Colonia”, ma che anzi ne costituiva uno dei motivi trainanti.

L’unità italiana era infatti troppo recente per essere realmente e fino in fondo condivisa; e di fronte alla molteplicità dei dialetti il toscano era l’unica lingua realmente comprensibile. Se è vero che in ogni regione italiana persistevano, e con successo, almeno alcuni aspetti delle nostre grandi tradizioni rappresentative popolari, Stenterello era l’unica maschera che aveva la capacità di riunire tutti gli italoamericani.

A queste date e considerate le modalità di rappresentazione che si vedranno, non avrebbe senso parlare di commedia dell’arte. Ma che i personaggi dell’antica commedia si siano guadagnati uno spazio nell’immaginario collettivo degli italiani, questo proprio la farsa di Baldassino lo dimostra, così come lo dimostrano anche altri Stenterelli coevi documentati in America.  Fu proprio questa persistenza, certo acuita dalla nostalgia, a costituire il principale ostacolo all’accreditarsi di modi rappresentativi di un genere più “alto” come avvenne invece presso colonie di altre nazioni (come quella francese, inglese, tedesca, afroamericana, yiddish)[7].

A Baldassino la figura di Stenterello era certamente familiare fin dai suoi primi anni pratesi. Il suo era un teatro piccolo e marginale, necessariamente intriso di memorie, in cui gli emigranti potevano trovare un momentaneo rifugio; ma, a ben guardare, era anche ricco di riferimenti a una realtà attuale spesso sconfortante. Si potrebbe anche rilevare che, mentre a San Francisco agiva, e con grande successo, una Compagnia comica professionale di Stenterello come quella di Arturo Godi [8], le cui esibizioni sono puntualmente segnalate sul giornale italoamericano più diffuso, “L’Italia”, nulla di paragonabile è per ora documentato a Chicago. Se questo è vero, l’attività teatrale di Baldassino veniva a colmare un vuoto fra gli emigranti.

La vitalità di lunga durata dei personaggi dell’antica commedia si rivela in questa loro capacità di attrazione, che si prolunga fin nel XX secolo, in uno spazio così lontano, in una drammaturgia interamente distesa e nella messinscena di un solo attore-autore e anche in una dimensione tra amatorialità e imprenditorialità di davvero difficile collocazione: tutte condizioni davvero diverse da quelle originarie.

Questi spettacoli continuavano e costruivano a Chicago – entrambe le dimensioni sono importanti – una consuetudine rappresentativa squisitamente toscana; che fra gli emigranti diventava dunque anche italiana, anche a partire dai contenuti, che sono, come si vedrà, diretti a tutti gli italoamericani, anche a fini patriottici.

Si sa che Baldassino era un fecondo verseggiatore d’occasione; ma le  sue commedie, a giudicare dall’unica farsa rimasta, erano interamente distese e così ordinate che si direbbero ricopiate da un copista, forse in vista di una pubblicazione, chissà. In famiglia si sapeva di un intero baule, portato integralmente dagli Stati Uniti e dunque considerato una memoria preziosa, distrutto, ahimé, da mia madre a causa di un linguaggio sboccato (oggi sarebbe considerato certamente da educande) che mio padre considerava inadatto alla lettura di noi figlie. L’unica rimasta, una farsa dal titolo Stenterello Poliziotto, si è salvata perché esente da questo  terribile difetto… Ma si potrebbe anche ricordare che la farsa è stata definita il “livello zero del teatro” (Ferdinando Taviani), è il modo più diretto con cui il teatro comunica e coinvolge; che almeno se ne sia sia salvata una consente dunque di avvicinare questa scrittura a partire dal suo livello più immediato.

Baldassino morì ancor giovane di epidemia spagnola, che allora imperversava e mieteva vittime ovunque. Aveva solo 37 anni, da pochi anni era sposato con Rina Vellutini [9], una bella ragazza originaria della Lucchesia che aveva conosciuto e romanticamente soccorso con un ombrello in un giorno di pioggia; aveva una bimba di 3 anni (Wanda, mia madre, così chiamata da un personaggio della Fedora), un altro (sarà chiamato come il padre, Baldassarre) lo aspettava. Gravemente malato, si offrì come cavia per sperimentare un nuovo farmaco che purtroppo non valse a scamparlo dalla morte. Morì cantando l’opera da lui tanto amata, un’aria dell’Aida. Era amatissimo e lasciava un vuoto immenso fra parenti e amici. Così raccontava sua sorella Cordelia, che, quasi impazzita dal dolore a causa di quella morte, indusse tutta la famiglia a un precipitoso ritorno a Prato.

