di Sergio ROSSI
Con questo numero speciale di About Art -che conclude un esaltante 2022- ci è sembrato importante in accordo con l’autore mettere a disposizione dei lettori gli appunti che il Prof. Sergio Rossi, da tempo nostro collaboratore, ha raccolto nel corso dei suoi numerosi viaggi intonro al mondo (sono finora 83 i paesi che ha visitato e dopo la pausa dovuta al Covid punta a raggiungere almeno il numero di 90); in una rubrica mensile verranno presentati i resoconti dei soggiorni appena compiuti e i ricordi di viaggi più o meno lontani nel tempo che per qualche motivo tornano ora di attualità: e questo naturalmente sempre nel segno della storia dell’arte.
Il suo primo viaggio si articolerà in due parti: La Svizzera sulle tracce di Paul Klee e non solo, che esce in questo numero e: Milano esoterica e leonardiana che verrà pubblicato subito dopo la pausa dovuta alle festività natalizie.
Viaggio I
Il mio viaggio sulle tracce di Paul Klee (Münchenbuchsee presso Berna, 18 dicembre 1879-Muralto, Canton Ticino, 29 giugno 1940) non era iniziato nel migliore dei modi. Infatti il treno (formato da due convogli gemelli) che da Milano doveva portarci a Berna, pur formandosi alla Stazione Centrale, si era palesato con svariati minuti di ritardo e una volta saliti, sistemti i bagagli ed occupati i posti prenotati, l’altoparlante ci ha avvertito che causa problemi tecnici (leggi un guasto irreparabile) il nostro treno non sarebbe partito e ci saremmo dovuti precipitare nel convoglio fermo davanti a noi, con i disagi che si possono immaginare e con un ritardo finale di oltre 35 minuti. E non mi soffermerò, per amore di patria, sulla scortesia e arroganza dell’addetta italiana al controllo dei biglietti, specie se paragonata alla gentilezza e professionalità del collega svizzero.
Per fortuna, una volta arrivati a Berna, in 5 minuti di autobus, abbiamo raggiunto il nostro hotel immerso nel verde, l’Innere Enge, dove avevamo prenotato una suite ampia, comoda, dall’elegante gusto un po’ retro dove abbiamo goduto di un confortevole soggiorno. La mattina seguente, in poco più di dieci minuti di tram, abbiamo raggiunto il Zentrum Paul Klee, [1] progettato da Renzo Piano ed inaugurato nel 2005, che si trova in una zona periferica della città immersa nel verde; e vista l’impressionante puntualità dei mezzi di trasporto svizzeri, sono convinto che sono gli abitanti a regolare i loro orologi sull’orario di arrivo di bus, autobus e treni e non viceversa. Tanto che sulla strada di ritorno verso l’Italia, a Lucerna, il treno che si annunciava con tredici minuti di ritardo, facendomi dubitare delle mie convinzioni, naturalmente era un convoglio di Trenitalia.
Veniamo finalmente al motivo del mio viaggio. Paul Klee, insieme a Botticelli, è stato un amore della mia adolescenza (quattordici/quindici anni) quando già, per quanto possa sembrare poco verosimile, leggevo con attenzione la Teoria della forma e della figurazione e vincevo un premio scolastico di pittura con un acquerello che recava al centro una citazione dei celebri “angeli che fanno pipì”, come li aveva icasticamente definiti un mio compagno di classe. Ed è ancora su Klee che avevo inizialmente chiesto la mia tesi di laurea a Giulio Carlo Argan, con cui mi sono poi effettivamente laureato ma su tutt’altro argomento (le teorie artistiche del tardo Cinquecento). E’ anche per questo che pur avendo continuato a nutrire per il pittore come una sorta di affetto verso uno zio saggio e bonario, non ho mai avuto, non dico il coraggio, ma nemmeno la lontana idea di scrivere qualcosa su di lui, finché non ho avuto l’occasione di recensire per la Rivista T.C.L.A. la bella mostra Alle origini dell’arte. Paul Klee (Milano, MUDEC 30-10-2018/03-03-2019) [2] decidendomi, (sarà anche per via della mia età ormai avanzata), a scrivere qualcosa su di lui ed ora a ripetermi con questi appunti di viaggio dedicati in gran parte all’artista bernese.
Ma, potrebbe obbiettare qualcuno, è quanto meno curioso aver coltivato così a lungo un’immagine tranquillizzante e serena di quello che Argan ha definito «un candido e imperterrito testimone del nulla che gioca con la morte come l’artista di Schiller giocava con la vita» o direi io, come il cavaliere del Settimo Sigillo di Bergman gioca a scacchi con la Dama Nera. Ma curioso non è, per il semplice motivo che Klee ha della morte, appunto, una visione per nulla tragica, anzi come rassicurante e del resto i suoi “totensengel” [3] non sono molto diversi dai suoi “angeli della vita”, quasi sorridenti come il falciatore che Van Gogh si immaginava dalle sbarre della sua cella e descriveva in una celebre lettera al fratello Theo. Del resto per Klee non può esservi conoscenza della vita senza la cognizione della morte, così come non si può conoscere l’ordine, cioè il cosmo, senza il disordine, cioè il caos.
