di Francesca SARACENO
È uscito in tutte le sale il 3 novembre scorso, diretto e interpretato da Michele Placido, “L’ombra di Caravaggio”, ultima fatica cinematografica del regista pugliese che si è misurato, questa volta, con una figura storica e artistica di altissima levatura.
Inutile dire che intorno a questa pellicola enorme era l’attesa e la curiosità, da parte di appassionati e addetti ai lavori, non solo per la popolarità e il valore assoluto del genio lombardo protagonista della storia, ma anche per quanto si poteva già rilevare dalla trama e dai trailers ufficiali diffusi dalla produzione.
Ebbene, non mi lancerò in una vera e propria recensione del film, ma mi limiterò a ragionare sul senso di un’affermazione del Segretario Generale della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Antonello Grimaldi, rilevata dalla stampa:
“la cura del patrimonio è sacrosanta ma non meno rilevante è la sua valorizzazione anche economica, che, quando c’è, genera un circolo virtuoso, diventa volano per una maggior cura dello stesso patrimonio”.
Tale affermazione si è prodotta in seguito all’adesione dell’istituzione milanese all’attività di promozione del film che prevede la possibilità, per i visitatori di alcune strutture museali, nazionali e internazionali, ove si conservano opere del Caravaggio, di visionare scene tratte dal film, presenti anche alcuni attori del cast.
Operazione, devo dire, assolutamente efficace dal punto di vista promozionale, e che – di conseguenza – indirettamente, conferisce alla pellicola un valore “culturale”. Peraltro non l’unica operazione di questo tipo, dal momento che il cast ha svolto l’anteprima stampa del film in Galleria Borghese, proprio all’interno di quella “Sala del Sileno” dove si conservano ben sei capolavori del maestro lombardo.
Ma, mi chiedo: quanto può davvero essere utile questa particolare pellicola alla valorizzazione della figura del Caravaggio, delle sue opere, e/o della cultura artistica in generale? Non credo sia questione di poco conto, quando si tratta di un prodotto cinematografico che, di per sé, è già “opera d’arte” – e dunque prodotto culturale – soprattutto quando si intende investire la pellicola stessa di un valore sociale, volendo attraverso essa, avvicinare il grande pubblico al mondo dell’arte e – in questo caso – al Caravaggio in particolare. Qualcosa che mi ricorda molto da vicino certe operazioni di marketing museale che hanno visto come promoter alcune star del web, i cosiddetti “influencer”. Operazione poi sfuggita di mano, visto quanto accaduto recentemente in diversi musei italiani e internazionali, tra sfruttamento di capolavori a fini personali e denunce ambientaliste.
Fermo restando che qualunque attività potenzialmente funzionale alla diffusione e valorizzazione del patrimonio artistico italiano è assolutamente benvenuta, mi chiedo però se il metodo con cui spesso questo fine si persegue sia quello più adatto e, soprattutto, se e quanto ottenga l’effetto desiderato; ossia che le persone, anche non abitualmente frequentanti arte e cultura, comincino a interessarsene.
Perché, se è vero che la valorizzazione del patrimonio passa dalla conoscenza dello stesso, è vero pure che tale conoscenza:
- non si conquista dall’oggi al domani (meno che mai commentando sui social le performance museali dei suddetti influencer, né tanto meno assistendo a due ore di film al cinema)
- essa va veicolata, oserei dire “somministrata”, con la più rigorosa aderenza storica, anche quando si tratta di opere culturali che però, per loro stessa natura, nascono come prodotti di “intrattenimento” e hanno – è bene sottolinearlo – scopi essenzialmente commerciali.
Nonostante ciò, io credo che anche un film ben fatto, possa ottenere questo alto fine. Per tale motivo ritengo che un’adeguata indagine storico-bibliografica da parte degli autori e degli sceneggiatori, che vogliano dare una valenza “culturale” al proprio prodotto cinematografico, sia assolutamente fondamentale.
In questo senso, “L’ombra di Caravaggio”, almeno da quanto riportano gli organi di stampa, nonché i tanti commenti di chi ha già visto la pellicola, propone un focus che attenziona – per usare le parole dello stesso regista
“non tanto l’arte di Caravaggio, che molti conoscono, quanto il suo privato. È proprio il suo privato che noi siamo andati a scandagliare per capire chi erano quelle madonne e quei santi che lui ritraeva, nient’altro che prostitute e persone che vivevano ai margini della società, alla deriva.”
