di Nica FIORI
“SULLE ROTTE DI ULISSE.DA TROIA A ITACA TRA MITO E REALTA”. Valtrend editore 2022
Ulisse (Odisseo, alla greca) è uno di quei personaggi dell’epopea omerica, il cui mito continua ad ammaliarci a distanza di millenni da quando è stato poeticamente concepito, forse perché incarna la dimensione eroica e al tempo stesso fragile dell’essere umano. La sua personalità poliedrica, che nel proemio dell’Odissea è resa con l’aggettivo “polytropos”, ovvero versatile, multiforme, si manifesta nelle sue intricate e favolose avventure, nelle quali deve affrontare terribili sfide e pericolose seduzioni, prima di raggiungere la sua agognata Itaca.
Ma quanto c’è di vero in quel lungo viaggio nel Mediterraneo, che da lui prende il nome di Odissea?
L’ultimo libro dell’archeologo Angelo Pellegrino, intitolato “Sulle rotte di Ulisse. Da Troia a Itaca tra mito e realtà” (Valtrend editore, 2022), ci conduce lungo le tappe del viaggio del mitico eroe, offrendo molteplici spunti di riflessione su una realtà che Omero conosceva solo in parte, avendo ambientato il suo poema in un periodo, come quello della guerra di Troia, a lui antecedente di qualche secolo. Ed è per questo che i contenuti della sua narrazione non sono spiegati in maniera logica, consequenziale, uniforme, ma sono distribuiti secondo un criterio cronologico tutt’altro che rigoroso, con ricordi del periodo miceneo (XVI-XIV sec a. C.) e tardo miceneo (XIII-XII a.C.) rimescolati in maniera confusa. Del resto il mito è stato elaborato nel X-VIII secolo a.C. quando la scrittura ancora non esisteva, mentre l’Odissea sarebbe stata scritta tra l’VIII e il VII secolo a.C.
L’autore ha cercato di individuare tra i versi del poema omerico quei dati concreti che potrebbero far comprendere meglio il periodo che va dalla fine della civiltà micenea all’ingresso della Grecia nel palcoscenico della Storia.
Nel complesso si tratta di un saggio impegnativo a carattere storico, archeologico e antropologico, ma allo stesso tempo pensato per un ampio pubblico di lettori, compresi gli appassionati di arte, che potranno trovare nel libro ampia soddisfazione dalla lettura dell’appendice, scritta dalla storica dell’arte Flavia Ferrante. Assolutamente apprezzabile è la scelta delle opere da lei prese in esame, che vanno dall’antichità al Novecento, in un excursus iconografico che inizia con la produzione ceramica e scultorea greca, etrusca e romana (tra cui l’immagine iconica della Testa di Ulisse della Grotta di Tiberio a Sperlonga, del I secolo d.C.) e termina con Il ritorno di Ulisse di Giorgio de Chirico (1968, Roma, Fondazione Giorgio e Isa de Chirico).
Un dipinto che nell’immagine dissacrante dell’eroe, che rema su una barchetta all’interno di una stanza, sembra alludere all’angoscia dell’uomo moderno e all’infondatezza delle sue azioni.
Se il contributo dell’arte è stato decisivo nel trasformare il mito, nell’adattarlo, illustrarlo, interpretarlo continuamente, altrettanto si può dire della letteratura, dagli autori classici ai moderni, dei quali Pellegrino traccia una lunga rassegna nell’introduzione, evidenziando come
“l’ombra di Ulisse … abbia proiettato la sua sagoma attraverso i secoli sul pensiero e la sensibilità di intellettuali e letterati assumendo forme diverse nei diversi momenti storici”.
L’idea del libro, come racconta l’autore, è stata ispirata da una frase, pronunciata da un comico in una trasmissione televisiva, nella quale si alludeva al fatto abbastanza sconcertante che il cavallo di Troia non fosse un cavallo, ma una nave: una tesi, sostenuta dall’archeologo navale Francesco Tiboni, che evidentemente non era così sconosciuta, perché la figura di Ulisse è saldamente presente nell’immaginario collettivo. E, a proposito di tesi, grande successo ha ottenuto il libro “Omero nel Baltico” (Roma 1995) dell’ingegnere nucleare Felice Vinci, che a un archeologo come Pellegrino
“risulta privo di ogni presupposto scientifico, anche se non mancano delle brillanti intuizioni che sarebbe stato opportuno elaborare con analisi più corrette”.