Ecco, forse è proprio questa immagine cosmica, magica e poetica della vita e del suo contrario che avvicina il pittore alla filosofia alchemica, se conferiamo a questo termine il suo giusto significato, perché molti simboli ermetici, come il labirinto, l’ouroboros, cioè il serpente che si morde la coda, l’unione primordiale di maschile e femminile, ossia l’ermafrodito, la tenda o baldacchino dove avviene la coniunctio degli opposti, sono presenti nei suoi dipinti, sparsi qua e là quasi a mo’ di rebus o di indizio. Ed è lo stesso Klee che osserva, in una delle sue prime lezioni al Bauhaus:
«Il caos è una condizione di disordine nelle cose, un arruffio: cosmogonicamente, uno stato primitivo, mitico del mondo, dal quale poi prende forma, a mano a mano oppure repentinamente, di per sé o grazie all’intervento di un creatore, il cosmo ordinato»
ed il Pérnety, nel suo Dizionario mito-alchemico scrive
«Caos vuol dire confusione, mescolanza; secondo gli Antichi esso era la materia dell’Universo, prima di ricevere una forma determinata».
Praticamente la stessa identica cosa. Anche la forma, del resto, è l’opposto del caos, oltre che il fine ultimo cui deve tendere la ricerca degli artisti, e forma vuol dire “qualità”. O, in altri termini, rendere visibile l’invisibile, il che rende la poetica di Klee straordinariamente vicina a quella di Leonardo da Vinci [Si veda al proposito il mio Dalle botteghe alle accademie, Feltrinelli Milano 1980].
Come nota ancora Argan:
«Tra tutti gli artisti del nostro secolo Klee è quello che più consapevolmente si discosta dalle grandi linee dei programmi e degli assunti teorici dell’arte moderna allo stesso modo che, di tutti gli artisti del Rinascimento, Leonardo è quello che più consapevolmente si discosta dalle grandi linee dello storicismo e dell’intellettualismo classico. Dunque tanto Leonardo che Klee, nella loro riflessione, non hanno di mira l’oggetto dell’arte, ma piuttosto il modo del suo prodursi; non la forma come valore invariabile, ma la formazione come processo».
Anche per il da Vinci, come osserva Giuseppe Di Napoli [Leonardo. Lo sguardo infinito, Einaudi Torino 2019]:
«il disegno non si limitava a riprodurre unicamente quanto l’occhio ha già visto in precedenza, ma doveva far vedere ciò che non appariva visibile o che non si riusciva a vedere. In breve, così come per il pittore toscano la pittura non era una pratica manuale, ma essenzialmente mentale, allo stesso modo anche il disegno non era una mera tecnica grafica, bensì un’attività conoscitiva ed esplorativa quanto quella operata dallo sguardo: le funzioni che svolgeva il vedere erano sostanzialmente le stesse che svolgeva anche il disegnare in perfetta e intercambiabile sintonia».
E sono praticamente le stesse funzioni che il disegno ha per Klee; del resto, secondo uno dei suoi celebri aforismi, la linea non è che un punto che è andato a fare una passeggiata.
A petto di Kandinskij, la cui pittura, apparentemente istintiva e quasi demiurgica, scopriamo poi essere un continuo manifesto programmatico dello “spirituale nell’arte” che precede e non segue la sua realizzazione pratica, Klee, per così dire, prima dipinge e poi medita a posteriori su quello che ha prodotto, o forse addirittura dipinge mentre medita e medita mentre dipinge; ed è per questo che la sua arte si dipana come un filo d’Arianna in continua evoluzione verso la conquista di quel quid che in realtà non può essere mai ottenuto perché se l’opus perfectum dovesse mai realizzarsi verrebbe meno la stessa ragion d’essere del fare artistico che, per il nostro pittore come per Michelangelo o Gustav Mahler, è continua e inesauribile ricerca della forma perfetta, e proprio per questo irraggiungibile.
Tanto che per Klee potrebbe dirsi quanto ebbe a scrivere Arnold Shönberg proprio in morte di Mahler:
«A lui fu concesso di rivelarci quanto ci ha detto, e solo quello, del nostro futuro; quando volle dirci di più, fu portato via; poiché non deve ancora esserci pace e silenzio, ma lotta e frastuono».
Ed opportunamente Luigi Rognoni nota che
«Mahler non conclude mai una sinfonia, ma la tronca, giacché il discorso musicale potrebbe continuare all’infinito, alla ricerca di una soluzione che all’atto stesso che si pone, già si annulla nei suoi limiti».
A proposito del grande musicista boemo non posso poi esimermi dal ricordare di avere assistito proprio questo sabato 17 dicembre ad una memorabile esecuzione della sua Settima Sinfonia da parte di Antonio Pappano all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a Roma, esecuzione che sono sicuro rimarrà negli annali delle migliori interpretazioni mahleriane.
Tornando a Klee, si potrebbe dire che ogni suo singolo acquerello, olio, disegno può essere interpretato come la pagina di un racconto senza fine che segue la pagina precedente e precede quella successiva. Esemplare in questo senso è il dipinto tardo Le streghe della foresta, conservato ed attualmente esposto presso la Fondazione Beyeler di Basilea [4], che mostra solo un dettaglio di uno schema che potrebbe essere mentalmente esteso ben oltre i bordi del quadro: appunto una sorta di geroglifico infinito che ad un certo punto tocca a noi di troncare.
