P d L
Una considerazione ci è venuta di fare dopo aver visitato, per la seconda volta in pochi giorni, la mostra Il Patriarca bronzeo dei caravaggeschi. Battistello Caracciolo, dedicata alla figura e all’opera dell’artista partenopeo che visse precisamente a cavallo di due secoli (Napoli, 1578 – 1637), curata in modo inappuntabile da Stefano Causa e Stefania Piscitello, dopo aver casualmente incrociato un turista francese –uno dei rari visitatori ahimé! in un caldissimo giorno di inizio agosto – che conoscevamo, che però della esposizione nulla sapeva ed era addirittura in difficoltà a trovare la ‘location’ come usa dire oggi, cioè la Sala Causa, sede dell’evento; ci è venuto da pensare, per farla breve, che se le date dell’apertura e chiusura fossero state capovolte – apertura 2 Ottobre, chiusura 20 Giugno e non il contrario- certamente la mostra avrebbe conosciuto un destino diverso e assai più gratificante non solo per quanto riguarda l’attenzione del pubblico che, comunque la si voglia mettere, bene o male si misura in termini di spettatori e biglietti staccati, ma anche dal punto di vista del rilievo scientifico, a parere di scrive certamente rimarcabile, ma ancora –a quanto almeno ci sembra- in larga parte poco esplicitato. Non che siano mancati lodi e riconoscimenti al lavoro dei curatori, certo, però con una programmazione forse più attenta e studiata, l’attenzione verso l’evento avrebbe potuto avere un riscontro più ampio.
Senza contare che la mancanza del catalogo ragionato della mostra (disponibile solo da un paio di giorni) certamente ha influito nel rendere difficoltosa (anche per chi scrive) – e forse per alcuni non fattibile- un’appropriata analisi non tanto in generale del percorso artistico di Battistello (sui cui certo non mancano pubblicazioni, a partire ovviamente da quella ‘storica’ del 2002 con l’Opera Completa a firma di Stefano Causa, poi seguita da ulteriori rimandi dello stesso autore e di altri studiosi, partenopei e non) quanto soprattutto delle novità, delle aperture, degli spunti e in particolare degli eventuali aggiornamenti di cui le brevi schede apposte accanto ai dipinti in mostra non potevano né possono dar esaurientemente conto. Viene da chiedersi – per fare un esempio- quanto possa incidere su una disamina che aspiri ad essere esauriente, la questione dei “vuoti” -rimarcati a suo tempo dallo stesso Stefano Causa- cioè se il Caracciolo ebbe collaboratori, se fece nature morte oltre quelle inserite in dipinti sacri, se esistono opere precedenti il 1601, anno in cui realizza i sei putti della facciata della cappella del Monte, come pure poco si sa dei soggiorni genovesi e così via.
Detto questo, a noi la domanda, come si usa dire, è sorta spontanea: Chi fu veramente Battistello Caracciolo ?
Un seguace del verbo caravaggesco, un valente e a volte acuto pittore che si trovò coinvolto nella temperie artistica che attaccò a Napoli negli anni successivi all’arrivo del genio milanese che in ogni caso egli seppe declinare in modo anche originale e personale? O non piuttosto un interprete molto spesso efficace delle tendenze allora in voga, capace quindi di collaborare con Lanfranco, di ‘guardare’ Gentileschi e Vouet, ma soprattutto di adeguarsi al verbo riberesco in modo intelligente ma seguendo (non vogliamo dire subendo) quella profonda incisione impressa dallo Spagnoletto alla realtà pittorica di un periodo pure assolutamente unico e profittevole dal punto di vista artistico. In effetti la sensazione che rimane anche dopo due attente passeggiate dinanzi alla serie di dipinti che narrano il cammino dell’artista partenopeo è che qualcosa di indecifrabile resti, come se l’artista nasconda dentro di sé un che che fatica ad uscire.
