Sergio Rossi: Caravaggio allo specchio tra salvezza e dannazione.

di Beatrice RICCARDO

Il nome di Michelangelo Merisi ha sempre suscitato un immenso clamore.

Non vi è mostra che presenti anche solo un’opera, magari di mano incerta ma dal cartellino inequivocabile, esposta in mezzo a tanti seguaci a volte minori, che non accolga file di visitatori bramosi di una foto di un quadro del “pittore maledetto” per eccellenza. L’ormai esorbitante bibliografia prende le mosse da una breve descrizione offerta da Karel Van Mander nel 1604, quando il pittore era ancora in vita, e prosegue, con dovizia di particolari inediti della sua giovane vita romana, ne “Le Vite” di Gaspare Celio nel 1614, sulla onda della sua tragica dipartita. Da qui si è sviluppata, nel corso dei secoli, una serie di scritti e interpretazioni che offrono un volto del pittore sempre diverso. Quasi un antesignano di “Uno, Nessuno e Centomila”. Una personificazione seicentesca del personaggio pirandelliano che muta il suo essere a seconda del punto di vista di chi lo osserva.

Lo stesso Celio offre un’immagine bohémien di un Caravaggio approdato a Roma in giovane età, senza soldi e senza dimora, che, per fortuita provvidenza divina o per astuta sopravvivenza, viene presentato da Prospero Orsi al Cardinale del Monte:

«… poi fattosi amico a Prosperino Orsi, delle Grottesche, si pose in casa di esso Prospero a fare alcuna cosa dal naturale, dove fece un putto che sonava un leuto. Dopo desiderando il Card.le del Monte un giovane, che li andasse copiando alcuna cosa, Prosperino, vi accomodò esso Michelangelo».

Il biografo prosegue:

«Che per menarlo al cardinale cercando tutto un giorno, alla fine lo trovò a dormire nel poggiolo attaccato a Pasquino, che non haveva panni a torno. Il cardinale lo fece vestire, gli diede stanze e parte, et esso fece alcune zengare che danno la ventura, e simili»[1].

Già dalle prime testimonianze, di poco posteriori alla sua morte, il Caravaggio viene dunque descritto come un personaggio allo sbando, capace di suscitare grande curiosità nei suoi mecenati e, al tempo stesso, invidia da parte dei suoi stessi contemporanei. E da allora le opere del Merisi vengono indagate, scandagliate, messe sotto raggi di ogni tipo, per carpire i segreti più nascosti della loro tecnica, ma soprattutto del loro intrinseco significato.

Sergio Rossi nella sua ultima opera, Caravaggio allo specchio tra salvezza e dannazione (Editori Paparo, Napoli 2022) offre una risposta esauriente a questi quesiti e partendo dagli esordi della sua breve vita artistica, ci illustra il contesto culturale e quotidiano della Città Eterna all’arrivo del giovane pittore.

Il primo mito da sfatare, secondo l’autore, inizia proprio dal cosiddetto Mons. “Insalata”, Pandolfo Pucci, presunto affamatore del nostro artista, secondo un “topos” letterario che costituirà le fondamenta di uno stereotipo che si trascinerà per tutto il percorso storiografico caravaggesco, e che era al contrario persona di indubbia cultura anche se di vedute molto probabilmente troppo rigide per essere accettate dal giovane Merisi. Quest’ultimo, dal canto suo, non era certo un santo:

«Comunque, una cosa va messa subito in chiaro: sicuramente Caravaggio era un violento, ma non un disadattato: il suo modo di fare apparteneva a un preciso cliché di un’epoca in cui maneggiare di continuo le armi era una prassi consueta».

E in un paragrafo molto interessante del libro l’autore si sofferma sulla serie di autoritratti che il Caravaggio dipinge in molteplici occasioni:

«D’altro canto, il Merisi era animato da una sorta di vera e propria ossessione autobiografica che egli ha estrinsecato sostanzialmente secondo tre tipologie: gli autoritratti veri e propri, nei quali il pittore si raffigura come era realmente, senza abbellimenti o forzature espressive; le immagini idealizzate, a volte auto raffigurazioni più che autoritratti veri e propri; e infine i dipinti in cui l’artista esaspera espressionisticamente i propri lineamenti, presentandosi addirittura come reprobo o carnefice in una sorta di auto espiazione catartica dei propri peccati».
Caravaggio, Ragazzo morso dal ramarro, Roma, coll. privata

Analizzando tali opere singolarmente, Rossi porta alla luce una serie di dipinti giovanili che vanno ad incrementare il bagaglio artistico del Merisi, tra cui il Ragazzo morso dal Ramarro di Collezione privata romana e il Mondafrutto appartenente ad una Collezione svizzera.

