di Nica FIORI
La pittura a olio su pietra si diffuse a Roma a partire dal 1530, quando venne iniziata da Sebastiano del Piombo la pala d’altare “in pietra de peperino murata”, raffigurante la Natività della Vergine, nella Cappella Chigi di Santa Maria del Popolo: un dipinto particolarmente impegnativo (portato a termine da Francesco Salviati) che condensa gli ideali neoplatonici e cristiani di trionfo sulla corruzione della morte e del peccato, incarnati da Maria, coerentemente con l’originario progetto architettonico di Raffaello.
A quell’epoca il veneziano Sebastiano Luciani, detto del Piombo dalla carica di piombatore pontificio, era già rinomato per l’invenzione di una tecnica pittorica su supporto lapideo, precedentemente sperimentata nella Cappella Borgherini in San Pietro in Montorio, che richiamava una pratica antica citata da Plinio. A questa particolare tecnica la Galleria Borghese dedica dal 25 ottobre 2022 al 29 gennaio 2023 la mostra “Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento”, a cura di Francesca Cappelletti, direttrice della Galleria Borghese, e Patrizia Cavazzini.
Il successo di quella “nuova” invenzione pittorica era dovuto al fatto che, dopo le terribili devastazioni del Sacco di Roma del 1527, ci si era resi conto della fragilità dei dipinti su tela o su tavola; la trovata di dipingere sulla pietra conferiva alla pittura un carattere di durata o addirittura di quasi “eternità”, che prima era considerato appannaggio esclusivo della scultura, nell’ambito del dibattito cinquecentesco sulla superiorità dell’una o dell’altra arte.
Quella su pietra è una pittura che vuole sfidare il tempo e allo stesso tempo la scultura e la natura. All’inizio si usavano lastre di lavagna o di altra pietra scura, che venivano dipinte integralmente, e in seguito diversi supporti colorati, anche semipreziosi, in grado di offrire meravigliose immagini naturali, perché il pittore non doveva sopraffare la natura e poteva inoltre associare un significato preciso al soggetto raffigurato. Cristo, in particolare, era visto come pietra viva (la pietra su cui si fonda la chiesa), come del resto San Pietro per volere dello stesso Cristo. Un altro esempio potrebbe essere quello di Sant’Agata, la martire patrona di Catania, che venne dipinta su agata per identificarla col suo nome.
Alcune opere di questo tipo attirarono l’attenzione del cardinale Scipione Borghese, che le acquistò nei primi decenni del Seicento e sono ancora oggi conservate nella Galleria Borghese: in particolare le opere di Alessandro Turchi, detto l’Orbetto, un artista veronese che venne a Roma per dipingere alle dipendenze di Paolo V, o quelle di Antonio Tempesta, che usò l’alabastro o il lapislazzuli per creare dipinti raffinatissimi, in grado di meravigliare l’osservatore.
Il genere della pittura su pietra decadde intorno alla metà del XVII secolo, probabilmente perché, contrariamente a quanto auspicato, non era così indistruttibile come sembrava e oltretutto si diffuse l’abitudine di triturare certi materiali lapidei, ritenuti taumaturgici, per ricavarne pozioni da bere. Non possiamo escludere che anche alcune pietre, precedentemente dipinte, abbiano fatto questa fine.
La mostra si sviluppa nel salone d’ingresso della Galleria e prosegue al piano superiore nella pinacoteca, per un totale di otto sezioni, con circa 60 opere provenienti da musei italiani e stranieri e da importanti collezioni private. L’allestimento è assolutamente apprezzabile, perché non nasconde i capolavori e gli arredi del percorso museale ed espone pannelli esplicativi e didascalie delle opere ben leggibili. Nella prima sezione “La collezione e il colore delle pietre” è evidenziato il gusto per i marmi colorati molto in voga alla fine del Cinquecento nelle dimore principesche. È esposto il piano di un tavolo (1590 ca., Galleria Borghese) con un ovale centrale e una cornice con marmi colorati e pietre semipreziose: un oggetto che potrebbe sembrare di gusto mediceo (pensiamo alle manifatture volute dal granduca Ferdinando I, che hanno dato origine all’antico Opificio delle pietre dure a Firenze), ma in realtà è di manifattura romana.
Gli è accanto una scultura in marmo nero del Belgio di Alessandro Algardi raffigurante l’Allegoria del sonno (1635-1636, Galleria Borghese), ovvero un fanciullo dormiente nero come la notte: si diceva che il materiale usato fosse la pietra di paragone, ovvero la pietra nera associata al significato di rivelare l’autenticità dell’oro e in questo caso dell’arte dell’Algardi, in quanto alcuni malevoli lo avevano accusato di saper scolpire solo modelli di terracotta e non il marmo.