Pennellate brevi e fluide, dalle tonalità smorzate si alternano ed intersecano con linee scure che marcano nettamente la superficie e fanno emergere frammenti di volti e corpi umani, anzi di “Streghe della foresta” come vengono poeticamente chiamate da Klee queste parvenze fantasmatiche di esseri viventi, anche se solo nella fantasia del pittore. Segno, linea, colore, scrittura si sommano e quasi annullano in quest’opera emblematica e musicale che può ben essere considerata come una sorta di poetico viaggio nell’intima creatività del nostro artista. Viaggio che si può seguire nella sua evoluzione, dalle origini [5] agli ultimi anni, proprio nel Zentrum bernese, anche se il criterio di esporre a rotazione solo una piccola parte dell’immenso numero di opere autografe che il Museo possiede lo trovo alfine un po’ riduttivo;
ma si tratta pur sempre di uno splendido centro espositivo, perfettamente inserito nella natura circostante, che segue con il suo elemento ellittico della facciata proprio alcune tipiche composizioni kleiane.
A Berna sono tornato dopo moltissimi anni e l’ho trovata molto mutata, con un’area urbana raddoppiata rispetto al nucleo originario e con un’atmosfera che unisce l’antico fascino di una cittadina di montagna, con la sua Torre dell’orologio (i cui automi per noi non si sono voluti muovere), le multicolori fontane della Spitalgasse, i chilometri di porticati, ad un’atmosfera da moderna metropoli, con una stazione centrale degna di una grande città, un viavai continuo di gente indaffarata ed una rete di tram e autobus capillare e perfettamente funzionante; ma il suo fiore all’occhiello, oltre al Zentrum Paul Klee, è il suo splendido Kunstmuseum, che vanta una serie di capolavori da Courbet a Lucio Fontana veramente di altissimo livello, con un occhio di riguardo agli artisti e artiste svizzere, da Hodler, a Marta Stettler all’immancabile Giacometti fino allo stesso Klee; e soprattutto, per quello che mi riguarda, a Gustave Caillebotte, un pittore da me particolarmente amato e che ritengo sottovalutato, di cui vi sono alcuni autentici capolavori, come questo struggente dipinto [7] ispirato all’Olimpia di Manet.
Il Museo presenta inoltre, per la prima volta un’eccezionale esposizione del cosiddetto “Legato Gurlitt” su cui tornerò a breve, come sulla mia sosta a Basilea nel terzo giorno del mio itinerario.
Riprendendo ora il racconto del mio viaggio, nello spostarci da Berna a Lugano abbiamo compiuto una sosta d’obbligo a Lucerna, città che fra l’altro già conoscevo, proprio per rivisitare l’imperdibile Sammlung Rosengart, un vero e proprio tempio dell’arte contemporanea con tra l’altro ben 25 capolavori di Klee, addirittura più fruibili rispetto a quelli del Zentrum bernese, perché più concentrati, ottimamente allestiti e che comunque, associati a questi ultimi, permettono un’autentica full immersion nell’arte e nella vita del grande Maestro che consiglio vivamente a tutti gli amanti dell’arte contemporanea.
Da Lucerna ci siamo poi spostati a Lugano, piccolo gioiello incastonato tra il Ceresio e le montagne circostanti ed il cui Lungolago, da Paradiso a Castagnola, offre non solo splendidi scorci paesaggistici, ma anche elegantissimi negozi di tutte le principali Grandi Firme che si snodano anche nelle strette vie del centro ed una vera sfilata di ottimi bar e ristoranti, come la pizzeria e spaghetteria Spaghetti Store, verace angolo di Napoli nel Canton Ticino, il raffinato Olimpia, con squisita cacciagione, o la imperdibile cioccolateria Vanini.
Ed il nostro viaggio si è concluso a Lugano non solo per il contingente motivo che nato nei pressi di Berna Klee è poi morto proprio nel Canton Ticino, ma soprattutto perché, a cinquant’anni esatti dalla retrospettiva allestita nelle sale di Villa Ciani, Klee è tornato a Lugano, nella bella sede del LAC, sicuramente il più importante centro espositivo e culturale del Canton Ticino, con la raffinata mostra allestita al Masi e comprendente oltre 70 opere grafiche provenienti dalla collezione privata di Sylvie e Jorge Helft.
Nell’occasione, il 12 novembre nell’ambito della rassegna “Arte e musica in dialogo” si è svolta un’interessante conferenza dei proff. Giuseppe Di Napoli e Roberto Favaro; il primo ha evidenziato alcuni aspetti della celebre Teoria della forma e della figurazione soprattutto per quel che riguarda l’elemento propulsivo che il segno e la linea hanno all’interno della poetica kleiana; il secondo ha parlato del particolare rapporto che il nostro artista, eccellente violinista, ha sempre intrattenuto con la musica e le due conferenze sono state intervallate da tre interventi di due bravissime studentesse del Conservatorio della Svizzera italiana, la violinista Jingzhi Zhang e la pianista Allegra Ciancio, che hanno eseguito brani di Mozart, Bach, e Brahms.
Come accennavo in precedenza, i coniugi Helft, appassionati bibliofili e raffinati intenditori, hanno collezionato di Klee solo acquerelli e disegni (a matita, penna, pastello, gessetto), litografie, acqueforti, incisioni, tutti aventi nel segno e nella linea il loro elemento propulsivo. Ed è lo stesso artista che osserva:
«L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile. L’essenza della grafica induce spesso e giustamente all’astrazione. Nella grafica si liberano i fantasmi e le fiabe dell’immaginazione, e nello stesso tempo si rivelano con grande precisione».