Vediamo i temi affrontati nei dipinti: tutti sono rigorosamente a carattere religioso e se consideriamo l’epoca, dominata dall’ideologia della Controriforma, non dovrebbe comportare eccessiva meraviglia il fatto che anche Battistello vi si rispecchiasse. Gli stessi Venere e Adone -peraltro subito risistemato in quadro da chiesa con Adone trasformato in santo e la figura femminile ridipinta- e un da taluni discusso Leda e il cigno, accadono allorquando, com’è stato scritto, si sviluppa
“un generale atteggiamento culturale che in risposta alla diffidenza di matrice controriformistica verso la finzione mitologica portò avanti un processo di riuso del mito denso di termini di contaminazione allegorico-moralizzanti” (cfr, V. Lotoro, Arte e Mito nel Mediterraneo. La fortuna dei temi delle “Metamorfosi” nel Seicento e nel Settecento. Parte Prima. Roma, 2012, pagg. 24-25);
al quale atteggiamento culturale fece senza dubbio da matrice il pensiero di Giovan Battista Marino, espresso nelle Dicerie Sacre, scritte nel 1614, durante il soggiorno torinese del poeta, in cui
“le favole degli antichi sono interpretate come ‘bende misteriose’ sotto cui si celano assaissimi sacramenti della Cristiana religione”. (cfr, Lotoro, cit).
In tutto ciò, tuttavia occorre specificare che l’Inquisizione a Napoli fu in larga parte differente rispetto a quella presente in Spagna. Il tentativo fatto alla metà del ‘500 dal Viceré don Pedro di Toledo (quello che volle i cosiddetti quartieri spagnoli, realizzati per acquartierare le sue truppe e al quale peraltro si deve la famosa strada che porta il suo nome e che li lambisce) di impiantare anche nella capitale del Viceregno l’Inquisizione di marca spagnola aveva scatenato una violentissima reazione popolare con successiva spietata reazione che portò alla morte di centinaia di rivoltosi e che fu particolarmente brutale allorquando sulla porta di Castel Nuovo don Pedro fece scannare tre cittadini ritenuti responsabili della rivolta lasciandoli appesi per diversi giorni con un telo nero (l’episodio è narrato in G. Greco, a cura di, Diamante Di Palma. La strega della PIgnasecca. Un processo nella Napoli del Seicento, Napoli, 2022); ma la rivolta non fu inutile se è vero che poi l’inquisizione partenopea se sicuramente non fu meno invadente di quella iberica, certo non fu altrettanto ossessiva.
Ma per ritornare alle tematiche religiose quella di Battistello non appare una religiosità, se così possiamo dire, gridata e neppure ostentata, bensì rappresentata in un modo più che rispettoso, remissivo, come fosse espressione di un sentimento, la malinconia, che ci azzardiamo a dire sia stata caratteristica dell’artista, la sua cifra stilistica prevalente. E come spesso accade la malinconia – lo ha scritto bene Filippo Maria Ferro per altri artisti- scaturisce da desideri vissuti più nella fantasia che in realtà concrete, e rivela l’esperienza di una perdita impossibile da rielaborare, prossima alla percezione di una condizione che, in termini psicanalitici, si declina come frammentazione dell’io, come necessità di allontanare se stessi dalla perdita di una sicurezza precedente.
Lo conferma a nostro parere un sia pur rapido excursus del percorso artistico di Battistello, a cominciare dalla sua cosiddetta ‘preistoria’ artistica, per la quale Roberto Longhi aveva parlato di ”surrogati di stile” baroccesco, riferendosi ad artisti come Imparato, Lama, Santafede; per continuare con l’arrivo a Napoli di Caravaggio nel 1606, in forza del quale, scrive De Dominicis
“lasciate in abbandono tutte quelle da lui per l’innanzi seguitate maniere a questa (di Caravaggio nda) tutto si volse” ed anzi “si dice che copiò molte opere del Caravaggio … abbandonando tutti quei bei colori a’ quali con tanto studio … prima si era applicato”;
per arrivare alla decisiva ‘svolta’ riberesca, quando a Napoli sbarcò lo Spagnoletto “massimo sollievo per gli artisti locali”, come annotava Stefano Causa (da cui le citazioni), ed alla quale anche Battistello “non poteva sottrarsi”.