Per cercare di far luce sulla geografia omerica, Pellegrino ha deciso di “rileggere con fervente interesse quello che può essere considerato il più grande poema dell’umanità”: un’umanità descritta in tutte le sue sfaccettature, perché
“Ulisse appare come un microcosmo in cui è concentrato il senso della vita in tutte le sue manifestazioni, anche contradditorie: dal sentimento intenso di gioia all’abbattimento nel dolore, dal rispetto degli dei al rifiuto del loro volere, dalla dedizione alla famiglia al desiderio di evasione dal focolare domestico, dall’angoscia verso l’ignoto al desiderio di conoscerlo, dall’ansia di fronte ai pericoli alla capacità di superarli”.
Volendo schematizzare il contenuto del volume (256 pagine), va precisato che nella prima parte viene tracciato il contesto archeologico e storico, minoico prima, quindi miceneo, per giungere alla crisi del mondo miceneo. L’autore ci ricorda che l’Età del Bronzo vide nell’antico mondo mediterraneo la nascita di quella fiorente civiltà, denominata “minoica” dall’archeologo Arthur Evans, che mise in luce nell’isola di Creta il palazzo di Cnosso, la cui complicata pianta venne da lui messa in relazione con il labirinto fatto costruire dal mitico re Minosse, per ospitarvi il mostruoso e feroce Minotauro, figlio della regina Pasifae e di un possente toro bianco mandato al re dal dio del mare Poseidone.
Dal punto di vista archeologico si pensa che, tra la fine del III e l’inizio del II millennio a.C., genti straniere di provenienza orientale tardo elladica (1680-1060 a.C.) abbiano raggiunto l’isola apportandovi novità nel campo della metallurgia e della produzione ceramica, integrandosi con la popolazione locale e contribuendo allo sviluppo dell’agricoltura e dei commerci marittimi (periodo minoico antico).
I cosiddetti “Primi Palazzi” vanno datati al periodo minoico medio (1950-1750 a.C.) e i “Secondi Palazzi” al minoico tardo (1750-1500 a.C.). In essi doveva svolgersi l’attività politica, amministrativa, economica e religiosa dell’isola, ma niente in realtà nei grandiosi edifici di Creta può giustificare l’asserzione di Evans che si trattasse di residenze di re e/o regine, essendo stata appurata solo l’esistenza di un sistema organizzativo in senso gerarchico e non l’esistenza di una qualche dinastia locale. La civiltà minoica, le cui manifestazioni artistiche (in particolare resti di affreschi e ceramiche) appaiono libere e gioiose, ha riguardato non solo Creta, ma anche la vicina isola di Thera, l’attuale Santorini, la cui città di Akrotiri è stata distrutta nell’eruzione vulcanica, datata sulla base di indagini dendrocronologiche al 1628 a.C., che interessò probabilmente tutto l’Egeo, determinando la fine di quella civiltà.
La civiltà elladica, che si riferisce all’area continentale della Grecia e non alle isole, nel suo periodo più tardo (1680-1060 a.C.) è più nota come “civiltà micenea”, in quanto la città di Micene ne fu a lungo l’insediamento più importante. La tradizione ci ha tramandato il nome di Agamennone, il re di quella città che nell’Iliade è il capo della spedizione degli Achei contro Troia.
Quando il tedesco Heinrich Schliemann (1822-1890), lo scopritore di Troia e della civiltà micenea, del quale ricorre quest’anno il bicentenario della nascita, scavò a Micene e rinvenne nelle grandiose tombe a circolo delle maschere funerarie in oro, in una di esse volle riconoscere i tratti di Agamennone. In realtà si trattava di manufatti antecedenti di circa quattro secoli rispetto al periodo in cui il re omerico avrebbe regnato su Micene. La maschera (XVI secolo a.C.) è conservata nel Museo archeologico di Atene e non è esente dal sospetto di essere un falso.