Ecco proprio questa frase di Klee può essere considerata il più sintetico ed efficace commento alla mostra luganese.
Ma poi il pittore continua con slancio poetico descrivendo una sorta di viaggio spirituale che sintetizza in mezza pagina, meglio di qualsiasi altro commento, l’essenza stessa della sua arte:
«Superato il punto fermo, si ha la prima azione motoria (la linea). Dopo un po’, alt per riprendere fiato (linea spezzata ovvero, se ci fermiamo più volte, linea articolata). Occhiata all’indietro, per vedere quanta strada abbiamo fatto (contro movimento). Si riflette sulla via da prendere (fascio di linee). Un fiume vorrebbe ostacolarci il cammino, e noi ci serviamo d’una barca (movimento ondulatorio); più a monte avremmo trovato un ponte (arcate). Al di là del fiume troviamo uno che come noi vuol raggiungere il luogo d’una migliore conoscenza».
Mi appare superfluo sottolineare la straordinaria modernità di questo brano, del 1920, che anticipa di un secolo i risultati di una simultaneità e polifonia di visione che oggi è possibile grazie alle più avveniristiche tecniche cinematografiche e di computer grafica. Con la differenza che quello che oggi otteniamo grazie ad espedienti puramente meccanici Klee lo raggiungeva grazie alla sua visione poetica, lirica e filosofica del mondo e della sua traduzione in immagini, che costituisce il lascito insostituibile che egli ha saputo tramandare alle generazioni future e che ne fanno uno dei più importanti intellettuali (non solo artisti) del XX secolo.
II
Basilea e la Fondazione Beyeler
Anche a Basilea, come a Lucerna, sono ritornato dopo qualche anno e con lo scopo preciso di rivisitare la Fondazione Beyeler nel venticinquennale della sua apertura. Ed anche Basilea, questa volta come Berna, unisce quel fascino tipicamente svizzero di una moderna ed elegante metropoli e di una cittadina di paese, con le sue multicolori giostre che riempivano la centralissima Münster Platz e le famiglie che vi si affollavano la domenica mattina, tra mercatini e chiostri di dolciumi ed hot dogs. Noi, invece, abbiamo preferito mangiare degli ottimi fish and chips al vicino ristorante del Museo della Cultura, serviti in fretta e furia perché alle 14 in punto il locale doveva chiudere.
Ernst Beyeler, gallerista tra i più importanti del suo tempo e sua moglie Hildy hanno raccolto nel corso degli anni all’incirca 400 opere che spaziano dal XIX al XXI secolo e proprio venticinque anni fa hanno deciso di dare vita a questo splendido museo, anch’esso, come il Zentrum Paul Klee, progettato e costruito da Renzo Piano, immerso nel verde e facilmente raggiungibile dal centro; ma che a differenza dell’edificio bernese presenta una facciata squadrata e che ricorda in qualche modo certa architettura giapponesizzante, dialogando comunque a perfezione con la natura circostante.
In questa imperdibile esposizione dedicata al Giubileo della Fondazione e che rimarrà aperta fino all’otto gennaio, sono presenti molti dei pezzi più significativi dell’intera collezione e cioè circa 100 opere di oltre 30 artisti, dai grandi maestri del XIX e XX secolo come Vincent van Gogh, Claude Monet, Paul Cézanne, Henri Rousseau, Pierre Bonnard, Paul Klee, Pablo Picasso, Henri Matisse, Alberto Giacometti, Mark Rothko, alle opere più recenti di Andy Warhol, Francis Bacon e Louise Bourgeois fino ad alcuni insigni artisti viventi come Marlene Dumas, Anselm Kiefer, Tacita Dean. Inoltre l’esposizione viene arricchita da diverse sculture iperrealistiche dello statunitense Duane Hanson, che costituiscono una vera e propria «mostra nella mostra» instaurando un colloquio sorprendente e inatteso con i visitatori.
L’esposizione, curata da Raphaël Bouvier, si estende su un totale di 20 sale, alcune delle quali riservate a importanti nuclei di lavori di uno stesso artista, come nel caso di Paul Klee, Joan Miró, Mark Rothko o Marlene Dumas. E devo subito complimentarmi con questa scelta di Bouvier, che riesce a sintetizzare in un percorso insieme didatticamente esaustivo e visivamente entusiasmante l’intera evoluzione dell’arte figurativa degli ultimi 150 anni.
Prendiamo proprio il caso della Dumas: quest’estate, dalla grande (forse troppo) retrospettiva personale dedicatagli a Venezia dal Palazzo Grassi, ero uscito piuttosto perplesso non sapendo sciogliere l’enigma di trovarmi di fronte ad una grande artista o a una pittrice capace di ottime prove ma anche di cadute di gusto ai limiti del “vietato ai minori”. Ebbene i quattro dipinti scelti con cura per questa mostra e perfettamente inseriti nel circuito espositivo mi fanno nuovamente propendere per la prima delle due ipotesi.
Andando indietro nel tempo, suggestiva è la sequenza di una bellissima Bagnante di schiena di Edgar Degas vicina al Nu dans le baignore del 1917 di Pierre Bonnard nella quale il grande artista ritrae la moglie Marthe in una scena di intima e ravvicinata suggestione (11). Sempre restando nel tema dei ritratti, ecco Madame Cézanne à la choise jaune, con la moglie e fedelissima musa (ha posato per lui ben ventinove volte) Hortense Fiquet ripresa dal pittore intorno al 1888 [12].