Si tratta di una parabola ascendente o discendente? Non è poi così chiaro, se consideriamo come negli affreschi più tardi, come scriveva a suo tempo Argan (citato da S. Causa, in Battistello Caracciolo. L’Opera completa, cit. pag. 133n) “quasi ritorna alla sua prima educazione manierista”. Ma certo va sottolineato per quel che ci riguarda che questo andamento -come definirlo? variabile- dell’arte del Caracciolo, non deve suonare a demerito dell’artista, ché anzi starebbe a certificare –per quanto riguarda il nostro discorso- come non fosse affatto uno sprovveduto né, tanto meno, un opportunista, dimostrandosi capace di integrare di continuo il suo cursus artistico e dunque di non meritare una considerazione in qualche misura sottodimensionata com’è stato almeno fino ad oggi (“Battistello non piace alla gente che piace” ha chiosato Stefano Causa).
E tuttavia probabilmente non si può non notare, rivedendo con quali e quanti Maestri del tempo l’artista napoletano ebbe contatti, come nel suo catalogo si registri la totale mancanza di testi anche solamente prossimi a quelli prevalenti a partire proprio dal secondo decennio del XVII secolo a Roma, dove convenivano già artisti da ogni parte d’Europa, e dove con una evidenza piuttosto chiara, si registrava l’entrata in scena e l’affermazione con il ruolo di caposcuola di Bartolomeo Manfredi già presente in città nel 1603 se è lui quel “Bartolomeo servitore del Caravaggio” che compare negli atti del famoso processo che si svolse proprio in quell’anno e in cui il Merisi compare tra i diffamatori di Giovanni Baglione. Che fosse dovuto alla cosiddetta “Manfrediana Methodus” -come la definì Karel van Mander- dopo la scomparsa del Merisi, l’affermazione nel corso del secondo decennio, di veri e propri topoi creando un linguaggio completamente nuovo, non è questa la sede per ribadire o contestare; un fatto è però che il successo delle cosiddette scene di genere caravaggesche sarà enorme e soprattutto “nonostante l’evidente edonismo di taluni soggetti” com’è stato sottolineato, tuttavia “era quasi sempre presente una forte componente educativa e moralistica” (cfr. M. Gianfranceschi, Le incisioni da Caravaggio e Caravaggeschi. Musici, giocatori e indovini nelle scene di genere, Roma, 2012).
E’ del tutto evidente nella scelta di questi temi, l’idea di un coinvolgimento dello spettatore, e se è vero che l’immagine in genere raffigura un evento, la traduzione figurativa di una memoria determina inevitabilmente risultati differenti, che allo stesso tempo sono frutto ed evidenziano le diverse personalità, il loro background culturale. Nondimeno, non si può non notare l’assoluta idiosincrasia e il totale distacco del Caracciolo da queste tematiche. La spiegazione potrebbe risiedere in quel che accadde nel corso del soggiorno romano del 1612, allorquando egli venne letteralmente impressionato “dalla pittura del divino Raffaello” e da quanto di ammirabile Annibale eseguì nella Galleria Farnesiana, vedendo altresì operare proprio in quel torno di tempo gli allievi del bolognese: Guido Reni, Domenichino, Albani, e soprattutto Giovanni Lanfranco “che allora usciva in campo con la sua gran maniera”. Di qui
“considerando quelli solamente usciti dalla scuola dell’ammirabile Carracci e contrappesandoli con i pochi discepoli del Caravaggio … ne trasse il chiaro argomento quale fusse d’ambedue il valore e la differenza”. ( cfr. De Dominicis, in Causa, cit. p. 48).
Se però consideriamo che ancora nel 1612 dipinse il David con la testa di Golia (FIG. 1) che nel sito online della Galleria Borghese, dove il quadro com’è noto è esposto, viene citato come “uno dei rarissimi riferimenti temporali certi nell’ambito della produzione dell’artista tra il 1607 e il 1615, gli anni della sua piena adesione al caravaggismo”, forse il giudizio del De Dominicis visto sopra, come non di rado capita, dev’essere ammorbidito
In ogni caso, sappiamo che furono gli esiti lanfranchiani della Cappella Bongiovanni in Sant’Agostino a favorire gli “incrementi di stile e cultura dell’opera di Battistello” individuabili nel Noli me tangere di Prato, – siamo negli anni Venti- certamente distante dalla Immacolata Concezione con san Domenico e san Francesco di Paola, (FIG. 2) grande pala (334×209 cm) tra il 1606 e 7, della Chiesa di santa Maria della Stella (merito ai curatori della mostra di averla esposta) con cui l’artista partenopeo esordiva, per dir così, nel caravaggismo.
