di Mario URSINO
“Per me scrivere è dare un senso alla vita, è un modo di fermare, di imprigionare storia, destini che altrimenti andrebbero perduti” (Marisa Volpi, 1998)
“Sempre sorridente, spesso vestita con tailleur e camicette chiare che non nascondono la bella figura alta con gambe solide di donna abituata a camminare. Marisa Volpi Orlandini guarda tutti con cortesia e interesse. Luccicano gli occhiali, gli occhi dietro le lenti brillano di intelligenza, la voce è affabile e chiara, appena un po’ distante” [Figg. 1-2].
Le parole che ho sopra riportato sono di Giulia Massari nella recensione apparsa su “Il Giornale” del 30 maggio 1993, in occasione della pubblicazione de La Casa di Via Tolmino, le prime memorie-racconto di Marisa date alle stampe.
Marisa era proprio così quando la vidi per la prima volta, nel 1982-1983, mentre frequentavo le sue lezioni sull’arte americana presso la Scuola di perfezionamento in Storia dell’arte nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma
Erano passati dunque dieci anni, da quando avevo frequentato quel suo corso all’Università, che mi schiuse con grande chiarezza le origini e lo sviluppo dell’arte americana sino alla pop-art, illustrando artisti che sentivo nominare per la prima volta, come Thomas Benton, Grant Wood, Barnett Newmann, Robert Motherwell, William Baziotes, Clyfford Still … [figg. 3-4-5-6-7]; soprattutto di quest’ultimo ebbi particolare curiosità, tanto da pensare di elaborare una tesina su questo artista dell’espressionismo astratto, ancora oggi pressoché sconosciuto in Italia.
L’altra mia curiosità era quel libro di memorie più sopra citato, che confesso di aver letto solo recentemente, mentre il secondo, Le ore e i giorni, dato alle stampe molti anni dopo, nel 2011, lo lessi immediatamente: quest’ultimo, un vero e proprio diario, anno per anno di Marisa, dal 1978 al 2007 che, a mio avviso, prosegue ed amplia le memorie già ne La Casa di Via Tolmino , ovvero da quando “Alla fine degli anni Quaranta – come Ella ha scritto in apertura del suo testo – abitavo a Roma l’attico di un villino nel quartiere Nomentano”.
Si dà il caso che anch’io abiti a poca distanza da via Tolmino, e ogni volta che mi capita di passare in questa larga e luminosa strada che congiunge in linea retta via di Santa Costanza con Viale Gorizia, non posso non pensare a Marisa, domandandomi spesso ove fosse la sua abitazione, non immaginando (ma ora lo so) che quel villino non esiste più, ed era sito all’angolo con Viale Gorizia, quasi di fronte all’ attuale Hotel Fenix. Quel villino, dunque, mi è apparso solo recentemente appunto attraverso la descrizione delle prime memorie di Marisa del 1993.
Il secondo, Le ore e i giorni , come già detto, del 2011, tratta di ricordi sistemati cronologicamente, anno per anno, ma in realtà è piuttosto la registrazione casuale di un flusso interiore (intermittente, pulsante, non un continuum alla maniera di Joyce) del suo io più profondo, con una verità, e oserei dire con un coraggio senza limite, nel descrivere fatti, emozioni, viaggi, trascrizioni di citazioni, tantissime riflessioni fulminanti: Monaco, 25 settembre 1980, per esempio, “Visti i Marées: tra follia e genialità. Ci sono già lì il Picasso del 1910, De Chirico, Sironi”, e poi sogni e drammi personalissimi, tali da indurre talvolta il lettore (come è anche stato per me) ad avvertire un certo disagio e una forte sorpresa nell’ascoltare l’intima voce di una personalità pubblica, come l’illustre docente universitaria e nota studiosa di storia dell’arte, dalla quale tanto avevo appreso nelle aule della Sapienza oltre trenta anni fa, nella sua veste di scrittrice di sé.