Ricordiamo che la “pietra di paragone”, che conosce una grande fortuna nei primi decenni del Seicento sia come materiale da scultura sia come supporto per la pittura, deriva il proprio nome da un mito greco relativo alla trasformazione in pietra del pastore Batto ad opera di Ermes. Il pastore era stato testimone del furto delle mandrie di Apollo da parte di Ermes, e aveva giurato al dio di essere muto come una pietra, in cambio della giovenca più bella. E proprio in pietra venne trasformato per non aver rispettato il giuramento.
Un prestito straordinario è lo stipo Borghese-Windsor di manifattura romana (1620 ca., Getty Museum, Los Angeles): sembra un blocco unico ma vi sono innumerevoli cassetti in un tripudio di colori brillanti dovuti agli intarsi in pietre dure. Pure intarsiata con materiali preziosi è l’edicola-reliquiario (1630-1640, Galleria Pallavicini) che presenta al centro un’ametista di scavo della Roma pagana che è stata dipinta con un’Adorazione dei Magi.
Oggetti di questo tipo erano usati come doni diplomatici, per es. dal papa ai reali di Spagna, a simboleggiare l’eternità della fede e della devozione resa dalla pietra. Troviamo in mostra anche un altarino (1550-1577 ca., Galleria Borghese) con al centro una Crocifissione di Guglielmo della Porta, eseguita a cera su ardesia e un prezioso orologio di manifattura romana, che allude all’eternità del tempo.
Nello stesso salone è esposta anche una pittura a olio su lavagna di Francesco Albani: Madonna con Bambino e due angeli (1611 ca., Musei Capitolini, cm 107,5 x 157,5). È meno grande delle pale d’altare a fondo lapideo che troviamo a Roma in diverse chiese (ricordiamo tra le altre la pala della Madonna della Vallicella, del 1606-1608, dipinta da Rubens su lastre di ardesia nella Chiesa Nuova), ma è pur sempre di dimensioni maggiori rispetto alla maggioranza dei dipinti in mostra.
Il percorso espositivo prosegue al piano superiore con “La pietra dipinta e il suo inventore”, una sezione che dimostra quanto l’uso di metalli e marmi, come supporto alla pittura, rendesse durevole non solo il dipinto come tale, ma anche la memoria di un personaggio: motivo per cui troviamo una serie di ritratti, a partire da quello di Papa Clemente VII (1530 ca.) di Sebastiano del Piombo, realizzato su lavagna per indicare la forza di carattere del pontefice, quanto mai necessaria perché questo papa (nato Giulio de’ Medici ed eletto nel 1523) si trovò a dover fronteggiare una serie di situazioni drammatiche, come il Sacco di Roma del 1527 da parte delle truppe di Carlo V e la scissione della Chiesa d’Inghilterra. Tra gli altri ritratti ricordiamo quello di Roberto di Filippo Strozzi (1550 ca.) di Francesco Salviati, su marmo africano rosso e nero (da notare la mezzaluna che allude allo stemma di famiglia) e quello di Cosimo I de’ Medici (1560 ca.) attribuito al Bronzino, su porfido rosso, il marmo il cui colore è più vicino alla porpora imperiale e quindi simboleggia il potere.
Nella sezione “Una devozione eterna come il marmo”, troviamo opere che raffigurano le immagini incorruttibili della devozione, alle quali veniva talvolta attribuito un potere magico di protezione dai mali fisici e spirituali, per la proprietà talismanica delle stesse pietre utilizzate dall’artista. A Jacopo Bassano e al figlio Francesco si deve l’innovazione di dipingere scene della Passione di Cristo su piccole lastre di lavagna, lasciate in parte a vista, come nell’Orazione nell’Orto (1570-1580, Milano Fondazione Giulini Giannotti). Opere di questo tipo facevano spesso parte degli arredi delle camere da letto dei cardinali. Il Cristo morto con la Maddalena e angeli, di Alessandro Turchi, realizzato su lavagna nel 1616-1617, è stato commissionato dal cardinale Scipione Borghese. Fanno parte della sezione l’Adorazione dei Magi (1600–1620) su alabastro di Antonio Tempesta, la Madonna con il Bambino e San Francesco (1605 c.) di Antonio Carracci dipinta su rame, insieme a dipinti di Carlo Saraceni, Orazio Gentileschi, del Cavalier d’Arpino e altri.
In “Una notte come la pietra” troviamo le opere di pittori come Hans Rottenhammer e Filippo Napoletano che usano le pietre scure (lavagna, pietra di paragone) per drammatizzare scene notturne con incendi.
Tra i dipinti più significativi di questa sezione c’è anche Giuditta in preghiera (1630-31, olio su lavagna, Galleria Borghese), di Jacques Stella, dove l’eroina biblica appare quasi come una santa, ovvero raffigurata mentre prega, prima di uccidere Oloferne, che dorme sotto un tendaggio alle sue spalle, mentre a sinistra sono raffigurati gli angioletti alle prese con la spada che sarà poi usata dalla donna.