Un tema, va sottolineato, questo della Madonna con angeli e Santi decisamente importante per la pittura controriformata, se consideriamo come la figura della Vergine costituisse un tema privilegiato degli attacchi dei protestanti di tutte le confessioni perché considerata al pari delle creature umane, anch’essa “non senza peccato”. Lutero, nel criticarne la figura, vi alludeva sarcasticamente come ad ”una piccola goccia di acqua nei confronti del mare”, ed anche Erasmo ne aveva ridimensionato il ruolo. A Roma con tutta probabilità Battistello ebbe modo di vedere quello che è considerato “il modello di riferimento pittorico più replicato, imitato e condiviso della pittura controriformata”, vale a dire la Madonna tra Santi ed Angeli, dipinta da Scipione Pulzone nel 1581 per la Chiesa di Santa Maria della Concezione, rimossa nel 1625 per far posto ad una pala di Giovanni Lanfranco (Cfr. A. Zuccari, a cura di, Scipione Pulzone e il suo tempo. Roma, 2018, pagg. 142-143)..
Né c’è da credere che Battistello, che più volte fece tappa nella capitale papalina, non fosse a conoscenza di quanto sul fronte delle conseguenze dell’affermazione in arte dei principi controriformati andava accadendo; non è agevole insomma delineare come lineare il suo percorso. E dunque ritorna la questione di un atteggiamento difficilmente spiegabile le cui ragioni forse andrebbero ricercate affrontando la questione in un più ampio contesto, anche e soprattutto nel differente approccio critico nei confronti della realtà, nella tensione a trasferirla in modelli compositivi. Qualcosa che a nostro parere, resta nell’ombra; detto in poche parole, è come se la vera personalità dell’artista possa apparire in qualche misura ancora inespressa, o labile, rispetto al rango che si cerca di rappresentare.
Ecco perchè non dev’essere facile ricostruire l’avventura artistica ed esistenziale di un pittore che, da come ce lo descrivono le scarse cronache, appare fondamentalmente poco appariscente, il quale per quel che se ne sa non sembra proprio fosse solito girare per le strade e le bettole delle città, neppure quando si trova a Roma considerata sì la capitale delle arti ma anche il paradiso dei truffatori, meta dei furfanti di tutta Europa:
“Vi inviterei ad andarci –scriveva Karel van Mander rivolto ai giovani artisti oltremontani– se non avessi paura che vi traviaste…”.
Non pochi altri artisti – a cominciare dai suoi due maestri- attratti come da una irresistibile calamita, si muovevano spesso ai limiti e a volte come sappiamo anche fuori della legge, tra aristocratici e prostitute; non Battistello che non ha lasciato –a quanto se ne sa ad oggi- traccia scritta della sua vita ma che però, assai prima di morire, era entrato nelle committenze più prestigiose, se non pure nell’immaginario collettivo destinato a perpetuarsi proprio nella città dove, come avviene da sempre, i miti nascono, regnano e si bruciano nello spazio di un mattino. Napoli si sa è una città che ha sempre avuto una sorta di privilegiata dimestichezza con la luce e con le ombre, con gli angeli e con i demoni, una città che nella sua straordinarietà – nel senso stretto, di fuori dall’ordinario- ha provato e sperimentato di tutto. Perché meravigliarsi dunque se di Battistello, alla fine di questo percorso pure indubitabilmente esauriente dal punto di vista espositivo, ci rimane un’immagine ancora non del tutto messa a fuoco (parliamo ovviamente nel senso della nostra personalissima impressione), come se anche la sua storia fosse figlia, l’ennesima, della particolare curvatura in cui si situa la storia stessa della città.