Diceva, nel 1954, quel personaggio delle nostre italiche lettere, editore geniale della casa editrice da lui fondata, Leo Longanesi (1905-1957): “Non si ha mai il coraggio di dire tutta la verità in un diario, anche se segreto. Non tanto per il timore che qualcuno ci legga, quanto per la fatica di vincere in nostro pudore e di scoprire le nostre magagne. Non ci si confessa per iscritto”. Ebbene, penso che Longanesi si sbagliava nell’essere così perentorio, perché Marisa ha avuto il coraggio e la elegante naturalezza di farlo, a mio avviso, un po’ sulle orme di Stendhal, lo Stendhal de La vie di Henri Brulard o dei Souvenirs d’égotisme (quest’ultimo puntualmente citato nel suo diario). Marisa ne Le ore e i giorni riflette, scandaglia il suo io, annota citazioni dalle sue immense e ininterrotte letture e, come ha scritto uno dei suoi più cari amici, lo scrittore Raffaele La Capria nella recensione al libro (“Corriere della Sera”, 11 febbraio 2011): “in Marisa vi è un vero e proprio «accanimento», nel portare analisi e concetti alle estreme conseguenze, che provoca in me ora soprassalti di ammirazione, ora un certo disagio”. E come ho già detto più sopra, si tratta della stessa sensazione, e dello stesso “disagio” che ho avvertito anch’io, dopo la lettura de Le ore e i giorni.
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Ma Marisa Volpi, ovviamente, non ci ha consegnato solo le sue singolari e affascinanti memorie, frutto appunto di quella exacerbatio cerebri che lei stessa aveva attribuito a Kierkergard :”Soffriva di una exacerbatio cerebri, per cui la realtà non riusciva a servirgli di incitamento se non sporadicamente a tratti.”(3 giugno 1982),”sporadicamente a tratti”, come le “intermittenze” che segnalavo più sopra, e che mi pare siano la caratteristica dei diari di Marisa
Ma questo suo lavoro di scrittrice si snoda parallelamente (ma diversamente) da quello di storica e critica d’arte: da Nonamore del 1988, a Congedo del 1994 a Fuoco inglese del 2001 a Uomini del 2004; e, tra scrittura e storia dell’arte: Il maestro della betulla (premio Viareggio 1998) , e Fatali stelle del 1988 , dedicato ai grandi impressionisti come Manet, Degas, Monet…, per citare le opere più note nella sua sterminata bibliografia, di cui si dà conto nel volume, L’occhio senza tempo. Saggi di critica e storia dell’arte contemporanea, apparso nel 2008, a cura della sua migliore allieva, Antonella Sbrilli (succeduta a lei nella cattedra di Storia dell’arte contemporanea), con la collaborazione di Stella Bottai e Michela Santoro.
A questo punto mi sia consentito di tornare al mio primo incontro con Marisa Volpi, docente, in quel lontano 1983, allorquando, concluso il corso sull’arte americana e sulle sue autonome origini, che mi aveva tanto interessato durante le sue lezioni, decisi di presentarmi all’esame, secondo le sue originali indicazioni, se ricordo bene, che furono pressappoco queste: “leggete un saggio a vostra scelta, commentandolo come una recensione”.
Nel frattempo avevo già letto con grande interesse L’informale: origini, protagonisti, conseguenze, edito da “Il Bagatto”, proprio in quell’anno accademico, 1982-83, pubblicato per noi studenti del suo interessantissimo corso, e un suo lontano testo del 1967, Arte dopo il 1945, U.S.A., edito da Cappelli (non più ripubblicato a quanto mi risulta), con sintetiche e dense biografie da Carl Andre con le sue “strutture primarie”, alla Pop Art di Warhol e Tom Wesselmann, frutto del suo lungo soggiorno negli Stati Uniti nel 1966; dal mirabile testo (e quindi dalle sue lezioni) avevo appreso che oltre alle innegabili influenze dell’arte contemporanea europea su quella americana, vi era tuttavia in molti di loro “l’ambizione ad un’autonomia di linguaggio” che appunto definiscono meglio le opere di quegli artisti più sopra citati, come Newmann e Still, ma naturalmente anche al più famoso Pollock, connotati, come ha scritto Marisa “anche della violenza assertiva verso lo spazio circostante che tutta l’arte americana possiede”. E di Still, in particolare, ella ha scritto queste sorprendenti parole: “Esaltate dalle dimensioni enormi dei suoi quadri le colate di colore in Clifford Still ci danno indubbiamente l’dea sensibile del sublime, e soltanto su questa egli si lascia sfuggire un assenso. Il “sublime “ di Still ci richiama congiuntamente alla memoria il sublime del romanticismo tedesco e la vastità degli spazi del West”. Quegli spazi sconfinati che vedevo scorrere nelle diapositive illustrate da Marisa durante le lezioni che partivano da artisti a me sconosciuti, come Thomas Hart Benton o Grant Wood, o Stewart Curry, i tipici pittori “regionalisti” che raffiguravano la vasta America rurale e quindi definivano la tipica “scena americana”, un modo di dipingere abbastanza classico che si svolgeva parallelamente alla ricerca delle opere di avanguardisti come Duchamp, Matisse, Picasso, Picabia, esposte per la prima volta a New York, in un confronto tra artisti americani e contemporanei europei nella storica mostra all’Armory show del 1913, proseguita poi a Chicago e a Boston, con più di mille opere fra pittura e scultura, dagli impressionisti ai fauvisti, agli espressionisti, ai futuristi, ai cubisti.