Anche Baldassino fu portato cadavere su quella nave, chiuso in tre casse, una di rame, una di zinco, una di legno. Una volta a Prato, fu esposto in  chiesa (forse nella cattedrale) nella cassa di legno, che aveva la parte superiore di vetro perché tutti potessero vederlo, imbalsamato e truccato come si usava in America [10]. Tutti i pratesi vollero andarci, un po’ per la curiosità di vedere un cadavere così ben conservato dopo circa 40 giorni di traversata, ma anche per contemplare tristemente la caduta di quell’illusione di speranza che i Mazzoni, con le loro fortune americane,  avevano fino ad allora incarnato. Tra gli accorsi, vi fu un uomo a cui Baldassarre aveva promesso un lavoro a Chicago e che era reduce da tre anni di guerra in trincea. Quest’uomo, vedendolo disteso in quella bara, impazzì di colpo: diceva che Baldassarre si era trasformato in un “bambolino” per non mantenere le sue promesse. A Prato, dopo la guerra, la miseria era grande e per lui quella era probabilmente sentita come l’unica salvezza…

Stenterello poliziotto è l’unica farsa scritta in America di cui si sia finora conservato il testo disteso [11]; con ogni probabilità era destinata alla chiusura di una serata, dopo l’esecuzione di arie d’opera, canzoni, arie comiche e simili (genere café chantant o vaudeville)  o dopo una commedia[12]. Rappresentandosi peraltro non in un teatro, ma in un ristorante (cosa in realtà non così usuale), può darsi che lo spettacolo fosse più ridotto.

La farsa è stata scritta, al più tardi, intorno al 1914. Questo perché, se è vero che la legge contro l’alcool fu varata solo nel gennaio del 1920 (dunque subito dopo la morte di Baldassarre),  il regime detto “dry” (asciutto) fu preparato da diversi anni di dibattiti. Nella nostra farsa l’Ubbriaco si dice comicamente più volte “dry”, ma Stenterello nota come fosse proibito bere solo la domenica, dunque si tratta di un periodo antecedente il varo della legge, che sarebbe stata molto più drastica. Va notato che questa sarebbe stata sentita come principalmente diretta contro gli emigranti, specie contro gli italiani e gli irlandesi, notoriamente amanti del bere. Lo stesso Ubbriaco grida anche la sua ostilità a Francesco Ferdinando come se fosse ancora vivo (era, com’è noto, l’erede degli Asburgo, il cui assassinio, nel giugno del 1914, sarebbe stato causa della prima guerra mondiale) ed esalta la città di Trieste, ovviamente di una Trieste italiana.  Siamo dunque in pieno clima irredentista[13].

Come molte cose scritte per il teatro, la farsa non ha alcun valore di scrittura. Il suo potere d’attrazione nasce innanzitutto dalla familiarità con il personaggio di Stenterello, che si conferma nei suoi caratteri fondamentali: pauroso, sbruffone e preda di tutti i bisogni elementari immaginabili. Che fosse anche, in particolare, amantissimo del buon vino (e dunque molto avvilito dal clima di proibizionismo) è un elemento particolare che rinvia all’antico personaggio creato dall’attore Luigi Del Buono a fine Settecento[14], un personaggio che, come è noto, è considerato l’ultima maschera della commedia dell’arte, così tarda che la maschera è stata sostituita da un trucco pesante.

8.Stenterello, disegno di Luigi Del Buono, fine del secolo XVIII.

Come spesso accade, le immagini ci dicono, in un attimo, molto più di tante parole: un disegno di Stenterello dello stesso Del Buono[15], certo la più nota immagine del personaggio, mostra infatti, a malapena celata sotto la zimarra, un fiasco di vino insieme alla scritta “posapiano” che, per definizione, è una persona lenta e irresoluta (qui per paura) e al numero 28, che nella numerologia fiorentina è il numero dei becchi.

