di Chiara GRAZIANI
Il popolo che cercava la Terra senza male, promessa ai Guaranì da un antico profeta, vide uno sguardo, una mirada, emergere dalle foreste del Paraguay.
Erano gli occhi di quella che fu chiamata la Conquistadora, un’immagine (perduta) della Madonna che i Gesuiti innalzavano come imbasciata, primo contatto visivo fra due civiltà senza una lingua ed una cultura in comune.
La Conquistadora, scorta tra le mani degli alieni europei, fu riconosciuta, ammirata. Amata a prima vista. Poi vennero anche l’amore puro per la musica, l’adesione ad un’organizzazione sociale di aggregazione urbana fino a lì sconosciuta, la curiosità creativa che andava dall’artigianato alle cattedrali precedendo – nei sogni e nelle ambizioni – le tecniche ed i materiali che, via via, si mettevano a punto per tenere dietro al crescere impetuoso dell’esperimento sociale delle riduzioni gesuite, le cittadelle dell’utopia dei Guaranì, giunti nella Terra senza Male.
Ma prima di tutto, all’inizio di tutto, ci fu quel contatto visivo dal quale si capì che un linguaggio comune, degli occhi e del cuore, esisteva. L’arte, nel 1600 sulle rive del Rio della Plata, forse per la prima volta nella storia dell’uomo, fu strumento di una conquista senza armi che fondò città libere e produttive che non potevano non scatenare invidia che portò con sé sangue, dopo appena un secolo. La prova di questa capacità attrattiva, del magnetismo della rappresentazione della madre di Dio, sta nella fine che le fu fatta fare. Fu “uccisa” , messa al rogo dagli sciamani che avevano ucciso, prima di lei, anche i sacerdoti che la conducevano in viaggio nella foresta per fondare un’altra riduzione.
La mirada di Maria, però, era rinata altrove.
In un dipinto piccolo, di travolgente normalità, ancora fresco di colore perché dipinto nella riduzione dal primo artista della cultura gesuita-Guaranì. La Conquistadora era diventata, così, Nostra Signora della Terra-senza-male, dipinta ad appena tre anni dalla fondazione della riduzione di Itapùa. Una ragazzina sui 14 anni, in testa il maphorion bizantino, tracciato a matita nello schizzo-guida da un padre gesuita, ma con grandissimi occhi guaranì che cercano, intensamente, chi la guarda. Il maphorion viene probabilmente dal perduto originale bizantino, senz’altro una copia di un’immagine cara ai Gesuiti, forse proprio la Mater Societatis della basilica di San Paolo fuori le mura a Roma. La mirada della piccola Signora guaranì, però, è una neonata nella storia delle immagini mariane. L’immagine è stata giudicata, riteniamo a ragione, la prima opera d’arte della cultura gesuita-guaranì (lo sostiene la massima autorità in materia il professore Darko Sustersic emerito della Uba, università di Buenos Aires).
Fu dipinta perché il fondatore, padre Roque, si accingeva ad un altro viaggio, portando con sé la Conquistadora. Si era pensato di farne una copia come suggerisce lo schizzo a matita, per “non lasciare i Guaranì senza la loro madre”. Qualcuno, non sappiamo chi, decise che l’opera poteva essere fatta, invece, da Habiju, indigeno che evidentemente aveva dato prova di capacità ed interesse. I Padri, una volta ultimata, gliela fecero firmare sul retro dove sta scritto: “M. Habiju fecit Itapùa 1618.” La riduzione era stata fondata solo tre anni prima, nel 1615, da padre Roque Gonzales.
Nel rincorrersi delle mille contaminazioni che fanno la storia dell’arte non era mai stato possibile individuare il momento in cui nasceva una cultura: la piccola Signora dell’Utopia, dipinta e firmata nel 1618 è, ci si passi, il big bang di un nuovo sistema di creatività, ibrido ma originale e unico; come un bambino nuovo, che ha un padre ed una madre ma è un individuo, per sempre irripetibile, anche se tutta l’umanità si mettesse a figliare per rifarne un altro uguale. La mirada che i Guaranì avevano amato, infatti, si estese da quel dipinto a tutte le espressioni artistiche prodotte dalla civilizzazione che fu detta del “cristianesimo felice” e che fu stroncata da un accordo fra due delle potenze coloniali dell’epoca, Spagna e Portogallo. Opere che conservano, uno sguardo che vede ed illustra il mondo in un modo originale, propositivo. Utopico. Empatico. Insopprimibile. Madonne, tenerissime Vergini bambine, arcangeli, angeli musicanti, Gesù flagellato alla colonna, Gesù paziente, Gesù sostenuto in croce dalle braccia aperte di un Padre che ha un Volto ed uno Sguardo, guarda ed è guardato: ed anche le strutture per il culto dovettero immaginarsi più aperte delle nostre, più penetrate dal mondo esterno con il quale non doveva esserci separazione ma continuità e, dunque, visibilità. Lo sguardo dà vita, essere nello sguardo ti crea ogni momento. L’arte Guaranì si potrebbe essere riassunta nel paradigma dello sguardo che chiama alla vita.
L’originalità, e la fecondità culturale, del rapporto fra la cultura gesuita e quella Guaranì sta in alcune basi condivise, come l’attesa di redenzione, la fede nella promessa ricevuta, il riferimento ad un solo Creatore. I Guaranì, notarono gli europei, avrebbero potuto recitare la prima parte del Credo (un solo padre onnipotente, creatore del cielo e della terra e di tutte le cose visibili ed invisibili) senza bisogno di conoscere la Conquistadora o i missionari gesuiti. Tutto il resto venne, in un reciproco riconoscersi.
I nativi aspettavano la terra senza Male promessa dal profeta come prospettiva terrena, storica. I Gesuiti gliela offrirono e la costruirono insieme a loro. Rovine potenti, nella foresta o inglobate nelle città, e statue che parlano con gli occhi sono ancora lì a raccontarci di come un’utopia ancora viva si muova oggi in una storia che si vorrebbe solo scritta dall’alto.
Chiara GRAZIANI Roma 26 Giugno 2022