La prima tela, precedentemente citata da Maurizio Marini ma senza alcuna prova fotografica, attraverso una dettagliata analisi iconografica e delle fonti e un attento restauro dell’opera, si conferma non solo come di mano del pittore, ma “senza alcuna esitazione”, come il prototipo rispetto alle successive versioni, anche in base alla descrizione di Joachim von Sandrart del 1675, che descriveva un ragazzo che “sembrava piangere a calde lacrime”. Per quanto concerne il suo significato, l’autore ribadisce il concetto teologico dell’opera, già intuito da Maurizio Calvesi, rafforzandolo con dettagli iconografici e scostandosi nettamente dal filone erotico-pederasta che continua imperterrito a circondare ancora oggi la figura dell’artista.

La seconda tela di collezione privata svizzera viene analizzata ribadendo che il Caravaggio

«non era una sorta di Paganini ante litteram che non concedeva mai il bis e che dunque esiste sicuramente un numero non indifferente, per quanto non molto cospicuo, di sue opere giovanili (ma non solo) di cui esistono almeno due versioni autografe, a volte identiche a volte con qualche variante».
Caravaggio, Il Mondafrutto, Svizzera, coll. Privata

Il dipinto, attraverso un’attenta analisi stilistica, viene collocato tra i primi capolavori dell’artista, appena approcciatosi alla cultura romana di fine cinquecento; ne viene inoltre rimarcato il sapore ancora lombardo, e lo si individua come il prototipo di una lunga serie di varianti. Anche in questo caso il significato dell’opera si permea di un significato più profondo di quello dei cinque sensi o della personificazione di una stagione in particolare.

La peculiare qualità di questo libro di Rossi è quella di riportare Michelangelo Merisi ad una dimensione reale di una persona perfettamente inserita nel milieu culturale della sua epoca e non più di un personaggio leggendario, assassino, pederasta e completamente ateo e ignorante. Sorte condivisa anche da Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti o moltissimi geni dell’arte.

Di fondamentale importanza anche il capitolo interamente dedicato alla famiglia Mattei e al suo legame con l’artista, dove si offre un interessante spaccato del mecenatismo romano del primo Seicento. In particolare, si analizzano le figure di Girolamo e Ciriaco Mattei, personaggi di rilievo, legati a S. Filippo Neri e Federico Borromeo, che arrivano a pagare, per le opere del Caravaggio, somme notevoli. Lo studioso si sofferma su alcuni dipinti, tra cui spicca in particolare L’incredulità di S. Tommaso di collezione privata, che da un attento esame stilistico precede la versione di Postdam, riconfermando ancora una volta, supportato da altri studiosi, come il Merisi fosse solito “duplicare” un medesimo soggetto per strategia commerciale o per perfezionare l’opera, aggiungendo o modificandone alcuni dettagli.

Il secondo dipinto, su cui vale la pena porre attenzione, è La Cena in Emmaus ora alla National Gallery di Londra. Dando ormai per assodato, secondo un recente studio di Laura Testa, che tale opera possa essere stata commissionata proprio dalla famiglia Mattei, pagando la cospicua cifra di 150 scudi, e che sia successivamente passata nella collezione di Scipione Borghese, l’autore esamina il particolare della canestra di frutta, mettendola a confronto con quella altrettanto famosa dell’Ambrosiana. Il fatto che il pittore introduca frutti non appartenenti alla stessa stagione, dimostra che l’artista è dotato di una memoria visiva notevole e che ogni frutto non è inserito nella composizione a caso, ma rispondendo a messaggi precisi: «Al di là di questo, però, è quasi come se Caravaggio, nel dipinto Mattei, mettendo così in evidenza proprio il cesto di frutta, avesse voluto ribadire il significato “cristologico” della “Fiscella” dell’Ambrosiana; e sono convinto che tale significato fosse del tutto pacifico per il committente e gli osservatori dell’epoca, sicuramente assai più abituati a cogliere questo tipo di rimandi e dotte allusioni di quanto non lo siano tanti esegeti attuali».