In effetti qui Cézanne, più che all’introspezione psicologica e fisiognomica della persona raffigurata è interessato al sottile equilibrio cromatico delle tonalità apparentemente acide ma volutamente smorzate dei grigio-azzurri, dei viola, degli avana, dei rosa carne, ed anche ad una nuova definizione spaziale realizzata direttamente attraverso le ampie campiture cromatiche che si intersecano e sovrappongono sulla tela.
Non potendo analizzare nel dettaglio ogni singolo artista, procederò ora per una campionatura dettata senz’altro dai miei gusti personali e non dalla minore o maggiore qualità delle opere esposte, che è sempre altissima. Comincerò dalla sala interamente dedicata a Le bassin de nymphéas di Calude Monet, che si sviluppano orizzontalmente lungo tutta una parete con un effetto di grande suggestione poetica.
Di Klee e delle sue Streghe nella foresta ho già parlato ampiamente in precedenza per cui mi occuperò in breve del suo amico e collega al Bauhaus Vassili Kandisky, con uno dei dipinti che gli stessi Beyeler ritenevano tra i più importanti della loro collezione, L’improvvisazione 10 del 1910 [13].
E’ questa una tela che segna la transizione dal paesaggio figurativo all’astrazione nell’opera del pittore russo. Come si osserva nel breve Catalogo allegato alla mostra
«a prima vista questa sembra essere una composizione cromatica del tutto astratta: a un esame più attento, tuttavia, possiamo distinguere un albero con rami ampi a destra e un arcobaleno colorato in alto a sinistra che si estende su un edificio dalla cupola rossa. Lo scopo del dipinto non era più quello di offrire una rappresentazione naturalistica del mondo esterno, ma piuttosto di dare espressione all’esperienza interiore».
E in una lettera a Shönberg di questo periodo Kandinsky sostiene che nella pittura contemporanea vi sia una profonda spinta verso una visione costruttiva che egli intende superare attraverso la scoperta di una nuova armonia da non ricercarsi nelle composizioni geometriche ma al contrario in una visione anti geometrica ed antilogica, in altre parole trascendente. Del testo, le sue forme serpentinate e spiraliformi che fluttuano liberamente nello spazio, anche quando mantengono qualche barlume di figura umana, rispondono proprio a questa esigenza spirituale, direi armonica anche nel senso musicale del termine, di cui il Nostro artista è continuamente alla ricerca, così come lo stesso Klee, sia pure attraverso procedimenti e iter stilistici completamente diversi.
Altro binomio dialettico di fondamentale importanza per la pittura del Novecento è quello tra Picasso e Matisse, anch’esso ben documentato nella nostra mostra. In particolare di Pablo Picasso la Fondazione Beyeler possiede più di trenta opere che spaziano dal 1907 alla fine degli anni ’60. Del primo periodo abbiamo questa splendida Femme che rientra proprio negli studi preparatori a Les demoiselles d’Avignon, ora conservato al MOMA di New York e che è considerato una sorta di manifesto programmatico del nascente cubismo. Il dipinto presenta una figura femminile nuda, con le braccia alzate ed un copricapo che ricorda un berretto da marinaio, resa con pennellate violente come sciabolate e con il viso che rievoca le maschere africane che l’artista comincia a collezionare in questo periodo; ed anche se siamo di fronte ad un bozzetto, l’opera ha anche le caratteristiche di un dipinto compiutamente realizzato e che vive una sua vita del tutto autonoma.
A quasi mezzo secolo di distanza, nel 1962, abbiamo questo Ratto delle Sabine, che sviluppa e non contraddice assolutamente il suo percorso originario [14]. Al centro della composizione vediamo un cavallo imbizzarrito che ci guarda con le narici allargate e con i denti scoperti ed è cavalcato da un guerriero che brandendo uno scudo e una spada minaccia di schiacciare una donna nuda che cade a terra. Il dipinto fa riferimento a un antico mito romano e la sua composizione riecheggia quelle di Nicolas Poussin e Jacques-Louis David. Con il suo andamento sincopato e la sua tavolozza di neri, bianchi e grigi, Picasso rievoca anche il suo capolavoro assoluto del 1937, ossia Guernica. Certo i tempi sono mutati ed ora il pericolo più imminente viene dalla crisi dei missili cubani proprio del 1962, ma non muta l’impegno dell’artista spagnolo a denunciare ogni situazione che possa provocare guerra e sofferenze, ed in questo caso egli lo fa trasformando una famosa scena mitologica in un simbolo senza tempo di abusi ed oppressione.
Nella vicina sala interamente dedicata all’ultimo Matisse, abbiamo invece una pura esplosione di forme e colori e di quella “joie de vivre” che l’artista, anche se ormai vecchio e malato non ha mai cessato di perseguire, rinnovandosi anzi di continuo, come solo i grandi geni sanno fare. E se ai suoi esordi egli si è cimentato contemporaneamente nella pittura, nella scultura e nel disegno, sul finire della carriera ha saputo riunire queste tecniche nelle sue “gouaches découpées” in cui disegnava direttamente con le forbici e che alla mostra sono presentate in quattro splendidi esempi: Algue blanche sur fond rouge et vert (1947); Nu bleu, la grenouille (1952); Nu bleu I (1952) e Acanthes (1953).