Angelo Pellegrino tratta ampiamente gli sviluppi dei floridi insediamenti in Argolide, Messenia e Laconia, tra le cui architetture appare particolarmente significativa la reggia di Pilo in Messenia, attribuita da alcuni studiosi al re Nestore, ricordato da Omero. Si tratta di un palazzo il cui nucleo principale è rappresentato dal cortile e dal megaron tripartito con i resti di quattro colonne intorno al focolare centrale. Tutt’intorno sono disposti i vani residenziali, cerimoniali e di immagazzinamento di alimenti. Le tavolette d’argilla in lineare B, che vi sono state trovate, ci informano sulle numerose attività che si svolgevano a Pilo e della suddivisione in distretti, di cui un’eco risuona nei versi del III libro dell’Odissea.
L’autore si sofferma anche su rinvenimenti che attestano il fenomeno di espansione dell’influenza micenea in tutto il Mediterraneo, come il famoso relitto di Uluburun, una nave affondata verso la fine del XIV secolo a.C. con il suo carico comprendente tonnellate di lingotti di rame e stagno e oggetti vari, anche di oro, conservata nel Museo navale di Bodrum, in Turchia.
È probabile che gli scambi non fossero solo commerciali, ma anche politici, perché i manufatti più preziosi (ad es. un sigillo egizio in oro della regina Nefertiti) potevano servire per rafforzare alleanze nell’ambito delle relazioni internazionali.
Forse non è un caso – fa notare Pellegrino – che negli archivi ittiti a partire dalla fine del XV secolo a.C. siano menzionati, anche come avversari, gli Akhkhiyawa, da identificare forse con gli Achei, ovvero i “micenei” impegnati nella guerra contro Troia, guerra da datare al periodo “tardo miceneo” (XIII-XII secolo a.C.).
La crisi del mondo miceneo è pure ampiamente trattata, evidenziando che nel periodo corrispondente all’Età del Ferro (X-VIII a.C.) si ha la colonizzazione della Magna Grecia e l’invenzione della scrittura.
Segue l’analisi dell’Odissea, della quale vengono esposti i contenuti narrativi di ogni canto, gli aspetti filologici e la questione della sua cronologia. È questa forse la parte del libro più coinvolgente per il lettore medio, perché fa rivivere con la guida di un archeologo lo studio del più bel poema dell’antichità, con i suoi indimenticabili personaggi quali il figlio Telemaco e la moglie Penelope, i re Menelao e Nestore, le affascinanti Nausicaa, Circe, Calipso, le ombre dell’indovino Tiresia e di Anticlea (la madre di Ulisse), le divinità che decidono il destino degli uomini tra cui Poseidone, contrario all’eroe, e Atena, che invece lo aiuta, le favolose e mostruose creature quali le Sirene, Scilla e il ciclope Polifemo, il cui accecamento è raffigurato in un’hydria etrusca del VI secolo a.C. (Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia), scelta come immagine della copertina del libro.
Nella III parte, intitolata “La realtà micenea in Omero”, si entra nel vivo del tema che rappresenta lo scopo del libro, ovvero l’individuazione degli elementi reali mettendoli a confronto con le testimonianze archeologiche e quei pochi riferimenti storici tratti dagli autori antichi. Vengono presi in esame anche
“alcuni passi dell’Iliade che, pur non essendo stata composta dallo stesso autore dell’Odissea, con questa condivide la conoscenza di quel mondo acheo prosperato e poi decaduto nel corso dell’età del bronzo”.
In particolare il cosiddetto “Catalogo delle Navi”, descritto nel II libro dell’Iliade (vv. 494-759), in cui sono enumerati i contingenti achei che furono imbarcati per raggiungere Troia, con l’indicazione diretta o indiretta della loro provenienza.
