di Beatrice BUSCAROLI
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Nel centenario della nascita di Dino Gavina (San Giovanni in Persiceto, 1922 – Bologna 2007) Paradisoterrestre, in collaborazione con il Comune di Bologna, ordina una mostra che si articola in una polifonia di eventi espositivi in luoghi significativi della città: Sala d’Ercole a Palazzo d’Accursio, Galleria Paradisoterrestre, e il negozio/galleria di Gavina, in via Altabella.
Dino Gavina. L’enigmista consapevole.
1957: un “tappezziere senza titoli” cerca di portare alla Triennale di Milano una poltrona realizzata in collaborazione con un architetto che sta realizzando case operaie per Adriano Olivetti. Viene allontanato quasi con disprezzo. Racconta l’imprenditore e designer Enrico Baleri:
“Allora lui prende quella poltrona, se la mette in testa, quasi per nascondersi il viso da tappezziere, entra noncurante dall’ingresso principale nel Salone d’Onore e l’abbandona lì… Dopo quel gesto reazionario la gente ‘che conta’ si accorge di lui e nasce Digamma di Ignazio Gardella, il primo pezzo della nuova avventura di Dino Gavina”.
Se la narrazione è veridica viene da riflettere su quanto i luoghi in cui si nasce possano condizionare il carattere delle persone. Dino Gavina, forse non per caso, è nato a San Giovanni in Persiceto, e suo conterraneo è quel Giulio Cesare Croce – scrittore e enigmista – che, tra la fine del Cinquecento e i primissimi anni del secolo seguente, ha consegnato alla letteratura italiana l’epopea di Bertoldo. Insomma, accade quel che Croce, Giulio Cesare, annota nella sua autobiografia:
“Così in me un gran desio tosto s’accese / di seguitar di quelli le pedate, / che si son posti a così belle imprese”.
Gavina è indubbiamente dotato di quell’arguzia capace di smascherare l’ “intelligenza della cultura” più o meno ufficiale; conosce quella che gli antichi definivano methis, l’intelligenza intuitiva che travalica consuetudini e regole; arguzia eclettica e sovversiva, che lo porta a definire un dialogo assolutamente originale tra design e arte.
Ma la vita avventurosa e sovversiva di Gavina era nata già prima dello “sgarbo” del ’57.
Dal laboratorio bolognese di via Castiglione, dove nei primi anni post-bellici si trova a utilizzare materiali di recupero da forniture militari per produrre i primi mobili, già all’inizio degli anni Cinquanta ha modo di stringere un’amicizia profonda con Lucio Fontana. È Fontana a indirizzarlo verso quel mondo della progettazione industriale che innerverà l’ italian Style, presentandogli “i bravi architetti” come li definisce: Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Carlo Scarpa, Ignazio Gardella, Vico Magistretti, Enzo Mari, Carlo Mollino, Marco Zanuso: con i quali, deciso ad occuparsi di design, stabilisce un duraturo legame professionale.
Così, nel 1955, alla X Triennale milanese, Gavina presenta oggetti di autore sconosciuto:
“Il primo pezzo in assoluto è questa Tripolina. È una cosa che ho fatto con incoscienza, perché allora non avevamo alcuna cognizione di quello che poteva essere il design. Però, alla fine, il risultato è che, forse, è la cosa più bella che ho fatto. È difficile batterla. È fatta di niente. È una cosa ancestrale. Che cos’è? È una pelle di animale appoggiata su quattro bastoni. È la prima poltrona dell’uomo. Del re, probabilmente. È l’Homo faber. Vedete che ha proprio la forma di un animale a cui hanno tolto le zampe? È straordinaria, funziona sempre, vicino a un trumeau, ad un mobile antico. Non funziona soltanto in terrazza.[…] Il Cavalletto è un po’ un fiore all’occhiello per me. È del 1955. […] Vivendo nel mondo degli artisti, sapevo chi era Duchamp. Conoscevo la sua operazione. Conoscevo l’importanza di aver preso un oggetto di uso comune da uno spazio ed elevarlo ad opera d’arte solo per scelta. Di conseguenza, ho fatto un’operazione simile … Prendo un cavalletto dallo spazio di un falegname e lo porto in una casa. Solo per il fatto di essere in una casa, questo non è più un cavalletto: diventa un tavolo, uno scrittoio, oppure può stare nella casa al mare, dove non c’è tanto spazio, appoggiato al muro e lo si usa solo in caso di bisogno.[…] Era il 1955 e questi sono i primi pezzi di design anonimo messi in produzione”.
L’episodio del 1957, alla Triennale, non è che un inciampo, o, forse, una consacrazione. Nel 1960 Bologna vive un momento di sconcerto: nata la Gavina spa, con Carlo Scarpa direttore artistico, Gavina inaugura il negozio/galleria/centro culturale di via Altabella. L’intervento “restaurativo”, se così si può dire, è decisamente audace, e solo l’intervento dell’assessore all’urbanistica Giuseppe Campos Venuti riesce a fermare le polemiche della città “grassa e conservatrice”. Poco dopo i fratelli Castiglioni progettano la sede aziendale a San Lazzaro di Savena.