Certo, se poi pensiamo ad esempio quanto possa giungere davvero inaspettato un dipinto che apre l’esposizione raffigurante Cristo e la Cananea, “un raro dipinto da stanza collocabile al principio del ‘600”, periodo in cui Battistello esordisce come frescante nella bottega di Belisario Corenzio, non rimarrà deluso chi si aspettava in particolare –et pour cause- da Stefano Causa, che certamente ama e conosce come pochi Battistello Caracciolo, un voluttuoso trattamento d’urto. D’altra parte è lui in particolare che, da valoroso studioso, più di altri ha arricchito la narrazione battistelliana di pregevoli rarità, di novità fatte riemergere dai fondi di archivi e biblioteche o recuperate in verbali ed epistolari, negli atti giudiziari, nei campionari di antiquari e mercanti. E dunque non si può che convenire quando viene notato che con l’Immacolata Concezione con i santi Francesco di Paola e Domenico (vedi FIG 2), di cui si diceva, considerato “il primo sforzo coerentemente caravaggesco di Battistello”, si delinea l’ampia curvatura dentro cui evolverà il “ritratto storico” nel Viceregno, in forza del carattere realistico dei volti dei santi.
C’è da dire che è’ un po’ come se l’artista partenopeo avesse raccolto il testimone direttamente dalle mani del genio lombardo che del tema deteneva la primazia, se si accetta quello che annotava anni addietro Vincenzo Pacelli, ossia che
“in particolare è in alcune figure della Madonna del Rosario, delle Sette Opere di Misericordia e del Martirio di Sant’Orsola che si sorprende ‘in nuce’ gran parte dello sviluppo secentesco del ritratto pittorico napoletano” (Cfr, V. Pacelli, L’ideologia del potere nella ritrattistica napoletana del Seicento, Estratto da “Bollettino di Centri Studi Vichiani. XVI, Napoli, 1987, p. 208).
Ma è non sull’impatto diretto sull’artista partenopeo del Caravaggio del primo soggiorno napoletano che occorre a nostro parere un’ulteriore riflessione, quanto sul suo progressivo distaccarsene, non senza che qualche aporia vada infine rimarcata.
A cominciare da quello che viene riproposto come uno dei momenti di ‘svolta’ in cui Battistello si differenzia da uno stretto imprinting caravaggesco, cioè la Crocifissione con i dolenti (FIG 3) che sebbene sia ritenuta, oggi, dalla critica d’arte in stretto rapporto con la Crocifissione di Sant’Andrea (FIG 4), capolavoro di Caravaggio, segna l’inizio dello sganciamento dai temi merisiani, per una conversione “in senso pietistico”, laddove cioè –come recita la succinta scheda del dipinto- “Battistello adotta uno scarto patetico e un cambiamento della luce ( che ) ammorbidiscono la composizione”.
E’ noto da tempo che questa notevole opera venne correttamente ascritta al Caracciolo dal compianto Pacelli che non per caso la datava al 1607, ossia strettamente a ridosso della realizzazione della tela caravaggesca (allocata ancora nel 1610 nella capitale del viceregno). Ma è una idea che ha fatto discutere e purtroppo la mancanza del catalogo dell’attuale esposizione non ci consente di fare riferimenti precisi (posto che ce ne siano) circa la datazione, non indicata nella scheda citata, anche se c’è da ritenere che sia valida l’indicazione del 1610 che Stefano Causa diede a suo tempo. Al nostro studioso interessa però osservare ciò che “non passa” da Caravaggio a Battistello, e il fatto che non compaiano alcuni particolari (il gozzo della vecchia ad esempio, come pure le dita molli che ricadono sul palmo inchiodato e il triplice nodo della corda) renderebbe evidente che “l’ordine è ancora una volta di rallentare e l’interpretazione pietistica di Caravaggio non potrebbe essere più esplicita” (Cit., p. 35). Ma per quali motivi, resterebbe da chiedersi, origina la svolta “in senso pietistico”?
Considerando che il tema svolto dal Merisi non appare poi così tanto frequentato da quanti artisti si rifecero alla sua linea realizzativa, è certamente vero che la pala battistelliana vada ritenuta un unicum. Ma a questo punto, il problema non è tanto se risalga al 1607 o al 1610, quanto invece cercare di capire sulla base di quali motivi il cambiamento in direzione dello “scarto patetico” possa essersi determinato.