Quindi l’indagine degli sceneggiatori è stata condotta, più che sul pittore, su “quelle madonne e quei santi che lui ritraeva”. Beh, in tutta onestà, se c’è qualcosa che, negli ultimi 30 anni, è stata sviscerata, vivisezionata e in certi casi anche “falsificata”, è stata proprio la vicenda personale del Caravaggio, e più ancora dei personaggi che intorno a lui avevano orbitato. Mentre meno, molto meno, si è data attenzione mediatica alle sue magnifiche opere di cui, peraltro, l’Italia è piena, eppure – a dispetto di quanto Placido e il suo team ritengano – non “molti” conoscono. E questo per uno scopo ben preciso.
Fin dalla seconda metà del Novecento, quando grazie a Roberto Longhi la figura di Michelangelo Merisi da Caravaggio venne rivalutata e si impose all’attenzione dell’Italia e del mondo, in un momento storico – tra l’altro – in cui, tra lotte di classe e battaglie per i diritti sociali, si era individuato in questo artista, una sorta di “profeta” dei movimenti progressisti, si è andato consolidando sempre di più, nel tempo, un identikit del “personaggio” più che dell’artista, dalle caratteristiche decisamente sopra le righe: un ribelle, eretico, trasgressivo ante litteram che in poco tempo è divenuto il “pittore maledetto” per antonomasia, che tanto piace – ancora oggi – al nostro tempo. E quello – purtroppo – è rimasto, nell’immaginario comune, poiché in questi termini ha continuato a essere raccontato e divulgato, ovunque, per anni. Dunque non sorprende che lo stesso Placido e i suoi autori abbiano radicato nel tempo questa immagine dell’artista che da sempre viene raccontata.
E questo, nonostante nel tempo la ricerca storica e documentale abbia fatto enormi passi avanti e abbia portato alla luce non pochi elementi utili a tracciare, del Caravaggio, un profilo – anche umano – sicuramente più realistico, che ridimensiona grandemente quell’aura di trasgressione fin troppo stereotipata, restituendone un’immagine più oggettiva e soprattutto osservata in relazione al contesto storico e all’ambiente professionale e sociale in cui l’artista visse e operò. Ma, ahimè, questo genere di pubblicazioni scientifiche non hanno mai avuto, purtroppo, la stessa diffusione ed eco mediatica del “mito trasgressivo” di cui sopra; il che, però, non credo esoneri un cineasta che voglia dare un taglio “culturale” al proprio film, da una seria ricerca tra gli studi e le scoperte più recenti e attendibili in riferimento al soggetto che vuole trattare.
E dunque, un film che, per stessa ammissione del regista, si propone di capire chi erano “quei santi e quelle Madonne”, più che comprendere l’artista che li ritraeva, si fonda essenzialmente proprio su quegli stereotipi che la storiografia caravaggesca più affidabile e documentata ha, da tempo, ampiamente superato; e per questo non può – credo – accreditarsi velleità di tipo “culturale” perché, in sostanza, non veicola al pubblico informazioni certificate ma contenuti, per lo più, di pura fantasia, nonché ipotesi non sufficientemente supportate da riscontri oggettivi.
Dalle “accuse” di scarsa attendibilità storico-artistica, che del suo film inevitabilmente hanno iniziato a circolare, Michele Placido così si difende:
“Noi facciamo cinema, non siamo critici d’arte: chiunque ormai conosce la luce e il buio di Caravaggio, le tecniche e le opere. Abbiamo fatto un lavoro importante, almeno per noi, il cui significato più intrinseco nasce dal fatto che i personaggi che sono nei quadri che abbiamo scelto sono vite vere e vissute, non inventate. L’Ombra sì, è inventata, ma ci serviva cinematograficamente parlando per fare cinema, che io considero un’arte pop. I geni sono davvero pochi nel cinema, da Orson Welles a Fellini, noi altri siamo dei bravi professionisti e mestieranti, nel senso più nobile di mestiere. Noi vogliamo informare e intrattenere il popolo che va al cinema, che è a tutti gli effetti arte popolare.”