Anche se il personaggio è nato assolutamente privo di volgarità (il noto gastronomo Pellegrino Artusi scriveva: “…dal palcoscenico Stenterello lanciava frizzi e motti scevri però di volgarità, tanto che famiglie intere assistevano al suo spettacolo“), alcuni interpreti successivi si sono presi, a questo riguardo, alcune libertà: lo Stenterello molto greve (e di gran successo) di Lorenzo Cannelli, allievo di Del Buono, aveva valso al personaggio il significativo cognome di Porcacci. Va ricordato peraltro che quel sanguigno Stenterello sapeva all’occorrenza ergersi a difesa dei deboli; e che lo stesso attore era  un vero patriota. Avendo il coraggio di satireggiare il regime degli Asburgo-Lorena, entrava e usciva continuamente dalle Murate, sempre graziato dall’ultimo granduca, Leopoldo II, suo grande fan…

Proprio lo Stenterello di Cannelli, con il suo cognome Porcacci, aveva trovato a San Francisco almeno un prosecutore, il già citato Arturo Godi, che rivendicava esplicitamente quel cognome così come la nascita nel quartiere fiorentino popolarissimo di Peretola.

9.Arturo Godi, in “L’Italia” 18 aprile 1907.
10.Arturo Godi nel ruolo di Stenterello, in “L’Italia della Domenica” 12 settembre 1915

Il cognome Sparaschizzi dello Stenterello di Baldassino punta invece l’accento sul suo essere totalmente inoffensivo, o reso tale dalla sua  paura. Si potrebbe dire che era l’attore a creare il personaggio e non il personaggio a condizionare l’attore e forse non si sbaglierebbe. Ma la paura del nostro Stenterello non è solo una paura atavica, primordiale: è ora ingigantita dalla sua condizione di fragilità assoluta, quella dei migranti.

Il successo di questo tipo di spettacoli si fondava e si rafforzava, oltre che con il talento degli interpreti, proprio con i sensi comuni che si intrecciavano tra attori e spettatori;  nel nostro caso alcuni, che sono detti i “prominenti [principali esponenti]” della Colonia italiana, sono anzi esplicitamente nominati: l’avvocato Lo Franco, il bonaccione Orlandi, lo stesso  Baldassino. I primi due (in altre repliche avrebbero potuto figurare  anche altri nomi), erano probabilmente presenti allo spettacolo e tra questi e lo stesso Baldassino il gioco dell’entrata e uscita dal personaggio e dallo spettacolo poteva essere un ulteriore motivo di comicità. La lingua era, come si è detto, quella italiana, con alcune inserzioni buffe in un inglese spesso italianizzato, o meglio “toscaneggiato” (baratender, invece di bartender, cioè oste).

Ma se Stenterello pare quello che tutti ricordano, se le modalità di rapporto erano probabilmente quelle tradizionali, se la lingua è quella che tutti conoscono, è il pubblico a non essere più lo stesso: è un pubblico sradicato dalle sue origini e dalle sue tradizioni, traumatizzato dal lungo viaggio, dall’ardua e penosa ricerca di un lavoro decoroso e dall’incontro – più spesso è uno scontro – con un Nuovo Mondo portatore di abitudini e valori profondamente diversi dai propri.

Questo, anche la storia della famiglia Mazzoni lo dimostra: si ricordi la doppia vita di Vittorio e  lo strappo dei due fratelli contro il padre. Storie a dir poco inquietanti e dolorose, certamente nate con il nuovo vento di libertà americano, che nel piccolo  mondo protetto e chiuso di una cittadina toscana come Prato ben difficilmente avrebbero visto la luce; e vale la pena di notare come l’ultima generazione, quella appunto di Baldassino e Cordelia, riesca a liberarsi solo a caro prezzo dai pesanti condizionamenti tradizionali.