Non a caso un teologo preparato oltre che studioso di immagini, come Francesco Saracino, che peraltro considera “Il Crocifisso di Battistello Caracciolo … l’immagine più prossima all’ originale del Merisi” si spinga a dire che “più di tutte le immagini del Seicento la tela di Battistello ha il valore di una deposizione giurata dal testimone che ha assistito alla pena capitale” (Cfr F. Saracino, Cristo a Napoli. Pittura e cristologia nel Seicento. Grimaldi &C. editori, Napoli, 2012, pag. 153), richiamando la “modalità di rappresentazione crudamente documentaria, come avviene nel Martirio di Sant’Andrea eseguito negli stessi mesi dal Caravaggio per il viceré Juan Alonso Pimentel de Herrera (Cleveland Museum of Art). Sarebbe insomma da ritenere che tra i grandi esponenti secenteschi del ‘naturale’, l’intensa interpretazione del naturalismo caravaggesco porti Battistello ad aprirsi ad una lettura autonoma di umana e drammatica esperienza esistenziale, che si traduce in una patetica e sofferta dimensione individuale.
Siamo in effetti ancora lontani dall’entrata in scena nel Viceregno del ciclone – Ribera cominciato nel 1616, anno del definitivo approdo napoletano, allorquando lo Spagnoletto, lasciata Roma inseguito da creditori e sbirri, impone “una repentina rottura degli argini”, per citare il Causa del 2019 (Cfr., Battistello disvelato, in Battistello Caracciolo. Dialogo all’ombra di Caravaggio, catalogo della mostra a cura di Daniela Magnetti e Stefano Causa, Torino, Galleria Sabauda, 2019, pagg. 27 – 46).
E’ noto che lo studioso insiste non da oggi con una serie di ricostruzioni ed osservazioni certo assai ben argomentate nel proporre un proprio punto di vista secondo cui occorrerebbe raccontare la pittura napoletana del Seicento “come un sistema di glosse al linguaggio di Ribera”, allorquando “va sfumando la memoria del Caravaggio”, e lo Spagnoletto
“riporta all’attenzione di maestri e intenditori, quei giochi di prestigio pittorici che l’ultimo Caravaggio, tra il 1606 e il1610, aveva loro sottratto”.
Ne deriva dunque la considerazione che a Napoli, nel Meridione “il Seicento non è il secolo di Caravaggio ma il secolo di Ribera”, alfiere di “una realtà scrutata e indagata pittoricamente in modo opposto al Caravaggio”, di cui prima conseguenza per Battistello, se possiamo dire così, sarebbe un “apice” che l’artista napoletano appena uscito –siamo nel secondo decennio, 1614 – dall’orbita di uno stretto caravaggismo, realizza cioè il Qui vult venire post me, (FIG 4) un “quadro da stanza” di cm. 132,8 x 183, dipinto per Marcantonio Doria e allocato nel Rettorato dell’Università di Torino (per le citazioni e per ulteriori notizie sull’opera, vedi ancora Causa, Battistello disvelato, cit.),
insieme alla Salomé con la testa del Battista, stesso tema di un dipinto da collezione privata e del capolavoro realizzato nel soggiorno fiorentino per Leopoldo de’ Medici e oggi agli Uffizi.
Né dovrà passare sotto silenzio la considerazione che i curatori appongono alla breve scheda che illustra i tre quadri, cioè che “in questi dipinti lo spettatore direttamente chiamato in causa, diventa complice della scena che si sta consumando”; considerazione che compare più o meno simile nel successivo Cristo portacroce dove
“l’adozione di un taglio ravvicinato è funzionale a coinvolgere chi guarda tra gli astanti del Calvario. Si tratta di una strategia di coinvolgimento che Battistello sperimenta anche in altri quadri da stanza”.
Si è visto come questo fosse l’obiettivo anche di artisti italiani e oltremontani che operavano a Roma in quel torno di anni, senza che Battistello vi si dedicasse. D’altra parte è vero che i vari passaggi che determinano l’esistenza e le scelte di un individuo, specie di un artista, raramente possono essere scissi dal contesto in cui si muove o meglio dai più complessi movimenti della storia umana in generale, che poi, in realtà sono sempre convenzionali. E sotto questo aspetto il senso di una fine, come di un inizio, più che in una data può essere meglio delineato seguendo una metodologia che implica una seducente dialettica tra il visibile e l’invisibile, tra il detto e il non detto. Per questo occorre sempre tenere aperto il discorso sulla figura e sull’opera di Battistello Caracciolo
P d L Roma 11 Settembre 2022