Si, senza dubbio “voi” fate cinema e non siete sicuramente critici d’arte; né vi è richiesto esserlo. Peraltro non sono affatto sicura che “tutti” conoscano “la luce e il buio di Caravaggio”. Molti ne avranno sentito parlare, qualcuno ne avrà letto, ma temo che i più non abbiano proprio idea di come tale contrasto stilistico si sia generato né come l’artista lo abbia poi elaborato nelle sue opere conferendogli la sostanza del vero e proprio “linguaggio”. E non sarebbe stato male da parte vostra – credo – fornire agli spettatori qualche “informazione” in merito.
Ma quando vi arrogate certe “licenze artistiche”, dacché il cinema è “a tutti gli effetti arte popolare”, non potete, però, presentare la vostra opera su una figura storica adeguatamente documentata quale è Caravaggio, come prodotto “culturale”, solo perché “i personaggi che sono nei quadri […] sono vite vere e vissute, non inventate”:
- perché ciò che raccontate non è esattamente realistico, dal momento che, nonostante le leggende fiorite (per non dire proliferate) intorno ai modelli ritratti dal Caravaggio, da anni oggetto di curiosità – direi a volte morbosa – tanto da diventare materia di studio e ricerca ad ampio raggio, i risultati di tali studi e ricerche (parlo di quelli seri e attendibili, condotti da studiosi di specchiata onestà e competenza) non hanno – a oggi – portato a conclusioni che possano accostare, con ampio margine di certezza, alcun “nome” ad alcun dipinto. Anzi, in qualche caso, è stato necessario smontare opportunamente, documenti alla mano, affermazioni palesemente false divulgate da certa letteratura tendenziosa che si è nutrita – provando addirittura a legittimarsene – con gli stessi stereotipi e luoghi comuni a cui hanno fatto affidamento gli sceneggiatori del film di Placido.
-
perché, come già accennato, l’informazione non dovrebbe basarsi su invenzioni cinematografiche o ipotesi non accertate, ma su fatti concreti. In tal senso, oltre ad ammettere l’invenzione del personaggio “Ombra”, avreste dovuto quanto meno far presente che i rapporti tra quelle “vite vere e vissute”, con la vita altrettanto vera e altrettanto vissuta dell’artista che state raccontando, sono tutti da verificare. Soprattutto se il vostro intento dichiarato è di “informare” oltre che “intrattenere il popolo che va al cinema”.
Il “popolo” (!) che vi proponete di informare – oltre che certamente, e direi primariamente – intrattenere, ha diritto – credo – a una informazione quanto più attendibile, anche se veicolata da un’opera di fantasia come può essere un film per il cinema. D’altra parte è ineludibile il fatto che, a chiunque si chieda, anche tra i meno “informati”, praticamente tutti conoscono Lena Antognetti, Fillide Melandroni, Anna Bianchini, Mario Minniti e Cecco del Caravaggio, e relative “professioni” e/o presunti orientamenti sessuali.
E purtroppo, spesso, è tutto ciò che conoscono; ma a quanto pare basta e avanza in un contesto narrativo generale in cui non è l’artista o il suo genio creativo a interessare il pubblico, quanto il personaggio “maledetto”, costruito ad hoc e da sempre tramandato, che deve rispondere a certe precise caratteristiche.
Peraltro, che l’artista potesse davvero rivolgersi a prostitute e popolani, come modelli per i suoi dipinti, non avrebbe di per sé nulla di scandaloso o trasgressivo, dal momento che non era certo il solo a farlo. Né, credo, si possano investire di attendibilità assoluta le notizie riferite da fonti biografiche, circa presunti rapporti “intimi” eventualmente intercorsi tra il Caravaggio e alcuni suoi colleghi/amici/collaboratori maschi, per il solo fatto che avessero trascorso – più o meno verosimilmente – qualche periodo nella stessa casa/bottega.
In ogni caso, non vedo perché una sceneggiatura che debba “intrattenere” non possa fondarsi su notizie corrette, senza per questo risultare meno appetibile per il pubblico, snodandosi su un canovaccio storico-documentale che pure esiste ed è sicuramente consultabile.
