di Nica FIORI
L’ambito territoriale compreso geograficamente tra la piana di Rieti e il monte Giano è stato oggetto di un’approfondita indagine geologica, archeologica, storica e antropica nel volume “Lungo il corso del Velino”, a cura di Alessandro Betori, Francesca Licordari, Paola Piermattei.
Il libro, edito da Officina Edizioni (Roma, 2021) per conto della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio (SABAP) per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti, si caratterizza per l’approccio multidisciplinare scelto per inquadrare un territorio dalla storia importante, ma ancora pressoché sconosciuta al di fuori dei suoi confini, e il suo paesaggio, frutto delle trasformazioni geologiche e dell’interazione tra natura e attività umana. Un’interazione che ha creato “uno straordinario palinsesto, quasi un archivio che va letto e decodificato”, come afferma la soprintendente Lisa Lambusier nella presentazione.
Il paesaggio, in effetti, è associato agli altri beni culturali del Paese in quanto non ha solo un valore estetico, ma è un vero e proprio documento, anzi il documento storico per eccellenza, che include tutti i valori di un territorio.
Giustamente si può parlare di “paesaggio culturale”, la cui etimologia rimanda a un’azione specifica sul territorio realizzata in modo consapevole. Basti pensare che il termine “paesaggio” è stato messo in relazione con le parole latine pagus (villaggio) e gerere (costruire, amministrare), mentre l’aggettivo “culturale” deriva da colere (coltivare). La sua definizione incarna, quindi, il divenire costante della storia delle civiltà che si sono sviluppate, alternate e stratificate in un determinato luogo.
Proprio per cercare di diffondere una più consapevole concezione dell’importanza del territorio intorno al fiume Velino e della sua valorizzazione, i curatori del volume, tutti funzionari del Ministero della Cultura (archeologi Betori e Licordari, architetto la Piermattei), hanno unito i loro sforzi e si sono aperti al confronto con il mondo dell’Università e della ricerca per delineare le caratteristiche del territorio e ricollegare le diverse memorie, emergenze e testimonianze culturali del territorio. Hanno, pertanto, contribuito con i loro lavori Stefania Nisio, Roberto Lorenzetti, Paola Refice, Sergio Madonna, Carlo Virili, Roberto Marinelli. Il taglio è scientifico, ma di scorrevole lettura per tutti e si presume possa diventare un importante punto di riferimento per chiunque voglia occuparsi dell’argomento.
Anzitutto è stata affrontata l’analisi geologica dei diversi ambiti territoriali e degli importanti fenomeni che li caratterizzano. La componente naturale maggiormente rilevante è costituita dalla ricchezza di acque, non solo di superficie, come nel caso del fiume Velino, ma anche sotterranee. Basti pensare alle sorgenti del Peschiera, le cui acque provvedono all’approvvigionamento idrico della capitale, alle acque sulfuree di Cotilia o al complesso sistema di falde sotterranee, che caratterizzano il paesaggio di San Vittorino, e alla gran quantità di laghetti, emersi a seguito di fenomeni di sprofondamento del terreno (i cosiddetti sinkhole), tra cui il lago di Paterno, oggetto di numerosi studi.
La prima parte del volume è dedicata al medio corso del Velino (dal monte Giano alla piana di San Vittorino), la seconda parte a Rieti e alla Piana Reatina. Ricordiamo che il fiume Velino nasce a circa 1.670 m di altezza s.l.m. presso la sorgente Pozzoni, vicino a Cittareale (RI), non lontano dall’antico vicus Falacrinae (dove nacque l’imperatore Vespasiano nel 9 d.C.), e dopo aver attraversato Antrodoco (Interocrium), il vicus Cutiliae (sorgenti termali utilizzate da Vespasiano e da Tito), Rieti (Reate) e la Piana Reatina, conclude il suo percorso nel fiume Nera, in corrispondenza del salto delle Marmore, per proseguire poi nella Piana Ternana.
Di grande interesse è il lungo testo di Betori intitolato “Aquae Cutiliae. L’apporto delle fonti storiche e il contesto archeologico”. Le acque curative di Cutilia, menzionate da molti autori antichi, tra cui Vitruvio (che le definisce “gelide e nitrose”), Plinio, Strabone, Celso, erano ritenute benefiche per le malattie dello stomaco, del sistema nervoso e in generale dell’intero organismo. Dovevano essere collegate al lacus Cutiliae, che era considerato da Varrone (originario di Rieti) l’Umbilicus Italiae.
Un imponente complesso architettonico dalla struttura a terrazze, situato all’altezza del km 87 della via Salaria in località Cesoni, a Cittaducale, viene messo in relazione allo sfruttamento delle acque di Cotilia. L’acqua in questo caso non è più presente, ma sono rimaste una grandissima vasca (ca. 60 x 24 m) e alcune infrastrutture connesse alle cure termali.