Attraverso una tecnica solo apparentemente semplice ma in realtà assai complessa, Matisse gioca con le figure come fossero nitide e sinuose sagome colorate, variazioni giocose su di un unico tema, quello del rapporto tra le forme e lo spazio circostante, che ha il suo risultato più eccitante in Nu bleu I, dove la grande silhouette blu della protagonista femminile si intreccia in modo indissolubile con lo sfondo chiaro che la racchiude e al contempo ne esalta la vitalità prorompente [20].
E veniamo ora per concludere con quella che ho definito la “mostra nella mostra”, e cioè le diverse statue iperrealistiche dello scultore statunitense Duane Hanson (1925-1996), sparse nelle sale come fossero semplici visitatori o inservienti al lavoro, e talmente “verosimili” da ingannare ad una prima occhiata anche il più smaliziato degli osservatori [figg.21-25]; anzi, come avrebbe detto il buon vecchio Aristotele, talmente verosimili da risultare alla fine più vere delle persone in carne in ossa che intendevano riprodurre. Hanson, in effetti, può essere considerato il fondatore dell’iperrealismo in seno alla pop art americana e dalla fine degli anni ‘60 ha creato figure umane a grandezza naturale che colpiscono per la loro verosimiglianza realistica. Usando materiali allora innovativi, come la resina poliestere e il cloruro di polivinile, ha riprodotto il corpo umano fin nei suoi minimi particolari, rivestendolo poi con abiti e accessori veri.
Come viene osservato nella brochure di presentazione della mostra
«Per ideare i suoi personaggi Hanson attingeva a temi di stringente attualità della società americana e occidentale, di cui criticava in modo esplicito e implicito le situazioni di disagio. Rivolgeva attenzione in particolare alle persone socialmente svantaggiate, emarginate e oppresse, ma anche a quelle della classe media, che mostrava in situazioni quotidiane. Ripetutamente Hanson ha abbattuto i confini tra arte e realtà suscitando nel pubblico stati d’animo che vanno dallo shock e sdegno al profondo turbamento fino alla benevola simpatia. Se alcune sculture sono estremamente drastiche e rappresentano una chiara presa di posizione contro i mali che ancora oggi affliggono la società, altre figure sono intese come omaggio a tutte le persone che si possono incontrare durante la visita dell’esposizione, siano esse visitatori o collaboratori che assicurano il funzionamento del museo dietro le quinte. Ad esempio, in una sala vi è una coppia di anziani seduti esausti su una panchina a contemplare i dipinti di Rothko; in un’altra sala un’anziana signora si è sistemata proprio accanto al famoso ritratto della moglie di Cézanne, ricalcandone la posa; e ancora, un addetto alle pulizie è colto nell’atto di lavare le finestre della facciata del museo e una madre in piedi con una carrozzina si è unita al gruppo delle famose figure di Giacometti».
E devo complimentarmi ancora con i curatori dell’evento, perché le statue di Hanson sono state perfettamente inserite all’interno del percorso espositivo, quasi a dialogare con le opere in mostra e con i visitatori in “carne e ossa” e costituiscono un di più che da solo, come diceva una celebre guida, “vale il prezzo del biglietto”.
III
Il Kunst Museum di Berna ed il “Legato Gurlitt”
Il Kustmuseum di Berna ha dedicato un intero piano ad un vero e proprio progetto espositivo di grande impatto visivo e grande valenza culturale: il “Legato Gurlitt”, strettamente intrecciato con la politica di persecuzione nei confronti della cosiddetta “arte degenerata” perpetrata dal Regime Nazista a partire dal 1937 e la cui eco si è riverberata fin nella neutrale Svizzera. Ne furono vittime gli artisti considerati politicamente “sovversivi” o esteticamente troppo innovativi o di origine ebraica; furono colpiti impressionismo, postimpressionismo, espressionismo, cubismo, surrealismo, dadaismo, astrattismo, Bauhaus. Fra i tantissimi artisti citiamo: Adler, Bauer, Beckmann, Chagall, O. Dix, Ernst, Grosz, Heckel, Itten, Jawlwensky, Kandinsky, Kirckner, Klee, Klimt, Kokoschka, Liebermann, El Lissitzky, Marc, Moholy-Nagy, Mondrian, O. Mueller, Nolde, Pechstein, Schlemmer, Schimdt-Rotluff, Van Gogh, molti dei quali presentati qui a Berna perché particolarmente apprezzati proprio da Hildebrand Gurlitt, il controverso protagonista della nostra storia, e da lui acquisiti in modo spesso avventuroso: si tratta di opere (prevalentemente ma non solo) su carta e di dimensioni medio piccole, perché evidentemente più facili da collezionare illegalmente e che sono qui esposte a rotazione, insieme anche a capolavori di artisti come Delacroix, Daumier (con lo splendido Don Chisciotte e Sancho Panza), Courbet, Monet, Renoir, Toulouse Lautrec, Cézanne, Gauguin, Munch, Rodin.