Di queste inedite difficoltà di rapporti  la breve drammaturgia di cui qui si scrive si fa in qualche modo interprete, curandole con il balsamo di un comico bonario e apparentemente spensierato: ma è una drammaturgia che monta insieme gag riconoscibili del personaggio con  l’espressione di nuove, pesanti verità. Non era dunque un semplice ritrovarsi con quel personaggio e in quella lingua: il teatro svolge qui una vera funzione terapeutica collettiva. Le emozioni e le delusioni di cui Baldassino scriveva erano quelle reali, connesse alle difficoltà economiche, in primis quelle di pagare l’affitto, magari a un connazionale più fortunato (Gervasio); ai rapporti per lo meno problematici con gli emigranti di altre nazionalità (il capitano irlandese); soprattutto alla delinquenza imperante.

Una delinquenza che originava fra gli emigranti una forte ostilità contro la polizia americana (il poliziotto Flinn), non solo impari a combattere il fenomeno, ma anzi spesso con esso collusa: ed è  questo, come è noto, il principale motivo della contemporanea diffusione fra gli italiani della Mano Nera. Ma Stenterello non arriva a tanto. Baldassino ha ragionato sul personaggio e ha dedotto dai suoi caratteri il suo nuovo mestiere, trovando per lui una, sia pure (paradossalmente) non onesta, via d’uscita.  Lo riconosce lui stesso:

“Ero venuto in America con l’intenzione di far l’onesto ma non ci fu verso, e cominciai anch’io a imbrogliare il prossimo”.

Pauroso, sbruffone, pigro, all’occorrenza imbroglione: in una Chicago dominata dalla prepotenza dei poliziotti, Stenterello non può che ambire a diventar poliziotto, o, com’egli dice, una “guardia di poca sicurezza”. Un mestiere, a suo dire, davvero straordinario, una vera cuccagna:

“Agli altri è proibito bere di domenica, è proibito rubare, uccidere, mentre noi possiamo far tutto senza darne conto a nessuno”.

E perfino:

“i debiti li paghiamo a randellate, i ladri li arrestiamo se rubano poco, le persone oneste le mandiamo in galera perché non ci danno da mangiare”.

L’ostilità degli emigranti coinvolge anche il mondo dei giornali. E’ un argomento forse penoso per Baldassino, perché Stenterello dice che uno dei mestieri da lui tentati e poi abbandonati, nel caso perché troppo poco redditizio, è stato quello di giornalista e forse racconta una vicenda subita dallo stesso autore: lo fa pensare la scrittura e la pubblicazione della Strega di Bastia, che parlano di ambizioni e talenti più importanti di quelli di un semplice ristoratore[16]. E se in precedenza si è ipotizzata l’entrata e uscita dal personaggio, questo è un altro punto in cui il gioco poteva continuare; anche se in questo caso non ci sarebbe una finalità comica, ma una denuncia sociale. Il giornalista del “Chicago Tribune” di cui si scrive nella farsa, Battista, è solo un ignorante  vanaglorioso perché, dice Stenterello, “in questo paese chi ha scienza si muore d’inedia“; perfino quelli più noti e impegnati – e si fa l’esempio di Alessandro Mastro Valerio, un famoso giornalista italoamericano del tempo[17]– , sono in realtà incapaci di migliorare la situazione.

Prima pagina del giornale “L’Italia”, 18 aprile 1907

Dei proprietari di giornali Stenterello dice che “son quasi sempre analfabeti e non apprezzano l’istruzione”; il proprietario de “L’Italia” è citato come il prototipo dell’avarizia;  e ci si potrebbe domandare se sia stato lui o comunque una politica generale di reclutamento tutt’altro che incoraggiante a impedire a Baldassino di percorrere quella strada.

Nel monologo dell’Ubbriaco napoletano leggiamo anche l’intimo dissidio di ognuno, combattuto tra l’istinto di voler conservare le proprie tradizioni (“mannaggia chille …che non…non…vole esse taliano”) e l’inevitabile aspirazione a mimetizzarsi con gli americani (“I don’t spicco talian”; “…sono ingliso…I  am mericano”). Se il padrone di casa Gervasio esalta la comunità dei “patriotti” toscani ed è disposto per questo a dimenticare i debiti di Stenterello,  quest’ultimo, parlando dei “prominenti della Colonia”, pensa a tutti gli italiani di Chicago, anche meridionali[18], appunto come a una “colonia” di quella che è ancora sentita come madrepatria; ed è proprio l’Ubbriaco napoletano a  gridare: “Viva la Talia!”.