Sul Catalogo gli studiosi non sono concordi: alcuni ritengono che la sua composizione risalga al periodo miceneo, elaborata per via orale e poi redatta in forma scritta intorno all’VIII secolo a.C.; altri ne abbassano la cronologia all’epoca di Omero stesso che di proposito avrebbe narrato fatti avvenuti più di quattro secoli prima. Altri ancora propongono un’altra datazione. L’autore pensa che il Catalogo rifletta buona parte del quadro geopolitico del mondo miceneo, ma “come una realtà che si è modificata secondo uno sviluppo diacronico”. È logico supporre, infatti, che gli aedi, nel tramandare oralmente il testo poetico, lo modificassero nel corso dei decenni, magari per soddisfare le richieste dell’uditorio, sempre diverso nel tempo e nello spazio, o anche per i loro intendimenti “artistici”.
L’autore esamina tutti i dati del Catalogo che appaiono veritieri in relazione al periodo e quelli che forse sono stati aggiunti in un secondo tempo, ovvero siti non micenei. Si dilunga inoltre nella trattazione di scavi condotti in varie località e di alcuni siti che ricordano nei nomi personaggi omerici, ma senza nessun fondamento scientifico.
L’individuazione di Troia nella collina di Hissarlik, presso lo stretto dei Dardanelli, può considerarsi attendibile, secondo il parere di molti studiosi, per il riscontro delle indicazioni geografiche fornite da Omero, per i dati che si desumono dalla documentazione epigrafica ittita (la città indicata in molti testi come Wilusa corrisponderebbe al nome greco di Ilio) e per i risultati degli scavi lì effettuati. Scavi iniziati da Schliemann nel 1871 e poi continuati, pur con qualche interruzione, sostanzialmente fino ai nostri giorni. Anche se Schliemann era un dilettante e quindi non affrontò gli scavi con rigorosi criteri scientifici, è alla sua visionarietà e perseveranza, a suo tempo criticata dagli accademici, che dobbiamo l’importante scoperta della mitica città, che si è materializzata davanti ai suoi occhi.
Come scrive Pellegrino:
“L’archeologia ha dimostrato che nel sito antico si sovrapposero, gli uni sopra altri, gli strati dei resti di ben nove città che, a partire dagli inizi del III millennio a.C. interessarono il periodo miceneo, greco arcaico, greco classico, ellenistico e romano, fino all’età bizantina: una storia urbana durata per oltre quattro millenni che già di per sé dimostra l’eccezionale importanza del sito”.
Tutti gli insediamenti vengono presi in esame dallo studioso; lo strato più antico, ovviamente, è quello di più recente scoperta: si chiama Troia 0 e viene datato al 3500-3000 a.C.; l’ultimo è Troia IX (85 a.C.-1300 d.C.).
La sostanziale veridicità della guerra descritta nell’Iliade sembrerebbe confermata dalla distruzione di Troia VI, avvenuta tra il 1220 e il 1180 a.C. a causa di una violenta azione bellica, dimostrata dal rinvenimento di scheletri, di punte di freccia e catapulte.
L’autore affronta il problema dell’identificazione degli Achei/Micenei con gli Akhkhiyawa dei testi ittiti, ma ammette che sulla base delle conoscenze attuali non si può stabilire con certezza se fossero quelli della Grecia centrale e del Peloponneso o piuttosto quelli stanziatisi in Anatolia, nella zona di influenza della “colonia” micenea di Mileto (o anche a Rodi e isole vicine). Quindi sottopone all’attenzione del lettore la proposta di Louis Godart (già prospettata nel passato da altri archeologi) nel suo recente libro (“Da Minosse a Omero. Genesi della prima civiltà europea”, 2020) di collocare lo scontro tra micenei e troiani nell’ambito di una presunta “guerra civile”.
Non è forse strano che nei poemi omerici gli Achei e i Troiani, pur dislocati su due continenti diversi, parlino la stessa lingua, adorino gli stessi dei e abbiano caratteristiche simili? Godart ritiene che al momento della capitolazione la città di Troia fosse governata da un’aristocrazia micenea (Troia VI ha restituito ceramica micenea in gran quantità), vista l’importanza che questo popolo aveva assunto sulla costa anatolica (in particolare a Mileto), e Pellegrino sembra abbastanza attratto da questa tesi.