Questa mostra è il risultato di otto anni di ricerche, a partire dal novembre del 2014, quando il Kustmuseum ha accettato il legato di Cornelius Gurlitt (1932-2014), assumendosi la piena responsabilità di queste opere d’arte dalla storia tumultuosa, la cui esistenza era stata divulgata già nel 2013. Le opere provengono dall’eredità del padre di Cornelius, lo storico e mercante d’arte Hildebrand Gurlitt (1895-1596), già noto per aver fatto commercio di opere d’arte per conto del regime nazista tra 1933 ed il 1945. Il sospetto che si trattasse di opere sequestrate illegalmente dal regime nazista ha dato luogo a molteplici anni di ricerca da parte di équipes d’esperti tedeschi e svizzeri che hanno appurato che oltre 1000 opere del legato Gurlitt erano state acquistate da Hildebrand dopo il 1933. Nel dicembre del 2021 il Museo di Berna ha definitivamente accolto presso le sue collezioni più di 1600 opere del Legato: una quindicina sono state restituite in più riprese alla Repubblica federale tedesca e due agli eredi di due famiglie private secondo i Princípi di Washington del 1988 che concernono proprio la restituzione ai legittimi proprietari delle opere d’arte rubate dai nazisti durante la loro permanenza al potere.
Nel frattempo Cornelius Gurlitt, dopo la scoperta delle opere d’arte in suo possesso, aveva donato il suo consenso alla verifica della provenienza della sua collezione ed è stato il primo cittadino privato ad accettare i Princípi della Conferenza di Washington; muore nel maggio del 2014 e, come appena ricordato, designa come erede universale proprio il Kunstmuseum di Berna; nel 2016 anche la corte d’Appello di Monaco di Baviera, cui si erano rivolti alcuni eredi del defunto per contestare la sua donazione, dichiara le legittimità del testamento di Cornelius Gurlitt e di conseguenza il Kunstmusum bernese diviene a tutti gli effetti proprietario dell’immenso legato, strettamente connesso con la controversa figura del padre di Cornelius, Hildebrand Gurlitt.
Questi, nel 1933 era già un noto ed appezzato storico dell’arte e antiquario che occupava un’importante posizione all’interno del mercato d’arte tedesco, ma la sua vertiginosa e ulteriore ascesa non può essere separata dalla politica persecutoria perpetrata dal regime nazionalsocialista nei confronti degli ebrei e di tutti i suoi oppositori. La collaborazione col Ministero dell’Educazione del Popolo e della propaganda del Terzo Reich è stata determinante per il successo di Gurlitt permettendogli di estendere i suoi affari fino a tutta la durata della Seconda Guerra Mondiale. In effetti i suoi interessi si estendevano al di là dell’arte contemporanea ed arrivavano a toccare anche capolavori della pittura del Seicento, Settecento e Ottocento francese e fiamminga provenienti dai Paesi allora occupati dalla Germania, come Olanda, Belgio e Francia.
Noi sappiamo che Hildebrand ha acquisito le sue opere in diversi modi ed insieme ad acquisti legali egli si è anche impossessato illegalmente di molte opere, provenienti da sequestri perpetrati dal regime nazista o comprati da persone perseguitate dal Regime. Tali transazioni sono oggi considerate come dei possessi legati a persecuzioni e rientrano nelle condizioni definite come delitto di spoliazione d’opere d’arte perpetrate dal regime nazionalsocialista. Fino ad ora, comunque, solo poche opere del legato Gurlitt hanno potuto essere identificate come sicuramente appartenenti a questo criterio e restituite ai legittimi proprietari, mentre per la maggior parte di esse il contesto della loro acquisizione rimane ancora incerto.
Come detto, la posizione preminente di Gurlitt all’interno del mercato antiquariale si consolida a partire dal 1933 e, come mostrano i suoi inventari, splendide opere d’arte di ogni epoca e genere passano dal suo Gabinetto d’Arte di Amburgo, approfittando anche del blocco del commercio delle opere d’arte non ariane imposto dal regime nazista. La vendita di opere legate alle persecuzioni offre delle possibilità commerciali assai interessanti; tra i suoi clienti oltre ad amatori, collezionisti e musei vi sono anche dirigenti del partito Nazionalsocialista, anche di primissimo piano, come Goebbels e Göring; a questo si deve aggiungere, dopo il 1938, il commercio legato alla cosiddetta “Arte degenerata”.
Grazie all’intercessione del Ministero della Propaganda del Terzo Reich, Gurlitt, a partire dal 1941, estenderà la sua attività ai territori occupati dell’Europa Occidentale, in primis Parigi, principale centro del commercio dell’arte in Francia, concludendo molti lucrosi affari con istituzioni pubbliche e dirigenti nazionalsocialisti. Inoltre, nel 1943 egli diviene il principale acquirente sul mercato d’arte francese per il Führermuseum di Linz, mai realizzato, per un valore complessivo di svariati milioni di reichsmarks; si trattava di un ambizioso progetto ideato da Hitler in persona per la città di Linz, a lui particolarmente cara come luogo della sua gioventù e che sarebbe dovuta diventare Führerstadt.
Indubbiamente Gurlitt ha saputo e potuto approfittare, in modo molto spregiudicato, della legislazione nazista che aveva privato dei loro diritti gli artisti, i mercanti d’arte e i collezionisti ebrei dando luogo a colossali speculazioni. Si sa infatti che Gullit ha comprato numerose opere d’arte presso collezionisti che in seguito alle norme persecutorie del regime e dei suoi prelievi forzosi si sono visti costretti a vendere i loro beni a prezzi molto al di sotto del loro effettivo valore di mercato: finora si ha notizia certa di almeno due opere di questo tipo restituite ai legittimi proprietari.