Il vicus dove sorgevano le terme è menzionato in più occasioni, e in particolare avrebbe avuto a che fare con la morte di Vespasiano, avvenuta nel 79 d.C.; come racconta Svetonio, infatti, sarebbero state proprio le gelide aquae Cutiliae ad accelerare la morte dell’imperatore.
Vespasiano era un frequentatore delle terme e possedeva nella zona una grande villa, da identificare forse con i resti ritrovati in località Ortali, dove sarebbe morto due anni dopo anche il figlio Tito. Dato questo legame con gli imperatori della dinastia Flavia, il complesso archeologico di Cittaducale è noto con il nome di “Terme di Vespasiano”.
Il complesso, che nella sua fase più antica risale alla tarda età repubblicana (II metà del II secolo a.C.), era ancora attivo nella tarda antichità, epoca in cui viene indicato con grande risalto nella Tabula Peutingeriana.
Non sappiamo se nelle terme, che hanno restituito un’epigrafe con dedica ai Dodici dei, ci fosse anche un culto dedicato a Vacuna, una divinità sabina sulla cui natura lo stesso Varrone era incerto e il cui santuario era legato al lacus Cutiliae, lago da identificare probabilmente con l’attuale lago di Paterno. Nel lago ci sarebbe stata un’isola galleggiante che sarebbe nel tempo sprofondata; del resto Vacuna, il cui nome sembra legato al termine vacuum (vuoto), doveva in qualche modo proteggere da quelle cavità o voragini circolari (dette sinkhole) che si creano in maniera subitanea, dando origine anche a laghi.
Certo ci troviamo in una delle zone più ricche di acqua dell’Italia centrale e proprio a due passi dalle Terme di Vespasiano si trovano i resti della chiesa secentesca di San Vittorino, della quale si parla nel contributo di Paola Piermattei intitolato “La Chiesa delle acque”.
In seguito all’abbandono delle terme romane all’inizio del V secolo, c’è stata una rioccupazione dell’area in età medievale, con il gastaldato di Rieti, e poi la donazione nel 766 dell’azienda agricola sorta sul luogo all’abbazia di Farfa, che ha imposto il culto di san Vittorino di Amiterno, su una precedente piccola pieve dedicata a San Vittore. La sostituzione del culto è legata al fatto che Vittorino sarebbe morto, secondo il martirologio di Adone di Vienne (IX secolo) “presso quel luogo che viene chiamato Cotilia dove sgorgano acque maleodoranti solforose” e, appeso a testa in giù, fu costretto a respirare i vapori delle acque termali, finché non ne fu avvelenato. La chiesa secentesca, che ha preso il posto di una più antica, a sua volta innestatasi su quella di San Vittore, è in parte sommersa dall’acqua: un’acqua che era ritenuta miracolosa un tempo dalle donne che volevano avere un figlio. Questo luogo così particolare ha incantato il regista Andrej Tarkovskij, che l’ha utilizzato come set per il suo film Nostalghia, girato in Italia nel 1983.
L’acqua rappresenta un elemento distintivo della Piana di Rieti, tanto che la stessa città capoluogo della Sabina, attraversata dal Velino e da canali artificiali (ora sotterranei), un tempo veniva definita colloquialmente la “Venezia” del Centro-Italia.
La Piana Reatina, situata nel tratto sabino dell’Appennino centrale, si presenta attualmente come un’ampia depressione (circa 90 kmq), che nel passato è stata più o meno completamente ricoperta di acqua, sotto forma di un lago o di un’estesa palude, a seconda del suo livello, argomento trattato da Sergio Madonna nel suo contributo “La Piana Reatina e il lacus Velinus”.
Le indagini geologiche effettuate ci consentono di ricostruire la situazione a partire dall’inizio del Quaternario (circa un milione e mezzo di anni fa), quando i fiumi Velino e Nera (affluente di sinistra del Tevere) scorrevano allo stesso livello. L’intensificarsi dell’attività vulcanica nella zona ha portato all’immissione graduale di forti quantitativi di carbonato di calcio nelle acque del bacino del Velino; nello stesso tempo il Nera accentuava l’erosione del suo letto, portandosi a un livello sempre più basso rispetto a quello del suo affluente.
In età protostorica la piana si presentava come un ambiente lacustre, che favoriva il posizionamento degli insediamenti umani a quote più basse dando origine a un sistema di abitati di tipo perilacustre, articolato in piccoli villaggi vicini tra loro, dei quali il più importante dal punto di vista archeologico è ritenuto oggi quello individuato in località Paduli (Colli sul Velino, in provincia di Rieti). Carlo Virili, che ha scavato il sito per conto della Sapienza – Università di Roma a partire dal 2011, ha presentato parte dei suoi studi, che si inseriscono in una più ampia ricerca in corso di svolgimento, nel testo intitolato “La Piana di Rieti e il bacino di Piediluco tra Bronzo Antico e Bronzo Medio”.