Stando a quanto riferisce Michele Placido, in una intervista rilasciata a “Effetto Notte” qualche settimana fa, tra le varie fonti letterarie utilizzate dai suoi sceneggiatori (Sandro Petraglia e Fidel Signorile), ci sarebbe il volume di Yannik Haenel “Solitudine Caravaggio” (Neri Pozza, 2021) rispetto al quale lo scrittore francese, per sua stessa ammissione, riferì:
“La mia idea è che Caravaggio passasse molto più tempo a dipingere che a battersi o bere nelle taverne e quando leggo le biografie che gli sono dedicate mi esaspera il modo in cui si metta sempre in primo piano il lato bad boy del pittore. Era certo un personaggio esuberante, pieno d’eccessi, un individuo che non si risparmiava ed era afflitto da una negatività permanente. Ma per me rimane prima di tutto qualcuno di estremamente concentrato nel proprio lavoro: è l’opera di Caravaggio che mi interessa, non il pittoresco del suo racconto.”
Affermazioni che mi trovano quasi totalmente d’accordo. Ma, escludendo la presunta “negatività permanente”, mi chiedo cosa abbiano attinto gli autori di Placido da questo libro (o da altri) dal momento che del “pittore” Caravaggio, in questo film, c’è solo – per l’appunto – l’ombra. Eppure di testi validi ce ne sarebbero stati da cui trarre notizie, sia per inquadrare il pittore che il personaggio, e il contesto entro il quale si muoveva; da pietre miliari come Spezzaferro, Calvesi e Marini, fino a Giacomo Berra, (e mi scuso con tutti gli altri autorevoli studiosi che non cito), nonché i saggi e gli studi condotti negli ultimi anni, pubblicati su riviste scientifiche e nei cataloghi delle grandi mostre dedicate al genio lombardo (uno su tutti “Caravaggio a Roma. una vita dal vero” De Luca editori, 2011).
Dando un’occhiata a queste pubblicazioni, i componenti del team di Placido sarebbero rimasti molto sorpresi di scoprire un uomo/artista parecchio distante dall’idea che di lui avevano e per la quale, ho la sensazione, siano andati in cerca di conferme più che di possibili alternative “realistiche”.
L’idea che passa in questi giorni è che, siccome si tratta di un film per il cinema, esso sia esentato dal dovere della correttezza; diversamente non sarebbe stato un film ma un “documentario”.
Ebbene, a parte la classificazione da “aut aut” che qualifica il film come qualcosa di “piacevole” e il documentario, invece, come qualcosa di “noioso”, mi sembra quanto meno semplicistico liquidare la questione in tal modo, giustificando così le scelte discutibili – ma certamente comode ed efficaci – di produttori e sceneggiatori nella costruzione della trama di questa pellicola.
Nessuno avrebbe voluto o si sarebbe aspettato un documentario sulla vita di Caravaggio, ci mancherebbe pure … ma magari neanche ritrovarsi l’invenzione di “un’ombra” nera a indagare sulle vicende personali dell’artista per conto di un papa, Paolo V, che – invece – Caravaggio lo conosceva a sufficienza (così come il suo cardinal nepote, Scipione Borghese) fin da quando aveva eseguito il suo ritratto già pochi mesi dopo la sua elezione al soglio pontificio. Oppure assistere a una supposta conversazione in carcere, quanto meno “azzardata” – dacché la conoscenza tra i due personaggi non è mai stata supportata da elementi concreti – tra il pittore e Giordano Bruno; il quale, peraltro, fu rinchiuso per gran parte del tempo della sua detenzione, nelle carceri del Sant’Uffizio, e solo negli ultimi giorni precedenti la sua esecuzione (17 febbraio 1600) fu tradotto a Tor di Nona, dove – che io sappia – Caravaggio in quel momento non risulta “soggiornare”.