Devo dire però che la mia passione per l’arte moderna e contemporanea l’avevo scoperta, ovviamente senza nozioni, proprio nel lontano 1967, quando ero ancora studente in giurisprudenza, ed ero stato per lungo tempo, in estate, a New York, visitando il Guggenheim, il Metropolitan, il MoMA, (dove vidi Guernica, 1937, quando il famoso dipinto di Picasso ancora non era tornato in Spagna: l’opera infatti tornerà a Madrid nel 1982, sei anni dopo la scomparsa di Francisco Franco); a New York ricordo anche di aver visitato la più raffinata collezione privata d’arte antica, la Frick Collection, resa pubblica curiosamente nello stesso anno dell’Armory show. Quando ritornai a Roma, divenni abituale visitatore domenicale della Galleria Nazionale d’arte Moderna, allora diretta ancora dalla mitica Palma Bucarelli (1910-1998). Non avrei mai immaginato che un giorno, come ho accennato più sopra, sarei stato anch’io funzionario dello storico museo.
Farcito di questi ricordi che credetti di poter collegare alle lezioni di Marisa del 1982-83, mi presentai alla cattedra della professoressa Marisa Volpi secondo le sue indicazioni più sopra riportate: ella mi convocò, stranamente, insieme alla collega Antonella Sbrilli, per sostenere l’esame, che in brevissimo tempo si svolse in questo modo: esordii dicendo che avevo letto, ahimè, un testo certo non facile, Arte e Anarchia di Edgard Wind del 1968 , nella traduzione italiana di Rodolfo Wilcock (1919-1978), finissimo intellettuale (oggi piuttosto dimenticato), suggeritomi da un’antica recensione, dallo stesso titolo del libro, Arte e Anarchia, che avevo letto moltissimi anni prima, del celebre anglista Mario Praz (1896-1982), apparsa su “Il Tempo” del 12 gennaio 1969. Fu un errore. Intanto perché è un testo difficile, e anche perché la professoressa Volpi mi fulminò con una domanda a bruciapelo, prima ancora che cominciassi a parlare: “che relazione c’era tra la punta di una scarpa e l’architettura gotica”, alludendo al fatto che Edgard Wind era stato vice direttore della Warburg Library di Londra, e che proprio nel testo da me esaminato, a pag. 42, si legge esattamente: “Il suo punto di vista – scriveva Wind a proposito dello studioso svizzero Heinrich Wölfflin (1864-1945), teorico del «purismo estetico» – si riassume nella sua famosa affermazione che l’essenza dello stile gotico è tanto evidente in una scarpa appuntita quanto in una cattedrale”, brano da me sottolineato nel testo, che ancora conservo nella prima edizione italiana del 1968. Marisa la citò a memoria, ed io, preso alla sprovvista, non so come, mi impappinai, forse intimidito dalla perentorietà della domanda, il che mi impedì di iniziare a sostenere un discorso più largo, come mi sarei sentito in grado di affrontare. Marisa, con grande garbo, ma con altrettanta fermezza, mi disse di approfondire il mio studio su Warburg e su ciò che esso significava. E me la sarei potuta cavare se avessi avuto la prontezza di rispondere che l’essenza della teoria di Aby Warburg (1866-1929) (di cui proprio nel 1983 era uscita la prima traduzione italiana della biografia scritta da Ernst H. Gombrich) consisteva nel “pathosformel” ovvero come le immagini archetipe ritornino in contesti diversi attraverso la storia dell’arte: del resto ho trovato nel testo, tra le mie varie sottolineature e annotazioni, la deduzione di Wind, mutuata dal pensiero hegeliano, “…il passato non viene distrutto dal presente, ma sopravvive in esso come forza latente.” Ma prevalse in me l’aspetto emotivo, e preferii allontanarmi subito, e l’esame proseguì con Antonella.