E’ certo che in questa drammaturgia, così semplice, ma anche così  densa  di allusioni al Nuovo Mondo di quegli anni, domina il ricordo commosso dell’amata Firenze (“la mi’ bella Firenze“), dei suoi monumenti (il Battistero) e dei suoi angoli meno famosi ma ben noti a chi ci viveva (il “canto alla briga[19]); e anche delle sue feste (quella dell’Ascensione alle Cascine, con lo sparo dei mortaretti e dei razzi colorati) e della sua gente (conosciuta e non infida) e del buon Chianti che vi si beveva. Ma non c’è solo questo.

Firenze è anche, nel ricordo, un mondo idealizzato in cui la legge era fatta osservare e i poliziotti erano onesti. “A Firenze i chiappini[20] e le guardie di poca sicurezza son malvisti, qui invece sono loro i padroni” dice Stenterello; e se Gervaso lo affronta dicendo: “La legge vi obbliga a pagare i debiti”, l’altro prontamente risponde: “In Firenze, ma in America è differente“. In America la legge non tutela i deboli; l’unico aiuto per lui può allora venire dai “patriotti”, da chi ha condiviso, oltre alla terra d’origine, i rischi di quel viaggio e le traversie del presente: per esempio, da Gervaso e dallo stesso Baldassino, che, in nome di tutto questo, condonano generosamente i suoi debiti.

La farsa mostra come quella americana fosse tutt’altro che una calda accoglienza e come necessità e ostacoli possano indurre gli emigranti ad abbandonare la speranza di una vera integrazione per ripiegare unicamente sui legami originari.

Tra una battuta e l’altra, Stenterello dice una verità che essi non vorrebbero nemmeno pensare: e cioè che il miraggio del Nuovo Mondo è caduto. Una verità davvero amara per lui e per i suoi spettatori.