 Inserendo in tale contesto anche il S. Giovanni Battista capitolino, che di recente Rodolfo Papa ha ricondotto a Isacco, Rossi, tralasciando la storiografica antica e moderna di una figura lasciva e, in alcune interpretazioni laiche, erotica al punto da indentificare tale figura col presunto amante del pittore, accosta il Caravaggio a Michelangelo Buonarroti:

«Per Michelangelo l’arte e la ricerca della bellezza sono un dono divino, un qualcosa cui egli è sì predestinato, ma che lo possono portare all’eterno bivio tra salvezza (“l’altezza” cui egli aspira) e perdizione (“l’infermità dei sensi”). E se è vero che “ascender senza grazia è pensier vano” è altrettanto vero che quest’ultima da sola non basta perché è solo attraverso il libero arbitrio e di conseguenza un comportamento scevro dal peccato che l’individuo può salvarsi. E dunque anche il S. Giovannino è l’opposto della “bardassa” su cui sfogare i nostri istinti più bassi: è piuttosto una messa alla prova che certo può portare le menti “deboli” alla perdizione ma che può (anzi deve) al contrario elevare le anime pure, come certamente erano convinti di essere i Mattei, alla conquista della Grazia divina».

Ritornando alla serie di autoritratti, Sergio Rossi, oltre a presentare ulteriori opere di fattezza notevole, individua un fil rouge autobiografico che lega le prime opere del Caravaggio alle ultime, quasi fosse un mezzo comunicativo personale paragonabile ai nostri social attuali. Prendendo in considerazione il David e Golia della Galleria Borghese tale opera assume tutto un altro significato, attraverso la preziosa interpretazione dell’autore:

«In effetti si tratta, come già più volte esposto, di un doppio autoritratto, anzi una doppia autoidentificazione, perché il sommo artista si raffigura non solo nella veste del reprobo per eccellenza, ossia Golia, ma anche in quella di David…Come in una sorta di flash back cinematografico, infatti, l’artista fa emergere dall’ombra la figura dolente del fanciullo che rievoca (anche nello stile volutamente retrodatato e consono alle sue opere giovanili) proprio sé stesso ancora non toccato dal peccato ma che quasi premunisce il proprio tragico destino, esemplificato al contrario dal viso sconvolto di Golia, ferito alla testa come lui era stato ferito nel tragico duello del 1606. E come nell’immagine di Golia, assolutamente in linea con quelle della produzione più tarda, Caravaggio quasi si compiace di evidenziare i segni del proprio precoce decadimento fisico, così nel volto di David i tratti sono come addolciti e a prima vista possono sfuggire i connotati autobiografici della figura».
Caravaggio, Decollazione del Battista, (part.) Malta, Oratorio di S.  Giovanni alla Valletta,

Il dipinto assume dunque quasi il valore di un grido disperato, nella struggente ricerca della Grazia divina e di quella papale, per sfuggire al Bando Capitale che lo perseguiterà fino alla morte; grido già evocato anche nella Decollazione del Battista dell’Oratorio di S.  Giovanni alla Valletta, opera drammatica a tal punto che il pittore firma per la prima volta una sua opera col sangue.

Nell’ultimo capitolo del libro, un vero e proprio epilogo, l’autore accosta Caravaggio a Vincent Van Gogh, la cui opera è caratterizzata, come quella del Merisi, da un rapporto totalizzante del colore: solo che con l’olandese si passa, dal troppo scuro delle prime opere, “quasi impastate con la pece”, ai bagliori esplosivi dell’ultimo periodo, inseguendo fino all’autodistruzione il sogno della luce assoluta, del giallo puro. Paradossalmente però, in una sorta di rovesciamento romantico, per Van Gogh le tenebre corrisposero alla vita e la luce alla morte

“ribaltando appunto il messaggio caravaggesco che identificava le tenebre con il male e la luce con la salvezza”.

Tornando in conclusione proprio all’essenza stessa dell’arte caravaggesca concluderei con le parole dell’autore, quando afferma:

«Rimane il fatto, sulla base di ciò che è stato esposto finora, che fin dai suoi esordi romani Caravaggio non era assolutamente quel giovane artista bohémien che andava raccattando qua e là ospitalità nelle prime botteghe disposte a concedergliela, ma piuttosto una persona profondamente colta ed in grado di elaborare in modo personale i suggerimenti e le indicazioni che sicuramente i suoi primi committenti di volta in volta gli fornivano, aggiungendo poi un dato che anche questi ultimi a mio avviso ignoravano, quello cioè strettamente autobiografico».

Beatrice RICCARDO  Roma  30 Novembre 2022

NOTA

[1] R. Gandolfi, 2021, pp.320-323.