Riguardo al regno di Ulisse, quell’Itaca che è diventata sinonimo di patria, di meta da raggiungere, o anche uno stato dell’anima, Omero ne aveva una conoscenza geografica un po’ approssimativa, come pure delle altre isole Ionie, come risulta da un celebre passo dell’Odissea (IX, vv. 21-26):
“Itaca piena di sole è la mia patria; il Nerito, monte che ha le selve agitate dal vento, sorge nel mezzo; molte sono le isole vicine tra loro, Dulichio e Same e Zacinto frondosa. Itaca stessa è bassa di lido, spicca dal mare più spinta ad occidente e l’altre, un poco discoste, guardano a oriente ed è terra sassosa, ma nutre giovani prodi.” (trad. E. Cetrangolo).
Stando a questa descrizione, dovremmo identificare Itaca con Cefalonia – fa notare l’autore – in quanto è la più occidentale delle isole, ma è tutt’altro che bassa ed è anche la più grande dell’arcipelago, mentre Itaca doveva essere secondo Omero la più piccola. Per spiegare questa stranezza, lo studioso Robert Bittlestone elaborò con alcuni geologi, filologi, e archeologi un progetto teso a comprendere la conformazione dell’isola in età micenea (del resto già Strabone era a conoscenza del mutato aspetto del paesaggio rispetto al passato e identificava Itaca con l’omonima isola) e giunse all’idea che Itaca corrispondesse all’attuale penisola di Paliki a Cefalonia. Le indagini geografiche sono continuate e il problema rimane aperto. Molti studiosi, però, concordano con l’identificazione con l’Itaca attuale.
L’ultima parte del libro, intitolata “Ulisse e l’Occidente”, tratta la geografia occidentale illustrata nell’Odissea e quindi le rotte verso l’Italia meridionale e la Sicilia, ma le avventure di Ulisse non sono riferite a contesti ben definiti. Tuttavia è molto piacevole ripercorrere le tappe, così come venivano individuate dagli autori antichi, che vedevano per esempio nella terra dei Lotofagi l’attuale Piccola Sirte in Tunisia, e nell’isola di Circe, Eea, il promontorio del Circeo. Le Sirene venivano localizzate presso Sorrento, l’antro di Polifemo in Sicilia al di sopra di Aci Trezza, i cui faraglioni sarebbero gli enormi massi da lui gettati nel mare nel tentativo di colpire la nave di Ulisse. Scilla e il gorgo di Cariddi venivano localizzati nello stretto di Messina, e l’isola dei Feaci con Corcira, l’attuale Corfù.
Quanto all’Ade, il mondo dei morti del quale si parla nell’XI canto, viene ubicato nel paese dei Cimmeri, ovvero sulle coste del mar Nero nell’attuale Crimea, come pure in Campania, nell’area dei Campi Flegrei o nel lago Averno presso Cuma.
La lettura del libro è piacevole e molto stimolante. Ogni capitolo può essere letto a se stante a seconda degli interessi del lettore. La densità di notizie riportate, di passi poetici, di illustrazioni permette di approfondire un contesto storico e archeologico che ha a che fare con le nostre origini, perché i paesi del Mediterraneo, e in particolare le civiltà antiche dell’Egeo, hanno reso possibile con le loro opere d’ingegno, con l’apparizione della scrittura, con la loro religione, con gli scambi commerciali e i miti tramandatisi di generazione in generazione quella “classicità” che è alla base della nostra cultura occidentale.
Nica FIORI Roma 19 Luglio 2022
Angelo Pellegrino svolge la sua attività di archeologo dal 1974: è stato per molti anni direttore degli scavi di Ostia Antica ed è stato docente di antichità greche e romane presso le università Federico II di Napoli, Roma TRE e di Bologna. Tra le sue pubblicazioni voglio segnalare il libro “Mosaici e pavimenti di Ostia”, da me recensito in questa stessa rivista: www.aboutartonline.com/unindagine-sui-mosaici-dellarea-archeologica-di-ostia-antica-caratteristiche-tecnica-ed-evoluzione/