La sua è una bellezza eterna, che può essere avvicinata a quella di altre figure femminili, che troviamo nella piccola sezione intitolata “Fermare la bellezza”. Il pittore Leonardo Grazia, un artista toscano che riporta in auge l’allegoria, si è cimentato con le immagini di Cleopatra, Ebe, Lucrezia (due realizzate su lavagna), il cui colore della pelle, quasi confettato, vuole richiamare la bellezza che non appassisce.
Nella stessa sezione ci incantiamo davanti a Il martirio di Santa Caterina su lapislazzuli, di Jacques Stella (tratto da un dipinto di Guido Reni), che è un vero gioiello da indossare.
In “Dipingere con la pietra”, troviamo esposte pitture raffinatissime su pietra paesina e su alabastro. Antonio Tempesta ha dipinto Il passaggio del Mar Rosso e La presa di Gerusalemme (1610-1620, Galleria Borghese), sfruttando il paesaggio naturale della pietra, mentre Filippo Napoletano ha realizzato, sempre a olio su pietra paesina Ruggero libera Angelica dall’orca (1619 ca., Firenze Istituto Nazionale di studi Etruschi e Italici).
Angelica, eroina dell’Orlando furioso, è equiparata ad Andromeda che viene salvata da Perseo, che arriva in groppa al suo cavallo alato: un mito questo che è particolarmente presente nella sezione “Antico e allegoria”. Diverse opere su marmo, lavagna e pietra di paragone sono tutte dedicate a temi della poesia come l’Andromeda del Cavalier d’Arpino e l’Inferno con episodi mitologici di Vincenzo Mannozzi. Gli sfondi lucidi dei dipinti riflettono come specchi l’immagine dello spettatore che, mentre osserva l’opera, ne entra quasi a far parte.
Uno stupendo dipinto con allegoria è quello di Alessandro Turchi raffigurante Volontà, Intelletto e Memoria. L’Intelletto al centro è raffigurato con due fiamme in testa, mentre la Memoria ha come simboli lo specchio e il libro e la Volontà la spada. Di Pasquale Ottino è Medea che ringiovanisce Esone (1608-1609, Collezione privata) su lavagna, una scena di magia che ben si presta all’uso della pietra nera. Pure suo è Marte e Venere (1609 ca. Milano, Fondazione Giulini Giannotti) su pietra di paragone.
Nell’ultima sezione “Pietre preziose e colorate” ci incantiamo davanti ai sorprendenti fondali offerti dalla pietra paesina e alla preziosità di supporti come il lapislazzuli, usato per il mare e il cielo, che vengono esaltati dall’intervento dell’artista: anche in questo caso il colore e le screziature delle pietre contribuiscono alla composizione dell’opera e a suggerire significati. Si tratta di opere spesso di artisti dalla formazione fiorentina, che sperimentano il supporto lapideo non solo in chiave di eternità della pittura, ma per evidenziare le possibilità decorative della materia.
In questa sezione si distinguono tra gli altri Jacques Stella con il suo Riposo durante la fuga in Egitto (1629-1630, Pajelu collection) e Antonio Tempesta, singolare figura di raccordo fra Firenze e il mondo nordico.
Un suo straordinario capolavoro è quello che presenta da un lato Venere e Adone e dall’altro Andromeda e Perseo su lapislazzuli (seconda decade del XVII secolo, Galleria Borghese). Andromeda è identificata dall’artista (e da molti altri prima e dopo di lui) con una principessa dalla pelle chiara, anche se nel mito greco è etiope, perché, come ricorda Patrizia Cavazzini
“l’eroe quasi scambiò la fanciulla per una statua quando la vide incatenata alla roccia, inseparabile da questa, come la sua immagine non può essere scissa dalla pietra su cui è dipinta”.
L’idea di esporre questa produzione di oggetti singolari, in grado di suscitare quel senso di meraviglia che era il fine della poetica barocca, si inserisce in un percorso di ricerca iniziato nella Galleria Borghese nel 2021 con l’approfondimento del tema della Natura e del Paesaggio. Come ha dichiarato Francesca Cappelletti:
“Il percorso ci accompagna alla scoperta di una ricchezza nascosta all’interno delle collezioni, ci avvicina a una forma di opera d’arte che si poteva toccare, … lasciandosi incantare dall’abilità dell’artista e dall’energia creativa della natura stessa. Un’alleanza che la mostra cerca di riportare al centro del nostro sguardo e del nostro pensiero”.
Ne è venuta fuori una mostra di grande bellezza e profondità culturale, perfettamente in sintonia con lo spirito del luogo ospitante. Imperdibile.
Nica FIORI Roma 30 Ottobre 2022
“Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento”
25 ottobre 2022 – 29 gennaio 2023
Galleria Borghese, piazzale Scipione Borghese 5, Roma
Aperto dal martedì alla domenica dalle 9 alle 19 (ultimo ingresso alle 17.45)
Prenotazione obbligatoria:
tel.+390632810