L’abbondante disponibilità di acqua e l’economia che ne derivava garantivano ampie possibilità di sussistenza alle comunità protostoriche locali, che decaddero quasi improvvisamente e simultaneamente nella prima età del Ferro (seconda metà del IX secolo a.C.), a causa forse di fattori climatici che modificarono l’ambiente (innalzamento della linea di riva dei laghi e conseguente impaludamento dei terreni agricoli), e di fattori socio-politici tesi a stravolgere i vecchi assetti delle comunità. Con la fine dei villaggi perilacustri la frequentazione dell’uomo si spostò sulle alture circostanti, che garantivano da un lato una vita più salubre e dall’altro, data l’abbondanza di acqua nella piana, il controllo delle vie di comunicazione fluviali.
All’inizio del III secolo a.C. assistiamo a un cambiamento epocale. Le vittoriose campagne di Manio Curio Dentato, che nell’anno del suo primo consolato nel 290 a.C. aveva sconfitto sia i Sanniti che i Sabini, portarono la piana nella sfera di influenza di Roma. Dopo la conquista romana il territorio dovette avere una sistemazione amministrativa compatibile con la nuova situazione politica e in questo quadro si ritiene sia stato dato corso a un progetto di bonifica dell’area attorno a Rieti, per contenere i frequenti straripamenti del Velino dovuti alla mancanza di una via di sfogo idonea a smaltire l’eccesso di acqua. Il contributo di Francesca Licordari, “Il territorio dell’antica Reate e la bonifica romana”, approfondisce la storia del periodo romano, quando si diede inizio ai lavori di bonifica con la costruzione del Cavo Curiano, ordinata nel 271 a.C.
Si trattava di un canale artificiale che permetteva alle acque stagnanti raccoltesi nella Piana di Rieti di confluire direttamente nel Nera, creando il salto della Cascata delle Marmore. La creazione di questa via di sfogo consentì di prosciugare la piana, anche se non completamente, in quanto nelle zone più depresse rimasero (e rimangono tuttora) dei piccoli bacini: Piediluco, Fogliano, Ventina, Lungo e Ripasottile.
L’Agro Reatino ritornò ancora una volta a essere abitabile e consentì la ripresa economica, basata sull’agricoltura e sull’allevamento, come quello degli ovini legato alla pastorizia transumante, la cui tradizione doveva risalire all’epoca preromana, e quello dei cavalli, in particolare quelli “roseani” descritti da Varrone, dei muli e degli asini, considerati al tempo come i migliori dell’Impero.
Si diffusero nell’area alcune villae rusticae, dove i senatori romani sfruttavano la fertilità della terra che era coltivata da schiavi, tra le quali si ricorda la Villa d’Assio, dove sarebbe stato ospitato Cicerone.
La città di Reate, fondata dai Sabini nell’VIII secolo a.C., secondo una tradizione deriverebbe il proprio nome da Rea Silvia, mitica madre di Romolo e Remo, apparentandosi già nel nome con l’origine di Roma, prima del “ratto delle sabine” da parte dei Romani, che di fatto portò a uno stretto legame tra i due popoli. Di grande interesse nel contributo di Francesca Licordari è la parte relativa al ponte romano sul Velino, per il quale propone un’attribuzione diversa da quella corrente, in seguito all’approfondimento dell’unica iscrizione relativa al ponte stesso. Secondo la studiosa, si deve anticipare a Caligola la sua costruzione, che era prima attribuita a Claudio.
Nella tarda antichità e nell’alto Medioevo la città di Rieti assume un ruolo di notevole importanza nell’Italia centrale, mantenendo un’economia basata sull’allevamento e sulla coltivazione intensiva della piana, finché con i Longobardi ci fu una mutazione del sistema economico, che causò il lento ma inesorabile impaludamento, tanto che l’unico sistema di collegamento tra Rieti e Terni era la barca.
Nel periodo rinascimentale la valle reatina su iniziativa dei pontefici è stata nuovamente oggetto di bonifiche. Si ricordano tra gli ingegneri-architetti anche Antonio da Sangallo, Carlo Maderno e Giovanni Fontana. Alla fine del Settecento l’Agro Reatino era in parte bonificato e il paesaggio, caratterizzato da ampie strutture agrarie, era sostanzialmente simile a quello attuale.
Quello della portata d’acqua è l’elemento che maggiormente caratterizza la storia del fiume Velino. Nell’Ottocento con la rivoluzione industriale Terni riesce a sfruttare questa risorsa idrica per i suoi impianti siderurgici, elettrici e chimici, mentre nell’area reatina prende piede il progetto della definitiva soluzione al problema della bonifica. Il secolo successivo con la fondazione della provincia di Rieti (1927) e l’istituzione del Consorzio di Bonifica (1928) si arriva alla regimentazione delle acque, creando i due laghi artificiali del Salto e del Turano, canalizzando i principali corsi d’acqua della piana (come il Santa Susanna), creando sistemi di irrigazione e infine l’impianto idrovoro di Ripasottile (inaugurato nel 1956).
Nica FIORI Roma 8 Gennaio 2023