Per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare, prima di quei due anni di frequenza tra il 1982-83 nella scuola di perfezionamento in storia dell’arte (allora diretta da Maurizio Calvesi, altro mio venerato maestro, di cui, proprio negli stessi anni, avevo letto il suo fondamentale saggio La Metafisica schiarita, pubblicato nel 1982), ero già funzionario del Ministero per i Beni Culturali e ambientali, e come primo incarico, nel 1977, durato due anni, avevo prestato il mio servizio presso la Soprintendenza di Perugia, diretta da un altro indimenticabile studioso, Francesco Santi (1914-1993); poi tornato a Roma, mi presentai agli esami scritti e orali (che superai brillantemente), per accedere alla Scuola di perfezionamento. In seguito non ebbi più tempo né la possibilità di ripresentarmi a sostenere l’esame di arte contemporanea. E, lo dico sinceramente, non me la presi più di tanto, non era possibile provare risentimento verso una donna di tale garbo e stile come Marisa Volpi, né mutò il fascino che ella esercitava su di me; e ancora adesso quando mi capita di passare per via Tolmino, mi torna alla mente il suo nome e le sue lezioni sull’arte americana.
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Gli anni passarono, e, scusandomi ancora per qualche riferimento autobiografico, nella primavera del 1987, fui trasferito, su mia richiesta, dalla Soprintendenza di Palazzo Venezia alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Marisa veniva quasi sempre alle importanti inaugurazioni che si tenevano in quel museo diretto allora da Augusta Monferini; salutavo sempre con deferenza la professoressa Volpi, e lei accoglieva il mio omaggio con grazia e sorriso (sono sicuro che non ricordasse quella mia breve e sconclusionata presenza ai suoi esami di cinque anni prima).
L’anno dopo, soprattutto dopo la grande mostra di de Chirico, per il Centenario della nascita , nel 1988 a Venezia, Museo Correr, curata da Maurizio Calvesi, Marisa scrisse un bellissimo articolo, De Chirico e i filosofi della visione, apparso su “Il Tempo” del 5 ottobre 1988, non mancando di citare in chiusura le mie numerose schede in catalogo delle opere esposte, e quelle di Pasqualina Spadini, e questo fu per me motivo di grande soddisfazione.
Inoltre devo ricordare che Marisa, in quel 1988, aveva partecipato alla importante mostra che si tenne nella Galleria Nazionale Galleria Nazionale d’Arte Moderna, in accordo culturale- diplomatico con la Germania, “I Deutsch-Romer”. Il mito dell’Italia negli artisti tedeschi.1850-1990”, (22 aprile-29 maggio 1988) nel quale Marisa scrisse un illuminante saggio, Immaginazione e realtà nel paesaggio dei “Tedeschi-Romani”, in un’analisi preziosa di personalità artistiche, quali Anselm Feuerbach, Hans von Marées, Arnold Böcklin, vissuti in Italia in quel torno di tempo. Questi pittori, che tanta influenza hanno avuto sulla formazione giovanile del nostro amato Giorgio de Chirico, Marisa li aveva già sinteticamente illustrati in un articolo apparso su “Il Giornale” del 15 novembre 1987, dal titolo Quel sogno chiamato Italia, che conservo ancora nel mio archivio, per l’importanza che ebbe sui miei successivi studi dechirichiani: l’articolo di Marisa si concluse infatti con queste parole:”L’ermetismo onirico di certi quadri di Böcklin come “Odisseo e Calipso” e l’accento metafisico dello spazio e dei volumi di Marées saranno tra le fonti significative non solo della pittura di De Chirico, ma di molta arte del Novecento europeo.” [figg. 21-22-23-24-25-26]
Negli anni relativamente più recenti, ebbi altra occasione di incontrare Marisa per chiederle l’autorizzazione a ripubblicare uno dei suoi incantevoli ritratti-racconti di artisti dal suo libro più sopra citato, Fatali Stelle, pubblicato nel 1998 dalla “Longanesi & C.” e che figurava da questa data tra i miei libri.