Ecco, non credo che queste “licenze” siano dettagli di poca importanza all’interno di un’opera cinematografica che ambisca ad un ruolo culturale e sociale. Si rischia di fissare nel pubblico come “verità”, ipotesi e circostanze che non hanno alcun riscontro nella realtà storica, e – perdonatemi – ma non credo che la gran parte del “popolo” che Placido avrebbe la velleità di “informare” abbia conoscenze sufficienti per discernere opportunamente tra realtà storica e legittima fantasia cinematografica. Anzi, credo che un film come questo conti proprio sulla scarsa conoscenza da parte del grande pubblico. Ma il rischio è che chi esce dalla sala abbia la percezione di aver assistito alla proiezione della “vita di Caravaggio” vedendo, peraltro, confermato quanto già conosceva. Non so quanti saranno assaliti dal dubbio che ciò che hanno visto o vedranno corrisponda al vero, o dalla voglia di saperne di più, magari organizzando visite museali o correndo in biblioteca o in libreria a cercare notizie a conferma o confutazione.
Se poi il tutto è condito sapientemente da turpiloquio romanesco, saporitissime quanto improbabili ipotesi di intrallazzi amorosi, e succulente scene di pruriginosa, promiscua libidine, spaziando tra perversioni etero e omo erotiche a più livelli (buttando nella mischia perfino la Marchesa Costanza Colonna), beh … “l’operazione cultura”, per questo film, diventa oggettivamente un proposito che non stenterei a definire “presuntuoso” oltre che “pretestuoso”. Non tanto e non solo per la fin troppo – mi dicono – esplicita sequenza di amplessi (che qualcuno si è addirittura spinto a definire “orge”), quanto per l’inattendibilità di personaggi e circostanze in cui tali atti “peccaminosi” si sarebbero prodotti.
Ma, devo dare atto a produttori e sceneggiatori, impegnati giustamente nel confezionamento di un prodotto cinematografico commercialmente valido, che questo genere di cose manda il pubblico in visibilio; che si tratti del pittore con la prostituta, o del calciatore con la velina, o del politico con la escort di turno. Un po’ di “pepe” bisogna metterlo se no la platea si addormenta guardando un genio come Michelangelo Merisi da Caravaggio che – magari, pensa un po’ – dipinge.
Il problema è che quello che noi – nel nostro tempo – percepiamo come trasgressione, al tempo di Caravaggio era, invece, quasi normalità. Dunque, alla luce di ciò, verrebbe ragionevolmente a decadere l’effetto “sovversivo” che a tutti i costi si vuole ottenere dalla vicenda umana di questo artista; certamente non uno stinco di santo (ci sono pile di verbali di polizia a certificarlo), ma neanche quel concentrato di tormento e perversione che si vuole per forza raccontare. D’altra parte, se c’è un pregio che va riconosciuto a questo film, è che ha saputo mostrare le difficoltà di un artista che visse e operò in un tempo difficile, controverso, violento e pieno di ipocrisie. Già in alcuni trailer si possono vedere eccessi, ricostruzioni di feste e vita di strada che non stento a riconoscere, quantomeno, come verosimili.
Sarebbe bastata una consulenza di alto profilo e forse un po’ di lungimiranza – diciamo pure di coraggio – per raccontare (anche) il pittore invece che (solo) l’uomo, e farlo, soprattutto, mantenendosi nel solco di ciò che i documenti riferiscono.
A tal proposito, mi sembra giusto e opportuno rilevare che, se non altro (sebbene forse involontariamente), almeno uno dei luoghi comuni più consolidati sul maestro lombardo, sembra essere screditato in questo film, e cioè la leggenda che egli non praticasse il disegno; da una scena di un trailer Caravaggio viene colto al tavolo di una taverna mentre “schizza” qualcosa su un foglio provando a ritrarre alcuni personaggi al tavolo di fronte. Una delle poche scene, forse, in cui è davvero se stesso, ovvero un artista.
Per il resto, quello che gli spettatori di questa pellicola hanno visto, sostanzialmente è: una Lena Antognetti che più “convenzionale” non si può, accreditata – ancora una volta senza dubbio – come modella per alcuni dipinti, con tanto di Paoletto in braccio e presuntuose ambizioni da “madre di Dio” (per le quali, infatti, si becca uno schiaffone dall’Ombra), la “collega” Anna Bianchini, anch’essa – come da “tradizione” – a posare nei panni della Maddalena penitente del dipinto Doria Pamphilj, l’idea chiassosa di una verosimile “movida” notturna romana – anzi, romanesca – del Seicento in cui tutto può succedere, la tensione che sale e un testimone torvo che commenta – a favore di telecamera – che “Caravaggio è un pittore meraviglioso, [ma] è la sua vita che è sporca” (qui immagino schiere di ormoni fare la ola, dalla platea alla galleria … spettacolo!), qualche strusciamento di troppo a confermare la testimonianza e la “sporcizia” del pittore.