Prima di fuggire dalla Germania Elsa Cohen (1874-1947) aveva venduto 23 disegni del pittore Adolph von Menzel al nostro Antiquario, di cui solo uno è stato finora restituito ai suoi eredi nel 2017. Nel 1940 Hildebrand G. ha acquistato da Henri Hernichsen il disegno “Sonata per pianoforte” di Carl Spitzweg, sequestrato dall’ufficio delle imposte di Lipsia nel 1938 e restituito ai legittimi proprietari nel 2021.
Secondo i “Washington Principles” (1998), solo le opere d’arte sequestrate dal regime nazista sono considerate arte depredata. Il passaggio di proprietà deve essere avvenuto tra il 1933 e il 1945 ed avere avuto “effetto confiscatorio”. Secondo tale prassi, è considerata spoliazione anche l’espropriazione per furto, vendita forzata, vendita per il finanziamento della fuga o delle proprie necessità esistenziali, ad esempio in caso di interdizione dal lavoro. Il Kunstmuseum Bern non si limita all’applicazione di questi Principi alla sola Svizzera ma li ha anche estesi alla Repubblica Federale Tedesca.
Prendiamo un caso emblematico come quello di Max Liebermann (1847 –1935), considerato un pioniere dell’arte moderna in Germania e che godeva già, durante la sua vita, di una reputazione internazionale come maestro dell’impressionismo tedesco. Fino a quando i nazionalsocialisti non presero il potere nel 1933, Max Liebermann era una delle figure più importanti nella politica culturale tedesca, tanto da presiedere, dal 1920 al 1933, l’Accademia delle arti prussiana.
Nel maggio 1933 Liebermann, che era di fede ebraica, si ritirò volontariamente dall’Istituzione da cui sarebbe stato sicuramente espulso di lì a poco e si ritirò a vita privata fino alla morte avvenuta a Berlino l’11 febbraio 1935. Già nel 1933, i dipinti dell’artista furono ritirati dalle mostre nei musei tedeschi e messi in vendita, cosa di cui Gurlitt approfittò immediatamente. Infatti il suo “Lascito” comprende ben 77 pastelli e disegni di Liebermann. Tra questi, il dipinto Cavaliers à la plage (1901) è stato identificato come un’opera d’arte trafugata e restituita, nel 2016, agli eredi del suo originario proprietario. Gli ex proprietari degli altri dipinti non sono stati finora identificati. Va poi detto che negli anni ’50 Max Liebermann fu completamente riabilitato.
Tornando ad Hildebrand, in seguito al bombardamento d’Amburgo, egli trasferisce la sua attività a Dresda nel 1942, cominciando nel frattempo a mettere al sicuro il suo patrimonio e dividendolo in diverse località. A Dresda Gurlitt e la sua famiglia sono testimoni dei terribili bombardamenti aerei che radono al suolo la città tra il 13 ed il 15 febbraio del 1945. La famiglia ne esce indenne ma la città non è più abitabile, da qui la decisione di fuggire verso l’Ovest della Germania. Catturati ad Aschbach dall’esercito degli Stati Uniti, Gurlitt e la moglie riuscirono addirittura a convincere le autorità americane di essere stati perseguitati dal Regime Nazista per le loro origini ebraiche e che tutte le opere trovate in loro possesso erano state acquistate legalmente.
L’antiquario riprese presto indisturbato la sua attività spostandosi a Düsseldorf, dove divenne direttore dell’Associazione artistica della Renania Vestfalia fino alla morte avvenuta in seguito ad un incidente stradale nel 1961. La collezione passò quindi alla moglie Helene, e successivamente, quando ella morì nel 1964, venne ereditata dal figlio Cornelius e, in misura minore, dalla sorella di quest’ultimo Benita. Sebbene inizialmente fossero diversi coloro che erano a conoscenza della collezione, nell’arco di circa quattro decenni, nessuno seppe più dell’esistenza della fortuna dei Gurlitt fino agli anni da cui prende inizio la storia da me narrata nell’incipit di questo articolo.
Venendo infine a dare qualche cenno all’immenso patrimonio esposto in mostra, citiamo in breve, nell’ordine delle sale in cui sono esposti, questi tumultuosi e ondeggianti cavalli in un verdeggiante paesaggio di Franz Marc, un altro sinuoso paesaggio con un mulino in lontananza di Emil Nolde, un ritratto femminile molto brechtiano di Otto Mueller, questo per quel che riguarda l’arte cosiddetta degenerata di stampo espressionista; mentre per quel che concerne le opere sequestrate da Gurlitt direttamente in Francia abbiamo un delicato paesaggio innevato di Gustave Courbet [16], un tipico cavaliere arabo di Georges Delacroix ed un bellissimo paesaggio già postimpressionista e geometrizzante di Paul Cézanne .
Oltre che per il suo valore estetico di altissimo livello, questa esposizione si fa apprezzare soprattutto per il suo altissimo valore culturale e socio politico, perché, grazie anche all’ottima esposizione delle opere e di tutti gli apparati esplicativi, visitandola si ha come l’impressione di rivivere personalmente uno dei periodi più bui della nostra storia, che comunque l’arte riesce alla fine ad illuminare e riscattare con la sua imperitura bellezza.
Sergio ROSSI Roma 22 Dicembre 2022