Fui cortesemente convocato nella sua bella casa di via Panama, dove Marisa viveva tra quadri, libri e carte di lavoro; le chiesi se acconsentiva ad inserire il suo racconto, Il cuore di Degas, per il catalogo della mostra da me curata per la serie “L’opera in prestito”, (che rientrava tra i miei incarichi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna), intorno al grande e noto dipinto dell’artista francese, La famiglia Bellelli, 1858-1867, cm. 200×250, appartenente al Musée d’Orsay e temporaneamente prestato dal museo parigino dall’ottobre del 2005 al gennaio del 2006 alla nostra Galleria. Marisa naturalmente accolse la ma richiesta con la sua innata cortesia; ormai potevo avere l’onore di annoverarmi tra i suoi amici e quasi colleghi, e cominciammo a scambiarci del “tu”, naturalmente su suo cortese invito, anche perché da alcuni anni, dal 2000 se ben ricordo, frequentavo, al di fuori della mia attività d’ufficio alla Galleria Nazionale, la Facoltà di lettere e filosofia, nel Dipartimento di Storia dell’Arte, in qualità di docente a contratto per la cattedra di Legislazione Artistica, e per la collaborazione alla cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea, dove tenni corsi su Giorgio de Chirico e sulla ritrattistica tra Ottocento e Novecento.
Marisa era ancora in forma, anche se già in età di “professore emerito”, e fu presente all’inaugurazione nella sala dove il celebre dipinto, il più italiano tra le opere di Degas, figurava insieme a molti suoi contemporanei della scuola toscana e macchiaiola, di proprietà della nostra Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Una seconda opportunità di recarmi a casa di Marisa, un paio d’anni dopo, fu mentre preparavo la grande mostra, sempre alla Galleria Nazionale, De Chirico e il Museo (20 novembre 2008 – 23 gennaio 2009) [fig. 28], per domandarle un suo contributo per il catalogo, tra i diversi saggi di altri illustri studiosi, quali Renato Barilli, Maurizio Calvesi, Giovanna Dalla Chiesa, la sua carissima allieva (ormai in cattedra), Antonella Sbrilli, e la più giovane, già appassionata studiosa dechirichiana, AnnaGrazia Benatti, e Michela Santoro. La mostra, con oltre cento opere, tra quelle del museo e della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, fu un successo, inutile dire.
Marisa, come dicevo, mi promise un suo testo, aggiungendo con grazia, “ma piccolo, piccolo”. In realtà Ombre e Prospettive, l’originale titolo che diede al suo saggio, fu densissimo, all’insegna di Nietzsche, sulla formazione di de Chirico: basti citare, per esempio, questo passo così assertivo: “Lo spazio italiano di cui Nietzche è innamorato: Torino, Genova, la costa ligure, rima con quello di de Chirico: Ferrara, Firenze, Roma, piazze con ombre e statue, porticati e malinconie. Si può dire che dal 1910 al 1921 de Chirico è impregnato di Nietzsche”.
L’ultima volta, invece, che ho visto Marisa, tra il dicembre 2012 e gennaio 2013 (un paio d’anni prima della sua scomparsa), fu quando ero andato a trovarla per chiederle se volesse far parte dei soci fondatori dell’Associazione Amici di Giorgio de Chirico, da me costituita per promuovere la formazione di un museo monografico da dedicare, a Roma, all’inventore della pittura metafisica. Anche questa volta Marisa mostrò il suo entusiasmo, mentre era seduta sul divano, tra libri e carte, ed era presente una giovanissima studiosa, di cui non ricordo il nome, ma che certo era lì per apprendere insegnamenti dalla indimenticabile professoressa Volpi.
In quel pomeriggio le dissi che non sarebbe stato necessario per lei scomodarsi per aderire al nascente sodalizio, ma sarebbe bastata la sua firma sul registro delle firme degli altri soci fondatori (circa un centinaio fra docenti, colleghi ed illustri studiosi) e la fotocopia del suo documento di identità: Marisa firmò e chiese alla sua fidata e gentilissima Sandi di procurarmi la fotocopia. Dopo il tè la ringraziai molto e ci salutammo affettuosamente, e le promisi di tenerla aggiornata sugli sviluppi dell’Associazione. Marisa rimase seduta sul suo divano e, nonostante recasse i segni di una certa stanchezza, dovuta ai suoi ottantacinque anni, era ancora sorridente e garbata come l’avevo vista per la prima volta trent’anni prima.
di Mario URSINO Roma giugno 2017