E poi l’artista “maledettissimo” che si vede intimare solennemente “dall’uomo nero”, nientemeno che… “la rinuncia alla vostra arte” (e qui, invece, mi sovviene una parolaccia irripetibile che infatti, opportunamente, ometto…), per finire con la scelta di raccontare la morte del pittore sulla scorta di un’ipotesi complottista dibattuta ma non accolta dalla critica, e che a oggi non ha trovato alcun riscontro oggettivo utile a scardinare o confutare quanto accettato – sebbene con le dovute cautele – sulla base dei documenti conosciuti. Scelta che mi conferma – al più – l’intenzione degli autori di infondere alla pellicola mistero su mistero, perché, si sa, l’abbondanza non ha mai fatto carestia.
In ogni caso, al di là delle licenze e delle forzature sulla trama, direi che la “valorizzazione anche economica, (del patrimonio culturale) che, quando c’è, genera un circolo virtuoso”, auspicata dal segretario della biblioteca Ambrosiana, in questo film passa essenzialmente – è doveroso rimarcarlo – da tutto quanto concerne l’aspetto tecnico e strutturale.
A partire dalle magnifiche location in cui sono state girate molte scene, come il meraviglioso Palazzo Chigi di Ariccia, “Dimora e museo del barocco”, le cui sale e giardini sono stati spesso utilizzati in ambito cinematografico, e anche in questo caso hanno fatto da sfondo sontuoso e decisamente congruo, alle vicende narrate; o le ambientazioni napoletane tra Castel dell’Ovo, Santa Maria la Nova e via Morelli, le ricostruzioni storiche di strade e piazze romane.
Per non parlare dello studio condotto sui costumi d’epoca, davvero bellissimi (strepitosa la riproduzione del tessuto dell’abito con cui venne ritratta la Maddalena Penitente!).
E così anche luci, scenografia e fotografia, i magnifici “tableaux vivant” con cui si sono ricostruite le scene di alcuni dipinti del Caravaggio.
Alla luce di tutto ciò, a cosa mi troverei di fronte oltrepassata la finestrella del botteghino? Credo un film “barocco”, tecnicamente sontuoso, pensato, scritto e prodotto per il cinema, e per un pubblico particolarmente recettivo a certe tematiche pur non masticando tanto di arte e di Caravaggio in particolare, la cui genialità pittorica, all’interno della sceneggiatura, resta sostanzialmente sconosciuta, sia agli autori che agli utenti. Romanzato parecchio, com’è ovvio che sia (sebbene temo la cosa sia un po’ sfuggita di mano), e ribadisco che nessuno avrebbe voluto un documentario; mi sembra chiaro che il film non si rivolga a chi conosce la “materia”, e non ha – mi pare, ma potrei sbagliarmi – la pretesa di sbrogliare matasse che nemmeno i documenti più attendibili e anni di studio sono riusciti, a tutt’oggi, a dipanare.
Mi sembra un’opera cinematografica nata per “piacere al pubblico” ed è quello che, probabilmente fa: piace. Perché si muove entro i sicuri confini della “comfort-zone” del già detto, ridetto e risaputo, per quanto inattendibile e che poco ha a che vedere con l’artista.
Ma Caravaggio è stato molto, molto di più del banalissimo personaggio da cappa e spada con cui ci si ostina a raccontarlo. Sarebbe ora che qualcuno lo capisse.
Francesca SARACENO, Catania, 4 dicembre 2022
FONTI CONSULTATE:
https://www.youtube.com/watch?v=-cK68UeOOCY
https://www.youtube.com/watch?v=HPsaA3PLdNc
https://antinomie.it/index.php/2021/11/15/caravaggio-il-grido-del-testimone/