Da quel luogo il mondo di Gavina comincia a prendere un’altra forma: nel 1962, a New York, incontra Marcel Breuer e mette in produzione quella sedia Wassily che, nel 1925, lo rese celebre al Bauhaus: una sedia, per la prima volta, che sconvolge il nostro archetipo di “sedia” … non le “gambe”, ma una seduta e una spalliera che poggiano sul metallo incurvato. E, sempre nel ’62, crea la Flos. Afferma Gavina in un’intervista per la Rai:
“Con Piergiacomo (Castiglioni) abbiamo fatto una cosa straordinaria. Non dimentichiamo che cos’erano le lampade prima del ‘60. Nel mondo non c’erano che due lampade di Alvar Aalto e una cosina o due di Sarfatti qua a Milano e una piccola lampada di Pulsen in tutto il mondo. Mi pare. Non vorrei sbagliarmi. Ma più o meno è questo il punto. Voi immaginate la rivoluzione che c’è stata con queste nostre lampade”.
Il disegno industriale è un problema complesso, all’interno del quale l’idea di progettazione può subire torsioni impensabili, per le quali – dopo Fontana – anche le esperienze dell’arte possono offrire sollecitazioni, domande, e, magari, soluzioni. Perché:
“la bruttezza e lo squallore – è sempre Gavina a parlare – delle piccole cose con cui viviamo a continuo contatto (dal bicchiere al lampadario, dal soprammobile alla sedia del bar) ci pongono in uno stato di costante disagio e tensione. Per questo ho pensato di costituire un luogo di incontro, un laboratorio, un punto dove sia possibile fare qualcosa […]. Mi rendo conto tuttavia che, considerata la generale indifferenza e la diffusa falsità in cui viviamo, il nostro programma nasce e dovrà crescere nella dimensione dell’utopia”.
Per questo, nel 1967, inaugura a Bologna, con l’attiva partecipazione di Man Ray, il Centro Duchamp. Una factory, in cui dialogano artisti, scrittori, designer, ingegneri, scienziati, poeti, architetti, musicisti, alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi e di nuovi materiali. Testimonianza dalla quale emergono due tracce tra loro interconnesse: da una parte, il tentativo di rendere il più possibile permeabile il rapporto tra progettazione industriale e arti visive; dall’altro, la forma decisamente inusuale, “inattuale”, del mecenatismo di Gavina.
Una relazione che già lo scorso anno aveva evidenziato la mostra romana Reflections, curata da Giovanna Cotelli e allestita da Marco Brunori.
“L’idea alla base del percorso espositivo dedicato a Dino Gavina – spiegava la curatrice – è dimostrare l’importanza che ha avuto questo singolare personaggio in rapporto all’arte contemporanea. Evidenziare la sua capacità di mettere in relazione i linguaggi dell’arte con le esigenze della produzione industriale, perché gli oggetti che affollano l’ambiente domestico e gli spazi pubblici possano comunicare la bellezza attraverso la poesia delle forme, con rigore, ma anche con ironia e fantasia. Dino Gavina considerava l’arte, in tutte le sue manifestazioni, un nutrimento imprescindibile per la perfetta realizzazione degli oggetti di design che andava producendo nei suoi stabilimenti”.
E questa propensione, come dimostra la “mostra diffusa” bolognese, manifesta tutte queste implicazioni e questi coinvolgimenti, diretti o mediati: non solo degli amici architetti e del funambolico Man Ray, ma anche dei protagonisti del bouquet espressivo delle arti: dalla moglie, l’artista verbo-visuale Greta Schödl, ai cinetismi di Grazia Varisco; dalle forme stranianti del surrealismo di Meret Oppenheim e di Sebastian Matta, agli artefatti progettati come omaggio agli artisti amati (da Brancusi a Masson, da Pollock a Balla).
Dall’ultramobile di Matta, al metamobile di Enzo Mari, dagli specchi di Man Ray alle sedute di Novello Finotti. Senza dimenticare la ricostruzione, in Palazzo D’Accursio, della “casa nella casa”, una sorta di rifugio, un “cubo” nel quale isolarsi, che Gavina realizzò all’interno della propria abitazione.
E tutto si recita sul palcoscenico del grande “sovversivo” – come amava definirsi. Forse meglio sarebbe dire del pioniere illuminato, di un’età che per molti versi ormai è scomparsa. Un’età dove il talento poteva essere messo alla prova, dove l’interconnessione digitale non era presente, dove l’intelligenza poteva dispiegarsi, anarchica, come quella di Bertoldo
Beatrice BUSCAROLI Bologna 23 Ottobre 2022