Elena TAMBURINI  Roma 12 Giugno 2022

NOTE

[1]    Era certo era più simile al Boccaccio che alle immagini più consuete di Stenterello, che, a partire dal nome, avrebbe dovuto essere magro e rifinito dagli “stenti”.
[2]    Cfr. il trafiletto con il suo nome su “Il libro del giorno” (Chicago), in data 16 novembre 1916. La cosa è verosimile anche perché il cognato Arturo Marchesini era rappresentante di vini e liquori.
[3]   Il ristorante era posto in Wabash Avenue 524 South (zona Dearborn Street), mentre la famiglia abitava non lontano,
     in Fullton Avenue. Dati che mi sono stati trasmessi dalla mia prozia Cordelia oralmente e per di più così
     “toscaneggiati” che non è stato facile individuarli.
[4]  Dankmar Adler e Louis Sullivan, celebri architetti, attivi a Chicago alla fine dell’Ottocento.   
[5]    Va notato che l’unica farsa rimasta reca un’indicazione di scena: “Un parco solitario, appena rischiarato dal raggio della luna. In fondo una selva cupa”. Il che farebbe pensare a uno spazio in qualche modo attrezzato.
[6]    Cfr. F. Taviani, Amatorialità. Riflessioni a partire dal “dilemma” di Osanai Kaoru: Teatro eurasiano, teatrologia comparata e l’emisfero amatoriale, in Idem, Le visioni del teatro. Scritti sul teatro dell’Otto e Novecento, a c. di M. Schino, Roma, Bulzoni, 2021, pp. 267-309 (in particolare alle pp. 274-278)
[7]  Cfr. A. Testaverde, Antonio Maiori, il “Salvini italoamericano” e l’altra storia del teatro italoamericano in California, in “Vi metto fra le mani un testo affinché ne possiate diventare voi gli autori”. Scritti per Franco Perrelli, a c. di S. Brunetti, A. Petrini, E. Randi, Bari, Edizioni di Pagina, 2022, pp. 298-306.
[8]    Cfr. A.M. Testaverde, L’impresa teatrale italiana in California (1850-1930), in corso di stampa negli Atti del Convegno internazionale Migrazioni artistiche tra Europa e America, Bergamo, maggio 2022. 
[9]    Una storia anch’essa degna di nota. Rina era partita da Camigliano (Lucca) con un matrimonio combinato: un emigrante del suo paese, che l’aveva notata prima di partire, l’aveva chiesta in matrimonio. Rina, pur  non  ricordandolo affatto, probabilmente spinta dai genitori, aveva finito per accettarlo. Ma, giunta a Chicago, il suo pretendente non le era piaciuto e non aveva voluto sposarsi, preferendo impiegarsi come ricamatrice.
[10]  Fu infatti sepolto a Prato, nel cimitero della Misericordia. La lapide riporta che è morto a 37 anni il 21 gennaio 1920. Lo si diceva nato in marzo, dunque dovrebbe essere nato nel 1882. Suppongo che la data di morte si riferisca alla tumulazione e che lui sia morto in realtà una quarantina di giorni prima, cioè prima della partenza per l’Italia, dunque alla fine di dicembre del 1919.
[11]  Un testo scritto, o trascritto da un copista, su un quaderno che mi propongo di depositare, insieme al libretto della Strega di Bastia, presso la biblioteca Riccardiana di Firenze, dove si trovano molte altre stenterellate ottocentesche, che, va notato, sono anch’esse interamente distese.
[12]  Una serata in un teatro poteva essere anche molto lunga, come nello spettacolo preannunciato al teatro Liberty il 24 luglio 1916 (in “L’Italia” a quella data), il cui programma è specificato nei particolari: I parte musicale, di arie prevalentemente d’opera accompagnate al piano: “Voce di donna” dalla Gioconda; “Stride la Vampa” dal Trovatore; “Cielo e Mar” dalla Gioconda; “Ai nostri monti” dal Trovatore; “Ultima canzone” di Tosti; “Risata di Pasquino” aria comica; “Strofe di Franz” dai Racconti di Hoffmann. II parte:  Stenterello a Parigi, commedia brillante in tre atti, “fatica particolare per la Maschera”, attori principali: Arturo Godi e Tina Modotti. Quest’ultima sarebbe in seguito diventata, come è noto, una fotografa e attrice del cinema di notevole fama (cfr. Tina Modotti. Donne, Messico e libertà, catalogo della mostra, Milano, 24 Ore Cultura, 2021; G. Muscio, Mimì Aguglia, Lina Cavalieri e Tina Modotti sui palcoscenici americani: scandalo e italianità, in corso di stampa negli Atti del Convegno internazionale Migrazioni artistiche tra Europa e America, Bergamo, maggio 2022).
[13] Come è noto, l’annessione di Trieste all’Italia era un’aspirazione forte degli irridentisti; sarà realizzata dopo la prima guerra mondiale, nel 1920. Francesco Ferdinando era personalmente assertore di un programma politico che vedeva Trieste annessa a una delle tre parti dell’Impero austro-ungarico; ma qui è visto ovviamente come l’erede della potenza asburgica.
[14] Come è noto, al teatro del Cocomero (ora Niccolini) di Firenze nel 1793, con la commedia Fiorlinda e Ferrante, scritta e interpretata dall’attore.
[15]  L’immagine è riprodotta nel frontespizio di Jarro [G. Piccinini], L’origine della maschera di Stenterello (Luigi Del
Buono 1751-1832). Studio anedottico su documenti inediti, Firenze, R. Bemporad e figli, 1898.
[16]  Lo fa pensare anche l’altro Stenterello di San Francisco, Arturo Godi, che collabora attivamente all’edizione speciale de “L’Italia” del 18 aprile 1907, rievocante il terribile terremoto dell’anno precedente.
[17]  Alessandro Mastro Valerio (1857-1944), emigrante italiano di idee radicali, proprietario e giornalista de “La Tribuna Transatlantica”. Di lui ricordo il suo studio Remarks upon the Italian Colony in Chicago in Hull House Maps and Papers (1895).
[18]  Si pensi  all’avvocato Lo Franco, che non è certo un cognome toscano e che pure era considerato uno degli esponenti più in vista della Colonia.
[19]  Si trovava all’incrocio tra Via dell’Agnolo e Via de’ Pepi, nel cuore del quartiere popolare di Santa Croce: luogo di incontri e di scontri: “canto alla briga”, cioè il luogo dove si “attaccava briga”, si litigava.
[20]  Poliziotto, detto in senso scherzoso e spregiativo.